Feeentissima pubblicazione, nei '' Manuali
Hoepli " ;
MICHELE SCHERILLO
LE OKIGINI E LO SVOLGIMENTO
DELLA LETTERATURA ITALIANA
I
LE ORIGINI:
DANTE - PETEAECA - BOCCACCIO
Un volume in-16 di pag. xvi-686, legato L. 10,50
Seguiranno prossimamente :
II
IL RINASCIMENTO:
MACHIAVELLI - AEIOSTO - TASSO
III
IL ROMANTICISMO:
ALFIEEI - MANZONI - LEOPAEDI
B^ Questa nuova Storia letteraria vuole essere il com
plemento e Vintegrazionr della Bil)lioteca dei Clas-
sici Italiani -••
Milano — ULRICO HOEPLI - EDITORE — Milano
GIACOMO LEOPARDI
I CANTI
Ritratto a olio, eseguilo da Domenico Morelli ventenne, « valendosi
della maschera e dipingendo tutte le minuxie che Antonio Ranieri e gli
altri amici dell'estinto gli andavano amorosamente indicando ». Il Ranieri
stesso attestava : « la somiglianxa n'è sembrata, a me e a tutti, miracolosa,
trattandosi che l'artista inai non conobbe -V uomo vivo».
F GIACOMO LEOPARDI
I CANTI
CON
LA VITA DEL POETA
NARRATA DI SU L'EPISTOLARIO
DA
MICHELE SCHERILLO
Quarta edizione, rinnovata e aumeHo^ata
S" . \ Q <
ULRICO HOEPLI
EDITORE LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
iy20
PROPRIETÀ LETTERARIA
Milano — Tipografia Uiiilifirto Allegretti -^ Vi» Orti, 2.
ALLA CARA E GLORIOSA MEMORIA
DEL MIO MAESTRO
BONAVENTURA ZUMBINI
Qui viri excellentis amor et affectìin
usque ad rilàe eius exlremum uno
erga me semper tenore permansil .
ci in me nunc eliam vivit, neqvc
iinquam desine l nisi eyo ante de-
siero ».
Petkakca. Upislola ad poslcros.
• • • •
• •
• •••••••
INDICE
Dedica
Pag.
VII
LA VITA DEL POETA NARRATA DI SU L'EPISTOLARIO
Avvertenza
I. La lettera autobiografica
IL II padre tiranno. — Il tentativo di fuga dalla casa pa
terna
Ili, Monaldo Leopardi e la sua Autobiografia
IV. La madre di Giacomo
V. La ripugnanza di Giacomo alla prelatura, e la rinunzia
ai benefizi ecclesiastici della sua famiglia
VI. L'angustia di mente e di cuore della madre di Giacomo
e le gravi accuse del marito e dei figli
VII. Il Leopardi e lo Spettatore. — Il saggio di traduzione
dell'Odissea e dell'Eneide. — Le prime lettere al Mai
al Monti e al Giordani, — La genesi dell' ammirazione
e dell'amicizia pel Giordani, prima ancora di conoscerlo
di persona
Vili. Le lettere recanatesi al Giordani. — La cantica Ap-
pressamento della morte. — Recanati e i mali fisici e
morali di Giacomo. — Il vagheggiato suicidio
IX. Il miraggio del mondo di là dall'Appennino. — La visita
del Giordani a Recanati
X. Il Giordani a Recanati. — I colloqui con Giacomo e i
sospetti di Monaldo. — L'accusa del Gioberti e del Cap-
poni in danno del Giordani
XI. Giacomo esce finalmente del nido. — I buoni uffici dello
zio Carlo Antìci. — A Roma, nell'inverno 1822-1823. —
Il Canovai la zia Ferdinanda. — L'interessamento del
Niebulir. — Ritorno a Recanati. — L'invito del Vieus-
seux a collaborare neW Antologia
XII. Giacomo a Milano e a Bologna (1825-1826). — L'inte-
ressamento del Bunsen. — Il freddo di Bologna. — L'in-
vito alle Università di Berlino e di Bonn
XIII. La primavera del 1826 a Bologna. — Una gita in Ro-
45
52
61
75
85
92
INDICE
ru(j.
magna. — Il ritorno a Kecanati nel novembre. — La
primavera del 1827 nuovamente a Bologna, e l'estate a
Firenze. — L'incontro del Leopardi col Manzoni, e il
suo giudizio sui Promessi Sposi 99
XIV. A Pisa, nell'inverno 1827-1828. — Il Bisorcjimenlo e
A Silvia. — Giacomo assi.ste a xina lezione del Carmi-
gnani e a una recitazione del Guadagnoli. — Il professor
Rosini. — La morte del fratello Luigi. — Il ritorno a
Firenze e la malinconica estate del 1828. — Il ritorno a
Recanati lOfi
XV. L'ultima dimura a Recauati, dal novembre 1828 all'a-
prile 1830. — Nuove smanie d'uscirne. — L'interessa-
mento del Colletta. — Il matrimonio di Carlo. — Il
mancato premio della Crusca. — La sottoscrizione fio-
rentina 112
XVI. Il ritorno a Firenze (maggio 1830). — L'edizione fio-
rentina dei Canti. — Il De Siuner — Giacomo deputato
di Recanati. — A Roma, autunno 1831 e inverno 1832.
— Nuovamente a Firenze, primavera 1832 . . . 119
XVII. Il Leopardi va a Napoli (2 settembre 1833). — Cle-
menza del clima e inclemenza degli abitanti. — La cul-
tura filosofica a Napoli e la satira I nuovi credenti. —
La rivista II Progresso. — La visita del Leopardi alla
Scuola del Puoti. — La visita del Platen al Leopardi 128
XVIII. Il Leopardi a Napoli in compagnia del Ranieri. — Il
disegno d'andare a Palermo. — La ristampa napoletana
dei Canti, e il rigore della Censura. — L'epideuìia cole-
rica. — Le ultime lettere. — La morte .... 135
XIX. Il seppellimento della salma. — Il dolore, l'interessa-
mento e rei)icedio di Alessandro Poerio. — La tomba
nel portico di San Vitale. — La Scuola del De Sauctis. —
Il pellegrinaggio alla tomba. — Il monumento nazionale 113
APrKNDICE ALLA « VlTA DEL POBTA ».
Il Leopardi fu davvero sepolto a Fuorigrotta? ... 153
I CANTI
Notizia intorno alle edizioni di questi Canti .... H>4
I All' Italia K't
II Sopra il monumento di Dante che si i'kk-
PAKAVA in Firenze K'9
III Ad Angelo Mai, quand'ebbe trovato i libri
DI Cicerone della Repubblica . . 171
IV Nelle nozze della sorella Paolina . 179
\' A UN vincitore nel PALr-ONK .... 182
\ I Bruto minore 1^1
INDICE
XI
VII
Vili . . .
IX
X
XI .
XII
XIII ...
•XIV
XV
XVI
XVII. . .
XVIII . .
XIX . . .
XX
XXI . . .
XXII. . .
XXIII. .
XXIV . .
XXV . . .
XXVI . .
XXVII .
XXVIII
XXIX . .
XXX. .
XXXI
XXXII .
XXXIII
XXXIV .
XXXV.
XXXVI.
N PASTORE
ERRANTE
Alla Primavera, o delle favole antiche
IxKO AI Patriarchi, o be' principii del ge-
nere UMANO .
Ultimo canto di Saffo
Il primo amore
Il passero solitario
L' infinito .
La sera del dì di festa
Alla Luna
Il sogno .
La vita solitaria
Consalvo .
Alla sua donna
Al conte Carlo Pepoli
Il risorgimento
A Silvia
Le ricordanze
Canto notturno di u
dell'Asia ....
La quiete dopo la tempesta
Il sabato del villaggio .
Il pensiero dominante
Amore e Morte . .
A se stesso ....
Aspasia
Sopra un basso rilievo antico sepolcrale
DOVE una giovane MORTA È RAPPRESENTATA
IN ATTO DI PARTIRE, ACCOMIATANDOSI DA,I
SUOI
Sopra il ritratto di una bella donna scol-
pito NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA ME-
DESIMA
Palinodia, al marchese Gino Capponi
Il tramonto della Luna
La ginestra, o il fiore del deserto .
Imitazione
Scherzo
Pufj.
1S7
19<)
193
19Ó
198
20()
ivi
2Ó2
ivi
20;5
208
212
211
218
223
224
229
233
23.-1
236
240
244
ivi
247
250
252
260
262
270
271
Frammenti.
XXXVII . . «Odi. Melisso: io vo' contarti un sogno»
XXXVIII . «Io qui vagando al limitare intorno»
XXXIX. . . «Spento il diurno raggio in occidente»
XL Dal greco di Simouide ....
XLI .... Dello stesso
Note del Leopardi medesimo
271
272
273
275
276
278
XU INDICE
LLUSTRAZIOXI.
Lk duk prime oanzoni.
Pan.
I. Composizione e stampa delle due canzoni. — Le tracce
manoscritte, e la perorazione del Discorso sulla poesia
romantica. — Uno spunto dall' Or/js. — La dedicatoria
al Monti, e la risjìosta 285
IL La « formosissima donna » e la « donna di forme alte e
divine * del Beneficio. — La « Italia imbriaca» e ■« Serva
derisa», — < L'armi, qua l'armi! ». — Simonide e il bardo
Ullino. — I giudizi del Leopardi sulla poesia del Monti.
— Monti e Byron. — La conoscenza personale dei due
poeti. — 1 Dialoghetli di Monaldo, e la frecciata di Gia-
como al carattere del Monti '293
III. Alcune cbiose alla canzone All' Italia. — Un sonetto
di A. Marchetti. — Giudizi del Leopardi sul Testi,
sul Cliiabrera, sul Guidi, sul Filicaia. — I Paralipomeni
e l'inestinto sentimento Altìeriano. — La Francesca del
Pellico. — Le Termopile. — Il frammento di Simonide 304
IV. Alcune chiose alla canzone Sopra il momimento di Dante.
— Il Leopardi a Ravenna. — La giovanile orazione AgV 1-
taliani. — Giacomo misogallo 314
V. La sconcia edizione delle due Canzoni. — La censura
paterna. — Due canzoni rimaste inedite. — L'amore di
Giacomo pei Greci e l'odio di Monaldo. — L'edizione
bolognese dei Versi, 1824 . 320
Ad Angelo Mai.
I. Composizione e stampa della Canzone. — La dedica. —
La proibizione della Censura austriaca. — I rapporti
del Leopardi col Mai. — Il frammento di Libanio. . 325
IL Giudizi del De Sanctis e dello Zumbini. — La «sede de'
giusti». — Lo «strider dell'onda all'attufifar del sole».
— « Conosciuto, il mondo non cresce ». — Dante, Ariosto,
Tasso, Alfieri 331
Alla sorella Paolina e A un vincitore nel pallone.
I. Composizione e prime tracce, — Alla sorella Paolina.
— Il giudizio del De Sanctis. — Le donne e le sorti
d'Italia. — Le «beate larve», «l'antico error», r«ermo
lido », r« obbrobriosa etate». — I figliuoli «miseri o co-
dardi ». — Il < gracil petto ». — « Nefando stile ». — « Virtù
viva sprezziam ». — Mimnermo e Anacreonte, — Amore
sprone a virtù. — Il « femmineo core », il «rozzo acciar»,
r« Èrebo», — La Virginia alfieriaua e la manzoniana , 1342
II. Il vincitore nel giuoco del pallone che ispirò la can-
zone. — Gli esercizi ginnastici e la rigenerazione poli-
INDICE xin
Pag.
tica. — Chiabrera e Alfieri. — Riscoutri con Parini.
Orazio, Geremia. Paolino d'Aquileia, Ossian, —La « vita
Iteata». — Il giudizio del De Sanctis 353
BriLTO MINORE. Alla Primavera. Ai Patriarchi, Saffo.
I. Data della composizione. — Il preambolo al Bi-nto. — Le
prime idee del Bruto e della Safo. — Chiose al Bruto
e alla Saffo. — Giudizio del Carducci e dello Zumbini. .359
IL Alla Primavera. — Le favole mitologiche e i poeti mo-
derni. — Il sermone Sulla Mitologia del Monti. — Giu-
dizio dello Zumbini. — Qualche chiosa. — h'inno ai
Patriarchi e gl'inni Cristiani. — Traccia àeW Inno ai
Patriarchi. Abbozzo deir/>ì>*o al Bedenlore. — Qual-
che chiosa 371
Il primo amore k il Frammento xxxviii, il Frammento
XXXIX E II sogno. La sera del dì di festa.
I. Composizione del Primo amore. — La Gertrude Cassi. —
Il Diario d'amore o Storia d'^m'anima. - Li'Blegia II
e il Frammento XXXVIII. — Shakespeare. — La trac-
cia delle nuove Elegie. — Qualche chioserella . . 381
IL Un'altra traccia di Elegia e il Frammento XXXIX. —
A una fanciulla. — Il Sogno e la forosetta Brini. —
Chiose al Sogno e alla Sera del àX di festa . . . 389
Il Passero solitario e gl'Idilli, L'infinito, La vita so-
litaria, l'Imitazione.
Data della composizione e della stampa. — Altre tracce d'I-
dilli. — Chiose al Passero. — U Infinito. — La lezione
del De Sanctis sulla Vita solitaria, e qualche nostra
chiosa. — L,' Erminia e la Telesilla. — 'L' Imitazione e ,
La feuille dell'Arnault. — La caduta delle foglie nel-
V Iliade e nella Bibbia. — Lamartine 396
A Silvia, Il risorgimento, Le ricordanze. Alla sua
DONNA.
Data della composizione. — Lo spunto del Risorgimento. —
Il canto di una fanciulla. — La Teresa nei Ricordi di
Giacomo. — La tragedia Maria Antonietta ed il Cimi-
tero della Maddalena. — Nerina e Silvia. — Alla sua
- donna. — Chiose al canto A Silvia e alle Ricordanze.
— Per morte di amata donna 411
Consalvo, Aspasia. Amore e Morte, Il pensiero domi-
nante, A SE STESSO.
Lodatori e detrattori del Consalvo, — Byron. — Leopardi
romantico. — I nomi di Consalvo e di Elvira. — Il So-
XIV INDICE
/V/(/
gno. — Chi sia l'Elvira. — La data del Consalvo. —
Nella ])riniavera e nell'estate del 1831. — Le richieste
d'antografi. — La i»artenza ijer Roma e il volontario e
doloroso esilio. — Le lettere alla Fanny. — Il ritorno a
Firenze. — Nuove lettere alla Fanny. — Amore e Morte.
— Le fonti del Consolro. — Gli Sciolti al Chigi e i Pen-
sieri d'amore. — Il Werther. — L'Aspasia. — A se slesso.
— Ad Arimùne 124
LEorARDi E Hervet.
A proposito delle canzoni Sopra il ritratto di una bella
donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima
e Sopra un basso rilievo antico sepolcrale . . . l.'lt
Il fiore del deserto.
Il Leopardi .sull'arida schiena del Vesuvio. — L'amaro e di-
sdegnoso sorriso in cospetto del mare di Napoli. — L'a-
scensione al Vesuvio. — Goethe. — Il fiore della gine-
stra. — La rovina desolata. — Il sarcastico accenno al
Mamiani. — La lotta dell'uomo coijtro la natura. — La
marina napoletana ricordata solo cóme specchio di ter-
rori, — La lava descritta dalla Stael. — Il «sepolto sche-
letro». — La solidarietà umana nel dolore. — Lo svol-
gimento del pensiero filosofico del Leopardi . . . 17')
LA VITA DEL POETA
NARRATA DI SU L'EPISTOLARIO
G. Leopardi.
Avvertenza. — Adopero e cito, v^rV Epistolario, la quinta ristampa,
in tre volumi. Firenze, Successori Le 3Ionnier, 1892; per lo Zibaldone,
l'unica edizione, ufficiale, in sette volumi. Pensieri di i-aria filosofìa
e di belìo letteratura di G. L., Firenze, Succ. Le Monnier, 1S9S-1900.
Bell'Epistolario leopardiano F. De Sanctis ebbe a scrivere {Sa'ggi
critici, Napoli 1874, p. 212 ss.): Queste lettere sono «il più eloquente
comento delle sue scritture, e la materia quasi ancor grezza ch'egli
nelle poesie lavorò e condusse a tanta perfezione...; sono pietoso rac-
conto dei casi della sua vita, e quasi ritratto dell'animo dello scrit-
tore... Ei non vide quaggiù cosa alcuna pari al suo animo, che valesse
i moti del suo cuore; e più che il dolore, l'ijierzia, quasi ruggine, con-
sumò la sua vita ; solo, in questo ch'ei chiardava formidabile deserto
del mondo. In tanta solitudine la vita diviene un dialogo dell'uomo
con la sua anima, e gl'interni colloquii rendon più acerbi ed intensi
gli afletti rifuggitisi amaramente nel cuore, poi che loro mancò nutri-
mento in terra. Tristi colloquii e puf cari, onde l'uomo, suicida avol-
toio, rode perennemente sé stesso», ed accarezza la piaga che lo con-
duce alla tomba ».
E dello Zibaldone ha recentemente scritto B. Zumbini (Studi sul
Leopardi, voi. I, Firenze. G. Barbèra, 1902, p. 92): «Lo Zihaldvne
è una fonte inesauribile di preziosi documenti per la vita, per la dot-
trina e per l'arte del Leopardi, per tutto ciò, insomma, che possa avere
qualsiasi attinenza coU'esser suo. Oltre che i tesori del suo sapere, egli
versò qui tanta parte dei suoi più segreti ailetti; e scrivendo in esso
ogni giorno ed anche più volte in un solo giorno, venne a segnarvi lì
per li ogni passo da lui stampato sul cammino della vita: e ogni suo
passo fu come un nuovo acquisto e un nuovo dolore ".
Mi occorrerà anche spesso di citare:
Lettere scritte a Giacomo Leopardi dai suoi parenti, a cura di G. Pikr-
GiLi; Firenze, Succ. Le Monnier, 1878.
Scritti letterari di Giacomo Leopardi, ordinati e riveduti per cura di
Giovanni Mestica, volumi due; Firenze, Succ. Le Monnier, 1899.
Nuovi documenti intorno agli scritti e alla vita di Giacomo Leopardi,
raccolti e pubblicati da G. Piergili; Firenze, Succ. Le Monnier.
1892.
Appendice alV Epistolario e aali- Scritti e alla vita di Giacomo Leopardi.
a compimento delle edizioni fiorentine, per cura di Prospero Viam :
Firenze, G. Barbèra, 1878.
Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane: Firr-nz- .
Succ. Le Monnier, 1906.
• •••••••••••^•••••*
La lettera autobiografica.
All'amico bolognese conte Carlo Pòpoli, quel medesimo
a cui indirizzò gli Sciolti Questo affannoso e travagliato sonno,
Giacomo Leopardi scriveva nel 1826, mentre si trovava an-
cli'egii a Bologna:
Ti mando le notizie poco notabili della mia vita...
Nato dal conte Monaldo Leopardi di Recanati, città della Marca
di Ancona, e dalla marchesa Adelaide Antici della stessa città, ai 29
giugno del 1798, in Recanati.
Vissuto sempre nella patria fino all'età di 24 anni.
Precettori non ebbe se non per li primi rudimenti che apprese da
pedagoghi, mantenuti espressamente in casa da suo padre. Bensì ebbe
l'uso "di una ricca biblioteca raccolta dal padre,- uomo molto amante
delle lettere.
In questa biblioteca passò la maggior parte della sua vita, finché
e quanto gli fu permesso dalla salute, distrutta da' suoi studi; i quali
incominciò indipendentemente dai precettori in età di 10 anni, e con-
tinuò poi sempre senza riposo, facendone la sua unica occupazione.
Appresa, senza maestro, la lingua greca, si diede seriamente agli
studi filologici, e vi perseverò per sette anni; finché, rovinatasi la vista,
e obbligato a passare un anno intero (1819) senza leggere, si volse a pen-
sare, e si affezionò naturalmente alla filosofia; alla quale, ed alla bella
letteratura che le è congiunta, ha poi quasi esclusivamente atteso fino
al presente.
Di 24 anni passò in Roma, dove rifiutò la prelatiu'a e le speranze
di un rapido avanzamento offertogli dal cardinal Consalvi, per le vive
istanze fatte in suo favore dal consiglier Xiebuhr, allora Inviato straor-
dinario della Corte di Prussia a Roma.
Tornato in patria, di là passò a Bologna, ecc.
Pubblicò, nel corso del 1816 e 1817, varie traduzioni ed articoli ori-
ginali nello Spettatore, giornale di Milano, ed alcuni articoli filologici
nelle Effemeridi Romane del 1822:
4 LA VITA DEL P.OETA
1° Guerra dei topi e delle rane, tradxizione dal greco; Milano, 1816:
ristampata quattro volte in diverse collezioni.
2° liuio a yettuno (supposto), tradotto dal greco, novamente sco-
perto, con note e con appendice di due odi anacreontiche in greco (sup-
poste) novamente scoperte; Milano, 1S17.
3° Libro secondo dell'Eneide, tradotto; ^Milano, 1S17.
4.^ Annotazioni sopra la Cronica di Eusebio, pubblicata l'anno
1S18 in Milano dal dott. Angelo Mai e Giovanni Zohrab; Roma, 1823.
5° Canzoni sopra l'Italia, Sopra il monumento di Dante che si
prepara in Firenze; Roma, 1818. Canzone ad Angelo Mai, quatid'ebbe
scoperto i libri di Cicerone della Repubblica; Bologna, 1820. Caìizoìii
(cioè Odes et non pas Chansons); Bologna, 182i.
6° Martirio de' SS. Padri del Munte Sinai, e dell'Eremo di Bailii,
composto da Ammonio Monaco, volgarizzamento (in lingua italiana del
siv secolo, supposto) fatto nel buon secolo della lingua italiana; Mi-
lano, 1826.
7° Saggio di operette morali; nell'Antologia di Firenze, nel nuovo
Raccoglitore, giornale di Milano; e a parte, villano, 1826.
8° Versi (poesie varie); Bologna, 1826.
II.
Il ijadre tiranno. — Il tentativo di fuga dalla casa ;paterna.
Dei grandi poeti avviene come dei grandi conquistatori,
e in generale come di tutti quegli eroi del pensiero o del-
l'azione che diventan cari al popolo. La fantasia popolare
va intorno alla loro memoria con carezzosa e materna par-
zialità, li vaglieggia, come Dante diiebbe, « or da coppa or
da ciglio ^>, saciiticando ad essi ogni altro sentimento, com-
preso quello della giustizia e della verosimiglianza. Pur di
renderne più eccelso il monumento, essa accumula nello
fondamenta di questo i cadaveri di quanti hanno avuto la
sventura di aver con l'eroe relazioni perfin soltanto crono-
logiche. Ed è veramente curiosa la drammatica lotta che
ogni giorno si combatte tra la leggenda, che cerca di pene-
trar di sorpresa negli accampamenti della storia, e la cri-
tica, che vigila per ricacciarla indietro. Si ripensi al Tasso.
Per codesto prediletto infelice, indulgenza sconfinata e am-
mirazione costante, pur quando le sue i)osteriori confessioni
MONALDO
vengono a toglier fedo alle accuse da lui pronunziate in
momenti di delirio ; pel duca Alfonso, pei suoi amici o rivali,
pei suoi critici o corrispondenti, insazia.bili preteso di lon-
ganimità, di liberalità, di tolleranza meglio che evangelica.
Per lui, l'aureola della persecuzione e del martirio; per gli
altri, la gogna, come a persecutori o carnefici.
Qualcosa di simile è avvenuto col Leopardi. Della sua
straziante infelicità la fantasia popolare lia voluto un re-
sponsabile, su cui poter saziare una generosa vendetta. Chi
non ricorda il perfido ma umano e politico consiglio di
Caifas ai Farisei?
Consigliò i Farisei, che convenìa
Porre un uom per lo popolo a' martìri.
E l'uomo, cui questa volta è toccata la parte di vittima, è
stato proprio colui che puro aveva fatto al mondo il pre-
zioso dono del grande poeta !
In verità, chi indicò Monaldo alla esecrazione pubblica fu
Giacomo medesimo. Scrivendo da Eecanati al conto Giulio
Perticari, ch'era a Pesaro, il 9 aprile 1821, una di quelle sue
lettere disperate, egli diceva:
Al vostro caro e pietoso invito rispondo ch'eccetto il caso di una
provvisione, io non vedrò mai cielo né terra che non sia recanatese,
prima di quell'accidente che la natura comanda ch'io tema, e che ol-
tracciò, secondo natura, avverrà nel tempo della mia vecchiezza: dico
la morte di mio padre. 11 quale non ha altro a cuore di tutto ciò che
m'appartiene, fuorché lasciarmi vivere in quella stanza dov'io traggo
tutta quanta la giornata, il mese, l'anno, contando i tocchi dell'orinolo.
Par qui di sentire già il mormorio di quei versi, così mira-
bilmente belli, ma anch'essi così cupamente tristi, delle
Micordanze :
Viene D vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo supn, mi rimembra, alle mie notti.
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava.
Sospirando il mattin.
E non aveva madre, padre, codesto povero bambino,
lasciato così solo e al buio, in preda ai terrori della sua im-
LA VITA DEL POETA
maginazioue ? E la casa avita era resa una prigione a chi
V per cieco m?lor, condotto della vita in forse », si vedeva
costretto a piangere » la bella giovinezza » e il cadente fiore
dei suoi poveri dì, e. a poetare <- dolorosamente alla fioca lu-
cerna, all'ore tarde, assiso sul conscio letto » ?
Il carceriere, i lettori lo imparano fremendo, era Monaldo ;
carceriere severo e. per di piii, taccagno. Al suo amabile
Pietro Giordani, ch'era allora a Piacenza, Giacomo scriveva
dal suo inospite borgo, il 5 dicembre 1817:
Sappiate che io non ho un baiocco da spendere; ma mìo padre mi
provvede di tutto quello che io gli domando, e brama e vuole che gli
domandi quello che desidero. E io tra il non avere e il domandare
scelgo il non avere, eccetto se la necessità de' miei studi o la voglia
troppo ardente di leggere qualche libro non mi fa forza. E dico la voglia
di qualche libro, perchè niente altro che libri gli ho domandato mai,
fuor solamente im paio e mezzo di cavalli di posta, ch'egli non mi dà,
perchè s'è persuaso d'una cosa che non mi sono persuaso io, cioè che
io abbia a fare il galantuomo in casa sua.
In casa sua! E a vent'anhi, Giacomo, insofferente della
prigionia, tentò fuggirne. Chiese, o lasciò chiedere, al Per-
ticali se a Eoma avrebbe potuto trovare da guadagnar tanto
da non morirvi di fame. Gli fu risposto che « tutto il buono
a Roma era per li preti )>; se mai. gli si poteva dare ijualche
consiglio per spendervi meno. Ed egli ripicchiava impazien-
tito, scrivendone al Giordani (26 marzo 1819):
Ma quando eziandio costasse il meno che si possa immaginare,
questo non è il caso mio, cercare il dove, ma il come. Mio padre è stra-
d;^liberato di non darmi un mezzo baiocco fuori di casa, vale a dire
in nessun luogo, stantechè neppur qui mi dà mai danaro, ma solamente
mi fornisce del necessario come il resto della famiglia. Mi permette
sibbene ch'io cerchi maniera d'uscir di qua senza una sua minima
spesa; e dico mi permette, giacch'egli non muove un dito per aiutarmi;
piuttosto si moverebbe tutto quanto per impedirmi... Il fatto sta che
qualunque luogo mi dia tanto da vivere mediocrissimamente sarà con-
venientissimo per me. né io penso di poter uscire di questa caverna
senza spogliarmi di molte comodità che non mi vagliono a niente senza
l'aria e la luce aperta.
I malanni che col sopravvenire dell'estate del '19 diven-
nero pili gravi, affrettarono l'audace risoluzione. Eiscriveva
al Giordani, ora in Milano, il 20 hmlio:
IL TENTATIVO DI FUGA
Nell'età che le complessioni ordinariamente si rassodano, io ve sce-
mando ogni giorno di vigore, e le facoltà corporali mi abbandonano a
vma a una. Questo mi. consola perchè mi ha fatto disperare di me stesso,
e conoscere che la mia vita non valendo piti nulla posso gittarla, come
farò in breve, perchè non potendo vivere se non in questa condizione
e con questa salute, non voglio vivere, e potendo vivere altrimenti bi-
sogna tentare. E il tentare così come io posso, cioè disperatamente e
alla cieca, non mi costa più. niente, ora* che le antiche illusioni sul mio
valore, e sulle speranze della vita futura e sul bene ch'io potea fare, e
le imprese da togliere e la gloria da conseguire mi sono sparite dagli
occhi, e non mi stimo piti nulla, e mi conosco da meno di tanti miei
cittadini, ch'io disprezzava cosi profondamente.
Domanda, di nascosto, un passaporto al recanatese conte
Saverio Broglio, residente a Macerata, pel Eegno lombardo-
veneto, mentendo, nella lettera, i saluti particolari di suo
padre: «il quale», soggiungeva, «vi sarà tenuto ancor egli
del favore ch'io vi domando » ! Ma la gherminella fu facil-
mente sventata, e il passaporto, invece che nelle sue, capitò
nelle mani di Monaldo. Che (par di vederlo!) con viso e
atteggiamento gravi e dignitosi, presentò al figliuolo ribelle
la lettera e il documento sequestrati, deponendo questo,
com'ha lasciato scritto egli medesimo, « in un canterano
aperto », e dicendo a Giacomo << che poteva prenderlo a co-
modo suo ».
« Così tutto finì », conchiude il Conte padre; ma, com'al
solito, ei fece troppo assegnamento sulle sue abilità di uomo
di mondo. Giacomo, scontento degli altri e di sé stesso, ri-
scrisse al Broglio (13 agosto), scusandosi del tranello tesogli
e denunziando fieramente il presunto suo persecutore. Egli
confessa:
La risoluzione ch'io aveva presa, non era né immatura né nuova.
Io l'aveva fissata già da un mese, e l'avea concepita fin da quando
conobbi la mia condizione e i principii immutabili di mio padre, cioè
da parecchi anni. Io non sono né pentito né cang-iato. Ho desistito dal
,mio progetto per ora, non forzato né persuaso, ma commosso e ingan-
nato. Persuaso non -poteva essere, come né anche persuadere, perché
le nostre massime sono opposte, e perciò fuggo ogni discorso su questa
materia, giacché il discorso non può esser concorde quando i fondamenti
sono discordi. Se mi opporranno la forza, io viiicerò, perchè chi è riso-
luto di trovare o la morte o una vita migliore, ha la vittoria nelle sue
mani. Le mie risoluzioni non sono passeggere come quelle degli altri,
e come mio padre stimo che si persuada, per dormire i suoi sonni in
pace, come suol dire. Io non voglio vivere in Recanati. Se mio padre mi
LA VITA DEL POETA
procurerà i mezzi di uscire, come mi ha promesso, io vivrò g^rato e ri-
spettoso, com^e qualunque ottimo figlio, se no, quello che doveva acca-
dere e non è accaduto, non è altro che differito. Mio padre crede ch'io
da giovinastro inesperto non conosca gli uomini. Vorrei non conoscerli,
così scellerati come sono. Ma forse sono piti avanti ch'egli non s'inmia-
gina. Non creda d'ingannarmi, che la sua dissimulazione è profonda ed
etema; sappia però ch'io non mi fido di lui, più di quello ch'egli si fidi
di me ^. Si vanti, se vuole, d'avermi ingannato, dicendomi a chiare note,
ch'egli non volend orai forzare in nessunissima guisa, non facea nessun
passo per intercettarmi il passaporto. ^li parve di vedergli il cuore sulle
labbra, e feci quello che non aveva fatto da molti anni: gli prestai fede,
fui ingannato, e per l'ultima volta.
La requisitoria non si ferma qui. Giacomo accusa priu-
cipalmeute Monaldo di non averlo mai compreso. E continua:
Domando se questo è il premio che mi doveva aspettare; domando
se c'è uh altro padre nella stessa decanati, in circostanze molto più
incomode del mio, che avendo un figlio delle speranze ch'io dava, non
avesse fatti tutti gli sforzi possibili per procurargli quello che a chiunque
mi conosce è sembrato naturale e necessario, fuorché a mio padre...
E se mio padre, aborrendo ogn'idea di grande e di straordinario, si
pente d'avermi lasciato studiare, si duole che il cielo non m'abbia
fatto una talpa, e in ogni modo, non solamente non mi concede niente
di straordinario, ma mi nega quello che qualimque padre in qualimque
luogo si fa un dovere di concedere a quei figli che mostrano un solo
barlume d'ingegno, e vuole risolutamente ch'io viva e muoia come i
suoi maggiori, sarà ribellione di un figlio il non sottoporsi a questa
legge ?
' La letteratura italiana ha poche pagine di prosa che pos-
sano stare a paro di questa del malaticcio giovanetto di
ventun anni, per calore, per energia, per forbitezza, per
trasparenza. Sarebbe bastato molto meno per metter dalla
parte del grande figliuolo i lettori, già ben disposti dai versi
immortali. E invece la lettera, eh' è lunghissima e d'una dia-
lettica sempre calda e serrata, ha una chiusa ancor più an-
gosciosa. Disfogata la piena dell'amarezza, l'infelicissimo ri-
belle .si ripiega in una commovente stanchezza.
Io non vorrei mai scordarmi de' miei doveri, io vorrei essere in-
felice io solo; e vi giuro che se qualche cosa mi turbava nella risolu-
* In una copia di questa lettera, di mano della Paolina, si legge
anche peggio: «Se la sua dissimulazione è profonda ed etema, sappia
però ch'io non mi fido di lui, più che mi fiderei d'vm nemico ».
TL TENTATIVO T>T FUGA
zione ch'io aveva formata, non erano né i pericoli a cui m'esponeva,
né i biasimi altrui, de' qnali non fo nessun conto, né la morte che i
(ìisasri eia povertà m'avrebbero procurata ben presto con mia conso-
lazione, ma il solo pensiero di dar disirusto ai mìei genitori. Io ho sempre
amato mio padre e l'amerò: e mi duole che voglia trattarmi come erii
altri uomini, e creda l'insranno piti vantaggrioso con me della schiet-
tezza, mentre mi sembra d'aver dato prove suflRcienti del contrario.
Ripeto ch'io non desidero se non d'essersrli sempre riconoscente e ri-
spettoso, e certamente sarò tale nel fatto, se non potrò anche nelle
apparenze. Io non mi pento della condotta passata, né bramo cangiarla.
Solamente presro che vog'lia aver qualche risruardo alle inclinazioni
mie. che ora non sono più mutabili naturalmente, e contrariate mi fa-
ranno infelice fin ch'io viva, e forse peggio ch'infelice ^.
Tra i preparativi per la fusra, Giacomo aveva pensato
anche a scrivere una lettera di addio al padre e un'altra al
fratello Carlo. In quella, non è il figlio clie prende congedo,
ben«iì il conte Giacomo che chiede ragione al conte ^lonaldo
dell'uso da lui fatto della potestà paterna. Comincia: f' mio
signor padre ^ e va avanti facendo uno spietato esame di
nuanto costui avi'ebbe avuto il dovere di fare e non avea
fatto. Accenna a un certo « piano di famiglia » che Monaldo
avi-ebbe immaginato, e, alludendo anche al fratello più
caramente diletto, continua:
Io sapeva bene i progetti ch'Ella formava sii di noi. e come per
assicurare la felicità di una cosa ch'io non conosco, ma sento chiamar
^ Questa lettera, per riguardi verso la famiglia superstite, non fu
compresa nelle prime edizioni deli' Epistolario. Apparve primamente
nella Xuova Antologia del 15 febbraio 1S79, con tm breve commento
del prof. G. Piergili. Ricomparve poi piti tardi, nel ISSO, per cura deUo
stesso editore, nell'opuscoletto : Le tre lettere di G. L. intomo alla di-
visata fuga dalla casa paterna (Torino e Roma. Loescher). Il Piergili
l'aveva ritrovata «fra le più riposte carte che furono sempre gelosa-
mente serbate in famiglia ', di carattere della Paolina, «la quale solca
scrivere pel fratello, malato d'occhi e di stomaco; ove si vedono an-
cora le correzioni di mano di lui ». Dopo, venne in luce anche l'ori-
ginale, posseduto dai Broglio di Macerata, che differisce in qualche
punto dalla minuta: e questo ora è ristampato nell'ultima edizione
dell'Epistolario. — Dal carteggio inedito dì Monaldo col Broglio, il Me-
stica potè cavare nuovi particolari di quel curioso episodio domestico.
Cfr. G. L. e i Conti Broglio d'Ajano, ora nel volume di Studi leopardiani,
Firenze, Succ. Le Monnier. 1901, p. 560 ss.
10 LA VITA DEL POETA
casa e famiglia,' Ella esigeva da noi due il sacrifizio, uon di roba uè
di cure, ma delle nostre iuclinazioni, della gioveutù, e di tutta la no-
stra vita.
Se egli. Monaldo, avesse avuto visceri di padre, avrebbe do-
vuto comprendere che quei disegni erano inattuabili, e che a
lui, Giacomo, l'aria e la vita di Recanati riuscivau micidiali.
Non tardai molto ad avvedermi che qualunque possibile e imma-
ginabile ragione era inutilissima a rimuoverla dal Suo proposito, e che
la fermezza straordinaria del Suo carattere [leggi: caparbietà!], co-
perta da tma costantissima dissimulazione e apparenza di cedere [leggi:
ipocrisia !], era tale da non lasciar la minima ombra di speranza... Io
so che la felicità dell'uomo consiste nell'esser contento, e però più
facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi
corporali possa godere in questo luogo. Odio la vilejtrudenza che ci
agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci
come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di
questa infelice vita senz'altro pensiero. So che sarò stimato pazzo,
come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome.
E perchè la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata,
dalla disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci cosi.
Voglio piuttosto essere infelice che ììiccolo, e soffrire piuttosto rhe an-
noiarmi; tanto più che la noia, madre per me di morbifere malinconie,
mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo. I padri sogliono giudicare
i loro figli più favorevolmente degli altri, ma Ella per lo contrario
ne giudica più sfavorevolmente di ogni altra persona, e quindi non
ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande: forse anche
non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli,
e colle norme geometriche. Ma quanto a ciò molti sono d'altra opi-
nione; quanto a noi, siccome il disperare di sé stessi non può altro che
nuocere, così non mi sono mai creduto fatto per vivere e morire come
i miei antenati.
Tante parole, tanti colpi di lancia al cuore del conte padre !
Al quale dice pure, e con piti ragione:
È piaciuto al cielo per nostro gastigo che i soli giovani di questa
città che avessero pensieri alquanto più che recanatesi, toccassero a
Lei per esercizio di pazienza, e che il solo padre che riguardasse questi
figli come una disgrazia, toccasse a noi.
E conclude con una ripresa affetiii«>-a. ciie. presso noi
posteri, non doveva nuocer meno alla riputazione di Monaldo.
Mio caro signor padre, se mi permette di chiamarla con questo
nome, io m'inginocchio per pregarla di perdonare a questo infelice
IL TENTATIVO DI FUGA 11
per natura e per circostanze. Vorrei che la mia infelicità fosse stata
tutta mia, e nessuno avesse dovuto risentirsene, e così spero che sarà
d'ora innanzi. ìSe la fortuna mi farà mai padrone di nulla, il mio primo
pensiero sarà di rendere quello di cui ora la necessità mi costringe a
servirmi. L'ultimo favore ch'io Le domando, òche se mai Le si desterà
la ricordanza di questo fl2:lio che L'ha sempre venerata ed amata, non
la rigetti come odiosa, né la maledica ; e se la sorte non ha voluto ch'Ella
bi possa lodare di lui, non ricusi di concedergli quella compassione che
non si nega neanche ai malfattori.
Povero figliuolo ! Certo, ci si stringe il cuore a leggere
una simile lettera; ma saremmo ingiusti e parziali se non
pensassimo altresì al dolore ch'essa era destinata a produrre
nel cuore d'un padre, il quale non era, sì; scevro di colpe, ma
a modo suo idolatrava quello soprattutto dei suoi figliuoli,
ch'ei chiamava la gemma più preziosa del bel serto della
sua gloria ^. lì 1° giugno 1828 gK scriveva:
... voi, caro Giacomo mio, che mi deste per primo il nome di padre,
che avete sul mio cuoi'c il diritto di precedenza, che lo conservate in
fatto con la vostra condotta, e che siete la gloria della famiglia sulla
terra, e ne sarete la corona nel Cielo...
Giacomo, ch'era profondamente buono, sentì come un
rimorso anticipato del passo che stava per fare; e nel pre-
gare il fratello di consegnare la lettera al padre, gì" in-
giunge:
Domanda perdono a lui, domanda perdono a mia miadre in mio
nome. Fallo di cuore, che te ne prego, e cosi fo io collo spii-ito. Era
meglio (umanamente parlando) per loro e per me, ch'io non fossi nato,
o fossi fiiorto assai prhna d'ora. Così ha voluto la nostra disgrazia.
III.
Monaldo Leopardi e la sua Autobiografia.
La voce dell'accusatore, che abbiamo ascoltata fin qui,
è potente, passionata, elegantissima ; ma noi non vorremo
investirci, <' per affetto al figlio, di tutti i rancori e le bizze
Cfr. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli 1878, p. 658 ss.
12 LA VITA DEL POETA
di Giacomo verso il genitore «. Così lian pur troppo fatto pa-
reccM dei crìtici e ammiratori del poeta: non tutti però, e
tra questi il De Sanctis. Il quale, com-ebbe già a ricordare
il D'Ovidio ^, fu sempre, nonostante la venerazione in-
finita pel poeta di cui era stato « il primo vero interprete »,
alieno dal fame sue « tutte le passionceUe domestiche » ;
e in una lezione tenuta all'Università di Xapoli nel marzo
del 1876, « diceva ai giovani, cbe ne rimasero un po' sor-
presi e come scontenti: Guardiamoci dal giudicare il quadre
dando retta ai nervi del figlio ! ». Il De Sanctis non s'affidava,
nel far questo mònito, die alla sua « naturai dirittura dei
giudizi storici e letterari»; ma tutto ciò che dopo d'allora
è venuto a conoscenza del pubblico circa la casa Leopardi,
ha confermato quanto egli aveva giustamente e acutamente
intuito *.
Monaldo, oltre il resto, era un grafomane. Una volta disse
al cognato Antìci, ch'ei si riprometteva di « scrivere su tutto
tutto »; ma s'accorse subito egli stesso che la «bomba era
un po' grossa ». Xon ogni cosa che scrisse riuscì a stam-
pare; eppure, i torchi gemettero per parecchie delle sue
opere poetiche, storiche, filosofiche, economiche, ascetiche,
politiche, polemiche, di qualcuna deUe quaU si moltiplica-
rono anzi in breve le edizioni. Fu anche giornalista, e dei
più fecondi e ferventi ^ ; e campione accanito e intransigen-
tissimo dei diritti del trono e dell'altare, trovò perfino il
modo di farsi condannare dalla Congregazione dell'Indice!'
Tra' suoi manoscritti ne fu trovato uno che ha per noi
una speciale importanza: V Autobiografia *. Essa non va oltre
* Nella Napoli letteraria del 17 febbraio 1884; e cfr. ora F. De
Sanctis, Studio su G. L., opera postuma, Napoli 1885, p. 173.
2 Cfr. R. BoxARi, I genitori di G. L., Napoli 1886.
3 Opera sua fu pure, benché corresse anonima e venisse attribuita
ad altri, quel perfido Catechismo filosofico ch'ebbe tanta e si deleteria
diffusione nelle scuole del Re^no di Napoli, e contro cui insorse con
nobile eloquenza il Gladstone nelle generose sue Lettere sullo sgoverno
dei Borboni in Napoli. Cfr. Zumbini, W. E. Gladstone nelle sue rela-
zioni con l'Italia; Bari, Laterza, 1914; p. 12 ss.
* Fu pubblicata da A, Avoli, a Roma, nel 1883. Rimase perciò
igrnotu, o nota solamente in parte, a quanti fino a quell'anno ebbero a
l'autobiografia di MONALDO 13
il gemiaio 1802, bencliò Monaldo la coiiiiuciasse a steudeio
nei 1820. L'uomo vi si descrive ingenuamente e sincera-
mente, con tutti i suoi immensi difetti e con le viitìi che non
gli mancavano. Curioso tipo anche in questo: a voce, delle
cose sue familiari ei non discorreva se non con la moglie e
col cognato, mantenendo con gii altri un severo e orgo-
glioso riserbo; con la penna in mano, diventava invece lo-
quace e sboccato, mettendo a parte i suoi lettori immagi-
narli d'ogni cosa più. intima. Par quasi che, scrivendo, 1" ag-
ghindato aristocratico si piaccia di porsi in pantofole e in
maniche di camicia.
Certo, se non si trattasse del padre di Giacomo, il libro
non avrebbe uguali attrattive. Perchè una narrazione di tal
genere pós^a riuscir dilettevole, conviene o che il protago-
nista e scrittore sia di quegli uomini la cui storia interessi
per la sua propria singolarità, com'è dell' Alheri, del Ceilini,
del D'Azeglio, del Duprè; o che i casi tra cui s'è trovato siano
altamente epici e drammatici, com'è del Settembrini e del
Pellico. Tuttavia codesto hidalgo delle Marche, il quale a
diciott'anni si veste tutto di nero, — « e così », racconta, « ho
vestito sempre e vesto, sicché chiunque iion mi conobbe fan-
ciullo, non mi vide coperto con abiti di altro colore » i; —
che si vanta d'aver portata « la spada ogni giorno, come i
occuparsi di Monaldo: al conte Severino Servanzi Collio, che pub-
blicò l'opuscolo Opere e scritti del conte 21. L., Macerata 1847 ; al D'An-
cona, La famiglia di G. L., nella Nuova Antologia del 15 ottobre 1878;
all'AULAKD, Un guelfe au XIX^ siede, nella Uetue politique et litté-
raire del 11 giugno 1879. Non ne fecero largo uso neppur la contessa
Teresa Teja Leopardi, seconda moglie di Carlo, che nel 1881 a Pa-
rigi, in francese, e nel 1882 a Milano, tradotte da lei medesima, pubblicò
alcune Noie biografiche sopra L. e la sua famiglia; e G. Piergili, Il
conte M. L., nella Nuova Antologia del 15 febbraio 1882.
^ Una follia codesta che il reazionario conte marchigiano ebbe co-
mune col detestato conte Alfieri. Il quale pure narra di sé {Vita, ep. IV,
e. 6; e VI, 30: pp. 211 della mia ediz.): « Tutti gli abiti parimente donai
al mio cameriere, ed allora poi anche sagriflcai l'uniforme; e indossai
l'abito nero per la sera, e un turchinaccio per la mattina, colori che non
ho poi deposti mai più, e che mi vestiranno fino alla tomba... Del ri-
manente poi bastantemente sazio e disingannato delle cose del mondo,
sobrio di vitto, vestendo sempre di nero, nulla spendendo che in libri,
mi trovo ricchissimo.... ».
14 LA VITA DEL POETA
cavalieii anticlii, e fui», os'^erva, «probabilmente l'ultimo
spadifero d'Italia finché nel 1798, sotto il Governo repubbli-
cano, questo costume nobile e dignitoso decadde allatto »;
— elle, fanatico sanfedista, pur dopo la grande Kivoluzione
credeva non solo possibile, ma sospirava, la restaurazione
del Comune guelfo; — che ancóra nel 1832 definiva la patria
( precisamente quella terra nella quale siamo nati, e in cui
viviamo insieme con gii altri cittadini, avendo comuni con
essi il suolo, le mura, le istituzioni, le leggi, le pubbliche
proprietà e una moltitudine d'interessi e di rapporti », onde,
a parer suo, si fa male a chiamar patria la < nazione nella
quale siamo nati e viviamo..., perchè coi nazionali stra-
nieri ( I) non abbiamo comunità d'interessi, d'istituzioni e di
leggi, e non siamo legati con essi da quasi nessuno di quei
vincoli e di quei rapporti che stringono fra di loro li citta-
dini duna medesima patria »; — che in una lettera del 182G,
esortando ritalianissimo fi-gliuolo a chiamarsi nella stampa
dsUe sue opere recanatese,^ Bogghuigeva: ^< io poi ne vedrò
alquanto soddisfatto quello oramai inutile amore di patria,
che non so abbandonare perchè avuto in retaggio da" miei
maggiori, e ne vedrò pur un po' afflitta la vicina ed emula
Macerata, che non credo peccato di mortificare così »; — -
che. narrando del jìassaggio di Napoleone per Recanati, « ve-
locemente a cavallo, circondato da guardie le quali tenevano
i fucili in mano col cane alzato », può vantarsi che tutti
corsero a vederlo, ma « io non lo vidi, perchè, quantunque
stessi sul suo passaggio nel palazzo comunale, non volli
affacciarmi alla finestra, giudicando non doversi a quel
tristo l'onore che un galantuomo si alzasse per vederlo »; —
che, in alcune considerazioni sulla Storia d'Italia del Botta,,
parlando del Galilei uscì a dire ch'egli sperava nella com-
parsa d'un uomo «il quale, ridendo di lui com'egli hariso
dei filosofi suoi antecessori, restituisca alla terra l'antico
onore, mettendola nel centro dell'universo e liberandola
dal fastidio di tanti moti » ; — codesto Don Chisciotte o
Don Ferrante che, chiuso nel guscio dell'amato borgo natio,
vuol giudicare di là del movimento letterario, politico, filo-
sofico deiriLuropa intera, e s'arrovella perchè nel resto del
mondo le co.se si ostinano a non andare com'egli vorrebbe:
l'autobiografia di MONALDO 15
— ha pure uua sua propria e uou piccola importaaza, quale
rappresentante tipico d'una assai caratteristica classe di
ritardatarii. Egli fu, come lo definì con l'usata felicità il
D'Ovidio, 0 dì quegli uomini magnanimi, rari in ogni tempo
e ammirabili in ogni partito, i quali sono mossi da persua-
sioni sincere e profonde, quali che esse sieno, e tendono co-
stantemente ad un fine alto e disinteressato, affrontando
per esso mille danni, pericoli, trava/ii, dolori, inimicizie,
ingratitudini ».
Li'Aidobiognifia è buttata giù. alla buona, in una forma
che non raggiunge mai la sciatteria, ma che riman sempre
molto di qua dalla forbitezza; che risente anzi di quel fran-
cesismo di stile e di vocaboli ch'era venuto di moda, e di
quegl' idiotismi marchigiani soavemente risonanti all'orecchio
e al cuore del marchigianissimo Monaldo. Il quale, col suo
aborrimento pei Francesi (e anche in questo s'accordava col-
r altro conte misogallo, con quel «briccone sì ma pur bravo
Alfieri! »), è da giurare che se avesse fiutato il gallicismo,
si sarebbe sforzato di diventar più « cruschevole » de' figli !
Il racconto procede a volte sconnesso, e accanto alla noti-
ziola ghiotta, spesso trova posto l'aneddoto insignificante
o il pettegolezzo, una disquisizione morale o una tirata po-
litica. Da ogni pagina poi trapela l'affetto indomabile per
la piccola patria, cara a lui quanto invisa a Giacomo i.
S'intende com'ei si fosse dato molto da fare per compi-
lare l'albero genealogico dei Leopardi; ed ebbe l'ineffabile
sodisfazione di mettere in sodo che essi discendono in linea
^ Il povero Giacomo non trovava da ammirarvi se non la perfetta
e soave pronunzia. Scrive al Giordani, il 30 maggio 1817: «E quanto
all'accento. Le diiò del mio Eecanati cosa che Ella dovrà credere a me,
perchè della patria potrò, per tropp'odio, dir troppo male (e non so
se questo pur possa), ma dir troppo bene, per troppo amore, non posso^
certo. Ella non può figurarsi quanto la pronunzia di questa città sia
bella. È cosi piana e naturale e lontana da ogni ombra d'affettazione,
che i Toscani mi pare, pel pochissimo che ho potuto osservare parlando
con alcuni, che favellino molto più affettato, e i Romani senza para-
gone... E questa pronunzia che non tiene punto né della leziosaggine
toscana né deìla superbia romana, è cosi propria di Recanati che basta
tiscir due passi del suo territorio per accorgersi di una notabile diffe-
renza, la quale in più luoghi pochissimo distanti, non che notabile, è
somma... ».
16 LA VITA DEL POETA
retta da uu Attoue mono il 12o7. Iduiu labbia in giuria I
Tuttavia codesti auteuati, bisogna couiessaiio, non valsero
gran che, specie in letteratiua; e Monaldo diciiiara con di-
gnitosa modestia : « non so clie la iamigiia nostra avesse
mai soggetti letterati, ma non ha mai dominato in essa lo
spiiito dell ignoranza, e tutti i miei antenati ebbero più o
meno q^ualche coltura ». Molto esigua però, se si pensa che
in casa egli, che doveva poi raccogliervi una biblioteca senza
pari nella provincia ^, non trovò se non ^^ qualche centinaio
di tomi, adatti agli usi giornalieri ». Jdoiiny soit qui mal y
pense !
2Semmen la contea era molto antica: il primo che n'ebbe
il titolo fu lavo del poeta, un (jiacomo anch esso. ]Some
che si diiebbe iniausto pel povero Monaldo: giacché s ei iu
meaiocremente stimato da Uiacomo hgliuolo, lu adairittura
vilipeso da Giacomo padre. Questi venne a morte — curiosa
coincidenza: tanto più che in casa Leopardi si era longevi!
— a soli trentanove anni, quando il primogenito ne contava
appena quattro; eppure, nel suo testamento, avrebbe vo-
luto pospoiio al seconuogenito 1 2Son so, osserva Monaldo,
a quale ragione poteva suggeiirgli quel proponimento, ma
credo che se viveva con me alcuni altri anni, non avria
sentico vergogna di essermi padre ». A meno che 1 anima del
nonno non rivivesse nel proaigioso nipote I Da giovinetto,
nei giuochi, a passeggio, allo stuaio, ei voleva sempre sojDrai-
fare fratelli e compagni; e a il fatto sta », confessa, « che la
natuia o 1 abituarne a sovrastare mi è sempre rimasta, e mi
adatto malissimo, anzi non ini aaatto in modo veruno, alle
seconde parti. Voglio piegarmi, voglio esser docile, limet-
'■ Giacomo narrava in una delle primissime lettere al Giordani
(30 apniu l5l7;, aipiugeudogli il " natio borgo selvaggio »: " Ueue mie
cose nessuno si cui'a, e questo va bene; degli aiui non moilo meno:
anzi Le airo seuza superbia che Ja libreria nostra non ha eguale nella
proviucia, e due soie inieriori. Sulla porta ci sta scritto cilena e latta
aucùe per li cittauini, e sarebbe aperta a tutti. Ora quanti pensa Ella
clic la irequentiuo ? nessuno mai ». L'epigrate sulla porta dice tuttora:
FlLlIS AMICIS CIVIBUS \ MoXALI^US 1>K LeOPAKDI.S j
iJlliUOXHECAM ) A. M. DCCCXll.
l'autobiografia di MONALDO 17
termi a tacere; ma iu sostanza tutto quello che mi lia avvi-
cinato ha fatto sempre a mio modo, e quello che non si è
fatto a modo mio, mi è sembrato malfatto )>. Come in questo
ritratto riconosciamo il tormentatore di Giacomo I Gli è che
Monaldo si" credeva e si proclamava, tranquillamente, un
uomo perfetto e infallibile. Scrive:
Non vorrei adularmi, e non lio interesse alcuno per farlo; ma in
verità mi pare che il desiderio di vedere seguita la mia opinione non
sia tutto orgoglio, bensì amore del giusto e del vero. Ho cercato sempre
con buona fede quelli che vedessero meglio di me, ed ho trovato per-
sone saggie, persone dotte, persone sperimentate ; ma di ingegni quadri
da tutte le parti e liberi da qualunque scabrosità ne ho trovati pochis-
simi, e ordinariamente in qualche pim.to la mia ragione, o forse il mio
amor proprio, mi hanno detto: tu pensi e vedi meglio di quelli!
Avendo letto in Seneca come ogni uomo abbia la sua
parte di pazzia, egli si die' a ricercare in che consistesse
la sua. Non avrebbe dovuto andar molto lontano; ma fruga
e rifruga, lo credereste ?, non la trovò I E « allora mi è ve-
nuta la tentazione », conclude, « di credere che la mia mente
fosse superiore a molte, non già in elevazione, ma in qua-
dratura ». Ohimè 1 era come la quadratura del circolo !
Monaldo fu educato in casa. Ebbe a precettore un ex-
gesuita ed ex-gentiluomo nato nell'America settentrionale,
don Giuseppe Torres. S'indovina l'italiano, ma questi inse-
gnava orrendamente tutto: «l'ottimo Torres fu l'assassino
degli studi miei, ed io non sono riuscito un uomo dotto,
perchè egli non seppe studiare il suo allievo, e perchè il suo
metodo di ammaestrare era cattivo decisamente ». Xon in-
daghiamo quel che altrimenti l'alunno sarebbe riuscito; ma
il metodo del maestro, ch'egli espone, è davvero tale da
farci inorridire. « Nell'età di anni quattordici », soggiunge
il mal capitato, « dissi fra me che, avendo figli, non avrei
permesso ad alcuno di straziarli tanto barbaramente; e ri-
cordo pure di aver pianto sopra me stesso per il danno in-
volontario che mi arrecava un uomo degno altronde di tanta
stima ». Difatto, padre, egli ciu'ò scrupolosamente ed egre-
giamente l'educazione dei figliuoK, così da potere scrivere,
il 3 aprile del 1820, col cuore amareggiato dalla ribellione
di Giacomo, all'avvocato Pietro Brighenti:
2 — G. Leoparl»!.
18 LA VITA DEL POETA
Lo sconvoltciinento fatale della ragione umana, che ha disonorata
la nostra età, mi fece ravvisare malcauto l'affidarli ad estera educa-
zione; e l'affetto mio sviscerato non mi permetteva allontanarli da me.
Li ho educati io medesimo, e li ho fatti erudire in casa mia quanto
meglio ho saputo e potuto. Ho sacrificata per essi tutta la mia gio-
ventù; mi son fatto il compagno dei loro trastulli, l'emulo dei loro
studi, e niente ho lasciato di q.\ianto poteva renderli contenti e grati.
Rimasi forse troppo contento dei loro progressi, e per alcun tempo lo
fui della loro riconoscenza e della loro condotta.
Alla educazione sua invece nessuno dei suoi parenti era
stato al caso di pensare seriamente. La madre apparisce una
vanèsia, disadatta massaia e inetta educatrice, e gli zii,
buona gente, ma incuriosa e fatua. Così, a diciott'anni, egli
non voUe piti saperne di studi. 11 mondo perdette, senza dub-
bio, un dotto, ma a sentir lui guadagnò in compenso un uomo
assennato e pratico. Xon si può non sorridere leggendo:.
Ho aperto infinità di libri, ho studiato infinità di cofc, ma tutto
senza scopo, senza guida e senza profitto; sicché, arrivato agli anni
maturi e aperti gli occhi, ho confessato a me stesso che io non so cosa
alcuna, e mi sono rassegnato a vivere e morire senza esser dotto, quan-
tunque di esserlo avessi nudrita cupidissima voglia... Quanto appa-
risce in me non è dottrina e letteratura, ma prudenza, esperienza,
buon senso, con qualche tintura apparente di scienza, perchè alla fine,
a forza di leggere, qualche cosa mi sarà rimasta nella mente.
Verso don Torres e verso i gesuiti nell'animo pio del
bonario Monaldo non rimase rancore. Per costoro i Leopardi
avevano sempre avuta predilezione. « Fino quasi dai giorni
di sant'Ignazio », essi avevan fondato e dotato in Recanati
un collegio gesuitico, disciolto poi soltanto nel 1773 dalla
boUa di Clemente XIV. E codesta .persecuzione giovò, come
suole, ai perseguitati: «le reliquie disperse di quell'Ordine
illustre e straziato » divennero « l'ordinario rifugio di cliiun-
que cercava un uomo saggio, dotto e dabbene ». Ed è in-
credibile, assicura il conte, « quanto vantaggio recassero
aUe nostre provincie questi esuli rispettabili » ; non alla cul-
tura, davvero ! Egli li ammirava tanto, che si compiaceva
di cliiamar sé stesso « un gesuita in veste corta ». Don Torres
restò in casa Leopardi nientemeno che trentasette anni, fino
al novembre del 1821, quando il fido pui)illo potè chiudergli
gli occhi. Giacomo contava allora ventitré anni. E chi sa
L'AUTOBIOGPvAriA DI ^JONALDO 19
quante delle sue sventure non riniontiuo agl'insegnamenti e
ai suggerimenti del vecchio gesuita! « Questi », dichiara Mo-
naldo, « è stato non già il mio precettore soltanto, ma il
mio padre ed amico, e a lui devo la mia educazione, i miei
principii, e tutto il mio essere di cristiano e di galantuomo ».
Ahimè I
A sedici anni, il contino sentì la prima volta la battaglia
d'amore: i Leopardi erano anche in questo precoci! Ed è il
momento di farne la personale conoscenza. « Ero », confessa,
« sano senza essere robusto, né alto né basso, non bello,
ma senza alcuna bruttezza notevole ». Perciò non vantò mai
la bellezza fisica a scàpito della spirituale. Sdegnò di se-
guire la moda. « Al mio sarto », racconta, « ho lasciato
sempre la cura di tagliarmi gli abiti a suo modo, ordinan-
dogli solo di evitare qualunque ombra di affettazione, e mai
ho saputo, come adesso so, in qual foggia si vestano gU
uomini di buon gusto ». Altero « per educazione e per na-
tura », voleva che anche la foggia del vestito contribuisse
a dargli dignità: «se avessi avute altre inclinazioni, biso-
gnava loro resistere, o cambiare vestiario, giacché, con la
spada al fianco e sempre in abito da parata, non si poteva
cadere in bassezze, anche volendolo ». Gli è che nell'ugua-
glianza del vestiario ei vedeva, e non a torto, un altro atten-
tato aUa sua nobile casta.
Coloro che hanno tminaginato di sconvolgere gli ordini della società
e di rovesciarne le istituzioni più utili e rispettate, hanno incomin-
ciato dall'eguagliare il vestiario di tutti i ceti, raccomandando la causa
loro alla moda. Finché i cavalieri portavano la spada al fianco, vesti-
vano abiti ricamati e camminavano col servitore appresso, e finché
le dame si mostravano col corredo delle regine, la filosofia (!) poteva
gridare e sfiatarsi; ma il popolo non s'induceva a credersi eguale a
quelli che ammirava per sentimento, rispettava per abitudine, e la-
sciava grandeggiare per necessità.
Nel 1792, quando cominciò a provare il pizzicor d'amore,
non ancora aveva assunto quel perpetuo abito da funerale.
In quell'anno dovè accompagnare la madre a Pesaro; e lì,
in casa dell'ava marchesa jMosca, i suoi occhi s'incontrarono
in quelli d'una contessina « superstite ed erede unica della
sua famigUa ». S'intende: «eguali di condizione e di età»,
racconta non senza grazia e garbo di scrittore Monaldo,
20 LA VITA DEL POETA
spesso viclui al passeggio, al tavolino e al circolo, io m'innamorai per-
dutamente di lei, e credo che essa non restasse indifferente. Tutti co-
noscevano il nostro amore, e tutti ne parlavano; ma noi, comunican-
docelo collo sguardo solo, non ebbimo il coraggio di palesarcelo con
la voce, e si osservò costantemente un silenzio lungo, singolare e inop-
portuno. Il romperlo non era la sua jjarte, ed io che lo risolvei mille
volte fra me stesso, e che non temevo di vedere sprezzate le mie di-
chiarazioni, ero poi nell'atto tanto lontano da quell'ardire, quanto lo
sarei adesso dal recarmi sulla strada pubblica ad assassinare i passeg-
gieri.
La uoima si lasciò ratteuere dal sospetto che altri non
l'accusasse di far troppo gl'interessi del nipote; la madre
« non era tagliata al maneggio degli affari » ; ed egli da parte
sua ci mise tanta goffaggine, che tutto andò a monte.
Una sera, un cavaliere pronto e gioviale, sedendo vicino alla da-
mina, mi chiamò e mi disse alla sua presenza: — Poiché tutti lo sanno,
confessami qui che tu fai all'amore colla contessina Teresa. — Io, con le
brace nel volto, dissi: — Non è vero ! — e fuggii. La giovane se ne ofEese,
e quel momento, che poteva legarci per sempre, fu la tomba della nostra
corrispondenza.
Qualche anno più tardi, quando si vide a capo della fa-
miglia, e non solo padrone delle avite sostanze ma « pieno
zeppo di debiti e incamminato a rovina totale », ripensò a
pigliar moglie. Era tempo da far sul serio..., e perciò si pose
nelle mani d'un sensale! Questi, che già lo aveva aiutato a
contrarre i debiti, gli suggerì, mercè una buona mancia, « una
damina di Bologna, di famiglia illustre e con dote conspicaa ».
E nel settembre del 1796 egli si mise in viaggio per andare
a conoscere la donna del suo cuore! Per via, un amico che
lo accompagnava, il conte Gatti, intimo della famiglia di lei,
lo veniva persuadendo « che le bellezze son passeggiere e le
virtù consolano per tutta la vita »: un'antifona molto morale,
ma promettente poca estetica! «Io gli davo ragione», os-
serva Monaldo, «perchè inclinavo alla filosofia; ma né egU
né io riflettevamo che anche la filosofia deve proporzionarsi
all'età, che un volto non dispiacente è una filosofia persua-
dentissima per un giovane di vent'anni, e che un tratto
poco geniale abbatte le forze di qualunque argomento più
sodo ». Giunti a Bologna, non gli si permise di veder subito
la damina, bensì il padre di lei, col quale fissaron la dote
l'AUTOBI 0GB AFTA DI MONALDO 21
in ventimila scudi, e il giorno dell'incontro. Questo doveva
avvenire in casa del principe Lambertini, zio deUa Diana.
Il conte Gatti persuase l'amico che in simili casi non bisogna
«lasciar la brigata sospesa, con tormento e noia di tutti;
perciò se la sposa non gli spiaceva, cavasse subito con disin-
voltura il fazzoletto bianco dalla saccoccia, ed egli avrebbe
pensato al resto ». Il sultanuccio, in attesa, stringeva in
tasca il fazzoletto fatale. Finalmente arriva la Diana. « Un
inchino, due parole, un'occhiata... e il fazzoletto è fuori».
L'amico prudente « dice alla giovane qualche cosa all'orec-
chio, e poi tutti: Viva gli sposi! bravo conte Gatti! quanto
siete di spirito ! quanto sapete far bene! E U matrimonio ri-
mase concluso così ». Ma ripensando a codesta scena da com-
media, Monaldo sempre più si convinceva « che il fazzoletto
si era cavato fuori con troppa precipitazione », e che « di
venti anni, e con la testa piena degli entusiasmi amorosi
che avevo letto nei romanzi e volevo sperimentare in me
stesso », dice, « quelle nozze non facevano al caso mio ». E
a poco a poco « cadde nella più tetra melanconia e quasi
nella disperazione ». Chiese soccorso all'amico di spirito; ma
questi accolse la sua ritrattazione « come una bestemmia ».
E fu invece stabilito il giorno degli sponsali !
Quasi per istordirsi, il contino si buttò a capo fìtto nelle
spese. Commise mobili ricchissimi, carrozze, abiti, livree;
barattò le gioie antiche di casa con altre più in moda ; comprò
nuovi cavalK; costruì un'altra scuderia e una rimessa, demo"
lendo le già esistenti; chiamò a Recanati artieri da ogni
parte... I danari mancavano; ma il promesso anticipo della
metà della dote avrebbe poi sopperito. Sennonché, sul più
beUo, il suocero gli scrive di non potergliela sborsare nel
tempo stabilito. Un tal ritardo era finanziariamente un di-
sastro, ma anche una buona ragione per farla finita; e Mo-
naldo, per sollecitare il sospirato scioglimento, scrisse una
serie di lettere anonime al non desiderato suocero, in cui gli
rivelava la nessuna sua simpatia per la figliuola. E ogni trat-
tato fu rotto. Ma ecco che di lì a due mesi il rifiutato suocero
mandò a richiedere al genero dimissionario: la restituzione
dei danari prestatigli pel baratto delle gioie, « e i frutti pas-
sati e futuri di quella somma; e 400 scudi, preteso danno sof-
22 LA VITA DEL POETA
ferto nel corredo per il decadimento della moda; e 50 scudi
per il notaro che aveva scritta l'àpoca privata; e 12 scudi
per una cameriera tenutasi in Bologna a mio conto », scrive
il disgraziato; ((e 65 scudi per un abito da viaggio fattosi
alla sposa a mio suggerimento; e forse qualche altra bazze-
cola che non ricordo ». Facendone una questione d'onore,
ei pagò tutto, <( sin all' ultimo quattrino •>; e, beato lui!, pure
innanzi a simili spropositi ammira la singolare quadratura
della sua mente I « Per quella età e per le idee che in quel
tempo mi bollivano in testa, mi pare che mi condussi sag-
giamente abbastanza » I Tanto saggiamente, che, fatti i conti,
quelle trattative fallite gli costarono « più di ventimila
scudi o piastre romane » ! Vero è che rimase scàpolo !
Non posso qui ritrarre a pieno di tutte le altre follie com-
messe in quel torno da Monaldo; e salto col racconto alla
metà del 1797, quando egli s'ammoglia davvero, e con
colei che fu poi la madre di Giacomo Leopardi.
Ascoltando la messa solenne, nella chiesa di San Vito, il
15 giugno 1797, il conte non lasciò un momento solo di ri-
mirare e ammirare I9, marchesina Adelaide Antìci. « Feci ma-
lissimo )), confessa, « perchè nella casa di Dio si deve essere
occupati soltanto nel venerarlo ; ma troppe cose ho fatte male
nel corso della vita ». Pigliamone atto ! Peggio si comportò
alla processione del Corpus Domini, tre giorni dopo: che
tenne sempre gli occhi addosso a quella giovinetta, la quale
a buon conto ei sapeva già promessa a un altro conte. (A
fabbricar Conti i papi avevan la mano sciolta !). Il 21, avendo
appreso che codesti preliminari erano interrotti, mandò su-
bito un amico ad offrir la sua mano alla marchesina. Non
fu accettato su' due piedi, perchè già un terzo pretendente,
e coni e anch'esso, s'era fatto avanti. Ma Monaldo aveva su
costui un notevole vantaggio: circa venti anni di meno; e
fini col trionfare.
Contenti gli Antìci, ne furon desolati i Leopardi. Ai quali,
bisbetici e generosi, dava pur noia che per l'Adelaide ci fosse
tanta ressa di domande, e per la sorella maggiore, l'Amalia,
« giovane carissima e amabilissima », nulla ! Meno male se
Monaldo avesse riparato lui a un simile torto ! E poi, il mar-
chese Antìci non offriva se non una dote di seimila scudi in
ADELAIDE ANTTCI 23
moneta eròsa ^. equivalenti e appena a tremila scudi veri
d'argento ». I Leopardi ricorsero perfino al papa, doman-
dando l'interdizione dell'erede testardo; e la madre un
giorno giunse a inginoccliiarglisi davanti, scono'iurandolo a
desistere. Commosso, il figlio cadde anch'esso in ginoccliio
innanzi a lei; ma non mutò di proposito. Fissò anzi un ap-
partamento a Pesaro, per trasferirvisi con la sposa. Si sa-
rebbe, ob potenza dell'amore, staccato per lei fin dall'ado-
rata Recanati I E quando s'avvicinò il dì delle nozze, fece
chiedere dal precettore Torres alla madre e agli zii se per-
mettessero che, prima di lasciar il nido, egli e la moglie
fossero andati e. a baciar loro la mano ». Fu accordato ; e il
27 settembre, celebrato il matrimonio nella cappella degli
Antìci. mentre i cavalli erano già attaccati e pronti a par-
tire per Pesaro, gli sposi andarono a congedarsi dai vecchi
Leopardi. La contessa madre abbracciò la nuora, li bene-
disse e si fece promettere che sarebbero ritornati fra otto
giorni. Ma lo zio Ettore gridava all'ostinato nipote: «la
vostra sposa appartiene ora alla famiglia nostra, e voi non
ce la toglierete » ; mentre che lo zio Pietro, sciogliendosi in
lagrime, chiedeva scusa delle opposizioni, e li scongiurava
a rimanere. L'Adelaide stringeva sempre piìi fortemente il
braccio di Monaldo; e questi, interpretando alla rovescia,
si protestava irremovibile dalla decisione presa. Lo zio Et-
tore mise fine agli equivoci: corse così come si trovava, senza
cappello, in casa Antìci, annunziò la riconciliazione, e fé'
staccare i cavalli. « Mia moglie ». conclude il narratore, « è
vissuta sempre », d'allora in poi. coi « miei cari congiunti,
amandoli ed essendone amata sinceramente, come appunto
se fosse nata nella nostra famiglia ».
E qui dà il suo giudizio su codesta donna, a cui la storia
austera ha il diritto e il dovere di chieder conto delle angosce
mortali di uno degli spiriti più singolari ed eccelsi.
Iddio, nell'ampiezza della sna nùserieordia, non poteva accordarmi
una compagna più sagrgia, affettuosa e pia di questa mia biiona moglie.
^ Aurum aerosum. in Plinio, è « oro misto a rame >; pecunia aerosa,
nel Digesto, è « la moneta di bassa lega ».
24 LA VITA DEL POETA
Ventisei anni già compiti di matrimonio non hanno smentita, un mo-
mento solo la sua condotta irreprensibile e ammirata da tutti; e questa
donna forte, intenta solo ai doveri e alle cure del suo stato, non ha
mai conosciuto altra volontà, piacere o interessi, se non quelli della
famiglia e di Dio. Le obbliprazioni che io le professo sono innumerabili,
come è illimitato l'affetto che sento per lei; e il suo incesso nella mia
famiglia è stato una vera benedizione.
Un panegirico, come si vede, che tutti gl'indizii conferman
meritatissimo. Tuttavia l'arguto padre dell' argiitissimo scrit-
tore sente di dover far suo uno scrupolo immaginario degli
immaginarli lettori. '( Dunque », si domanda. « avrò io potuto
sottrarmi avventatamente a quella mano che castiga visibil-
mente tutti quei figli i quali disgustano i proprii genitori, e
si maritano senza consenso loro ? ». E risponde con garbato
ma profondo umorismo:
No, no. Io restai inesorabile al pianto che la mia cara madre versò
aj miei piedi, e ne sono punito terribilmente. Gli arsenali delle ven-
dette divine sono inesausti, e tremino quei figli che ardiscono di pro-
vocarle. Il naturale e il carattere di mia moglie e il naturale e il ca-
rattere mio sono diversi, quanto sono distanti fra loro il cielo e la terra.
Chi ha moglie conosce il valore di questa circostanza; e chi non l'ha,
non si curi di sperimentarlo !
Pare una barzelletta, e ne sorridiamo; ma il sorriso ci
muore sulle labbra, quando consideriamo che codesta diffe-
renza di caratteri fu una delle ragioni principalissime del-
riofelicità di Giacomo Leopardi. Quel matrimonio fu il primo
atto di una commedia ch'ebbe tragica catastrofe.
IV.
La madre di Giacomo.
Quando fu scoperto e sventato il disegno della fuga dalla
casa paterna, il marchese Filippo Solari, uno de' magistrati
governativi di Macerata che aveva aiutato Monaldo a ca-
varsi d'impiccio, gli scrisse, congratulandosi, queste sugge-
stive e rivelatrici parole:
LA MADRE 25
Sono ben contento che il tutto sia finito, e senza l'intesa della Con-
tessa, che se ne sarebbe rammaricata al sommo frrado; e che d'al-
tronde, mi sia permesso il dirlo con franchezza, per la sna eccessiva
peverità potrebbe aver dato Inojro a risoluzioni così sconsisrliate.
Un amico di casa, dunniie. filetta la responsabilità dell'in-
tollerahile tenore di vita imposto a Giacomo e ai suoi fra-
telli, non già sul padre come facevano i tigli, bensì sulla
madre. Or clii guarda le cose dall'esterno, senza passioni,
di solito vede mesclio. Inoltre, ai tìgli, in certe case patrizie
soprattutto, rfon taciute e nascoste molte miserie; in ispecie
quando nel padre c'è un'innata e cavalleresca deferenza
verso la signora della sua casa se non del suo cuore, e nei
figli quel naturale trasporto di parteggiare per la madre.
Potrebbe quindi Monaldo essere stato non lui il vero tiranno,
bensì il ministro responsabile di tirannie di cui esli per il
primo era vittima. Non saremo perciò tacciati d'indiscre-
zione se, per appurare la verità, verremo frugando nel-
l'archivio domestico di questa curiosa e caratteristica fa-
miglia. Dove tutti, poveri reclusi, avevan notevoli attitudini
di scrittori, e tutti par che vivessero con la penna in mano,
pronti a fissare in carta o un avvenimento o un apprezza-
mento, un'impressione fuscsitiva o un pensiero che balenasse
loro alla mente. L'invidiato onore d'aver dato al mondo
un poeta sommo può bene far sopportare in pace la pe-
tulanza dei critici!
Certo, la marchesa Adelaide aveva qualità di mente salde
e virili. Non appena essa mise il piede nella nuova casa, un
sol pensiero s'impadronì di lei: risanare quel patrimonio
dissestatissimo. Oramai tutto crollava sotto l'enorme peso
dei débiti; e i Leopardi non volevano o non sapevano dar-
sene conto. La contessa madre sperperava in inezie gli ul-
timi avanzi della ricchezza sfumata; e i fratelli di lei la-
sciavan beatamente le redini nelle mani di quel bel tipo di
massaio ch'era il nipote Monaldo. TI quale questo solo fece
di bene: non vendette nulla; ma a' vecchi debiti veniva ri-
parando con nuovi, che contraeva a condizioni sempre più
gravi con ebrei di Perugia, di Milano, della Marca. Non c'era
un momento solo da perdere. Da fidanzata, l'Adelaide aveva
proibito allo sposo di spendere'in gioielli ;"da moglie, mandò
26 LA VITA DEL POETA
a Tendere quelli clie ancora trovò in casa i. Pure, essa non
sarebbe riuscita a domare e disarmare il ribelle e prodigo
marito, se questi non le avesse offerto tutto il fianco scoperto.
A Monaldo sorrideva l'idea di ristorar la sua fortuna con
qualche speculazione audace: è « Tidea pazza » (questa volta
è proprio Monaldo che la chiama così!) di « tutti quelli che
si trovano dissestati, i quali, sentendosi incapaci di riequi-
librarsi coi mezzi che possiedono, immaginano di poterlo
fare con quelli che non hanno, e comunemente cadono in
rovina maggiore >>. Xell'anno stesso che il povero Giacomo
veniva in questo brutto mondo, egli, almanaccando che il
prezzo del grano dovesse crescere, ne comperò una cospicua
quantità, parte in credito, parte con la dote della moglie.
Com'era da aspettarsi, il prezzo invece precipitò ; e lo specu-
latore inesperto ci rimise mille scudi. E non tu tutto; che,
per via d'un contratto di vendita in cui era immischiato
il comandante militare di Ancona, dovè costituirsi (e ottenne
per grazia non esservi accompagnato con la forzai) nella
fortezza di questa città. Rivangando quegli avvenimenti,
narrava piìi tardi con aria da scapato impenitente:
Alla mia buona moglie tacqui la causa del mio viaggio per non
angustiarla, ed ella si contentò di non so quale pretesto le addussi,
ancorché mi vedesse partire con un tempo orribile e con un ghiaccio
nelle strade che faceva paura. In quegli anni giovanili il persuaderla
era facile: adesso mi leverebbe le lettere dalle tasche, mi farebbe un
processo, metterebbe a rumore tutto il paese se io le tacessi la causa
di un sospiro, e in fine del conto saprebbe quello che le giova d'igno-
rare.
La Contessa assunse lei l'amministrazione; ma i credi-
tori premevan d'ogni parte, e nel maggio 1803 bisognò im-
petrare dal papa che nominasse un curatore, con pieni po-
teri, e accordasse al fallito l'immunità dal carcere, fino a che
non si liquidassero tutte le vertenze. Pio VII rimise tutto
nelle mani di monsignor Alliata, governatore di Loreto; il
* Per tutto ciò son da vedere le Note biografiche, dianzi citate, della
contessa Teja-Leopardi; e si cfr. anche Emma Boghex-Coxigliani,
La donna nella vita e nelle opere di O. L., Firenze 1898,
LA MADKE 27
quale, validamente coadiuvato dalla signora Adelaide, riuscì
a fare stipulare un concordato decoroso, che salvò i Leopardi
da certa e imminente mina. Si pensi: il debito ammontava
a 48 mila scudi, le rendite annue a 6000, gl'interessi annui
sui debiti a 5833! Monsignor Alliata detrasse subito 15 mila
scudi dai 48, perchè frutto di usura: qualche creditore pre-
tendeva fino il 24 per cento ! Mercè il concordato, ogni debito
sarebbe stato estinto fra 40 anni, corrispondendosi ai cre-
ditori un interesse dell' 8 per cento. Queste cifre gettano, o
m'inganno, una vivida luce sulla squallida fanciullezza del
solitario di Recanati: innocente vittima della goffa e fatua
spreconeria giovanile del padre, ch'egli scambiava per tac-
cagno, e della rigida amministrazione della madre, che aveva
mente calcolatrice ma gretta, cuore scarso e inetto a ogni
slancio, vista corta e offuscata da ubbìe d'ogni genere.
Mandare il primogenito fuori di casa, essa non volle, per
non accrescer le spese; ma sia per boria nobilesca o per
buona politica, non volle nemmeno che si smettessero le
carrozze e i cavalli o si licenziassero i domestici superflui.
E sì che a Recanati le carrozze eran necessarie! Codesta
cittaduzza, che si stende e s'adagia sul dorso pianeggiante
d'un colle alto circa trecento metri sul mare, non aveva, e
non ha, se non una strada sola (« una strada lunga quasi due
miglia, fiancheggiata da qualche vico breve ed ignobile »: la
descrive così Monaldo in persona!) ^, su cui gii edifizi sono
allineati come soldati in parata. E meno male se nella pas-
seggiata i signori l'avessero percorsa tutta! Ma l'etichetta
imponeva di farne e rifarne solo un breve tratto. Una delle
vecchie zie era rimasta famosa tra i nipoti, perchè, quando
li menava a spasso, soleva ordinar solennemente al cocchiere
di fare « i soliti sei giri », E Carlo narrava che si facevano
attaccare i cavalli per andare in casa Antìci, ch'era lì a
due passi ! Nobili miserie, alle quali fu sacrificata la felicità
d'una delle anime piìi elette e sensitive dei tempi nostri!
La mano dell'Adelaide era di ferro, e pesava su tutti.
Quando ebbe sottoscritta l'istanza al papa, per ottenere l'am-
Cfr. e. AXTOXA-TKAYER3I, Studl su G. L., Napoli 1887, p. 172.
28 LA VITA DEL POETA
ministrazione giudiziaria, Monaldo comprese d'aver seornata
la propria sentenza di morte. In virtìi di quell'atto la moglie
divenne l'uomo di casa, ed egli n'indossò le gonne. « Si dette
il caso », narrò la Paolina in una lettera del 1831, « quando
io ero piccina piccina, e anche forse quando non ero nem-
meno nata, clic la gonna di mia madre s'intrecciò fra le
gambe di mio padre, non so come: ebbene, non è stato mai
più possibile ch'egli abbia potuto distrigarsene » i. Monaldo
mordeva il freno, anzi ogni tanto dava una strappata; ma
la domatrice allora accorciava di più le redini. Una volta che,
nel giugno 1827, c'era non so quale grandioso spettacolo al
teatro d'Ancona, e « tutt'i Recanatesi » v'andavano, ei dovè
starsene a casa ; onde la Paolina riferiva a Giacomo : « E
anche a babbo, se non fosse stato tanto impicciato nella sua
gonnella, era venuto voglia d'andarci; ma niente! ». Spietati
i figli con lui; ma gli è che della sua interdizione essi o non
seppero mai nulla, o solo molto tardi. E quando lo accusa-
vano dell'avarizia non sua, ei preferiva tacere, o biascicare
parole oscure, alla confessione che gli ripugnava, d'esser
pupillo della moglie. Solo da vecchio, nel 1838, pensando con
raccapriccio alla morte di Giacomo, si permetteva di scri-
vere, con profetica amarezza, all'altro figliuolo Pierfran-
cesco: «Tutto si metterà al mio debito, giacché l'interno
delle case non si vede, e quello che fa la casa, si stima fatto
dal capo ! ». E si che alle accuse de' figli avrebbe potuto
rispondere come lo Stazio dantesco a Virgilio : « Or sappi che
avarizia fu partita Troppo da me ! ». Povero tiranno da com-
media; che si sfogava poi col cognato, imprecando alle « pre-
potenze delle mogli italiane », e dando dell'» arciforèstica »
al prototipo di esse ch'era toccato proprio a lai !
" Con Giacomo che, debole e infermiccio, s'ostinava a
voler vivere fuori di casa, in climi freddi, egli si strugge di
non poter largheggiare. Xel natale 1822 riesce a mandargli
a Roma qualcosa più che la scarna benedizione paterna, e
gli ride quasi la penna in mano dalla gioia. « Perchè poi »,
^ Lettere di Paolina Leopardi a Marianna ed Anna Brighenti, pub-
blicate da Emilio Co.sta, Parma 1887, p. 53.
LA MADRE 29
gli scrive, « le rugiade celesti nou vadano disgiunto da
qualche stilla di piuguediue terrena, riscuoterete dalla i)osta
scudi 10 che vi ho francati, e vi faranno ricordare il giubilo
infantile, con cui si suole nella prima età vedere il ritorno
di queste lietissime feste ». Nel carnevale successivo scova
tra le cartacce una « pagella » di credito d'otto scudi, donde
forse qualche amico romano avrebbe potuto cavare uno zec-
chino, e rinvia al figliuolo perchè possa « convertii"e il zec-
chino in confetti ». E quando-, in fin dell'aprile, Giacomo,
suJle mosse di tornare a casa, gli domanda consiglio circa
le mance da lasciare, egli risponde con premuroso imbarazzo:
« Spero che oggi otterrò da mamma scudi 12 per infrancar-
veli, ma se non fosse così, supplirete voi,' e li avrete all'ar-
rivo. Penso meglio, e vi accludo un biglietto per Visconti,
che ve li pagherà a vista ». Avrebbe anche voluto invogliare
il figlio a invitare qualche valentuomo a passare un po'
di giorni a Kecanati: «la mamma vostra potrà talora im-
bruttirsene », soggiunge, « ma può darlesi questo piccolo
dispiacere; e altronde chi vuole al mondo essere ben accolto,
bisogna che sia buono e cordiale accoglitore ».
Più tardi, sulla fine del novembre '25, Monaldo sa che a
Bologna suo figlio è infermo. Bramerebbe correre, e non può;
gli manda intanto scadi 25, « che gradii"ete », scrive, « come
un segno di quello che vorrei fare, e che non posso, con
acerbissimo dolore del mio cuore ». E poi, una scatoletta
di tabacco, un bariletto d'olio, una scatola di fichi, fin del
cacio pecorino : tutte cose inutili, è vero, per Giacomo, « ma
forse vi serviranno », sospira il padre amorevole, « per far
conoscere ad altri i prodotti del nostro territorio ». Sicuro;
tutto poteva valere a innalzar Eecanati nell'estimazione
degU uomini: i versi di Giacomo e il cacio pecorino! « In-
grandisci dunque la stima per le nostre contrade », rincal-
zava quel burlone di Carlo, « e fa apprezzare i suoi prodotti
fisici, dopo che dei morali hai mostrato in te un fenomeno ».
30 LA VITA DEL POETA
V.
La ripugnanza di Giacomo alla preìatura, e la rinunzia ai
benefizi ecclesiastici della sua famiglia.
Qui trova posto un rilevaute episodio della vita di Gia-
como. Morto nel dicembre del 1825 il buon zio Ettore, ch'era
canonico e godeva di non so quanti benefizi ecclesiastici,
Monaldo avrebbe voluto che di qualcuno di questi godesse
Giacomino. Ma occorreva che per lo meno ei vestisse da
abate e recitasse rufiizio. E qui era il punto I A quegli ob-
blighi l'amico di Pietro Giordani non sapeva né voleva ac-
conciarsi; eppure, quella rendita gli avrebbe fatto tanto co-
modo ! 0 perchè beneficiato titolare non si nominava il fra-
tello Pietruccio, e a lui intanto non s'accordava un po' del
benefizio « con alcune riserve » ? Le quali Giacomo cercò di
rappresentare al padre sotto l'aspetto più innocente (Bo-
logna, 13 gennaio 1826).
La prima è che io desidererei non essere obbligato ad altro abito
e tonsura se non quello che usano qui anche i preti, e consiste sola-
mente in abito nero o turchino, e fazzoletto da collo nero. La seconda
è che bisognerebbe che io fossi dispensato dall'obbligo dell'uffizio di-
vino, perchè, come Ella ben vede, quest'obbligo mi priverebbe quasi
della facoltà di studiare. Io non posso assolutamente leggere se non
la mattina. Se questa dovessi spenderla a dir l'uffizio, non mi reste-
rebbe altro tempo per le mie faccende. Mi basterebbe di esser dispen-
sato dall'uffizio divino anche a condizione di recitare una quantità di
preci equivalente, giacché, tolta la mattina, tutto il resto della gior-
nata io non ho da far nulla, e ben volentieri ne spenderei qualche ora
in preghiere determinate, purché queste non fossero da leggersi.
Ve l'immaginate il futuro cantore della Ginestra tutto
solo, in un cantuccio, a recitar rosarii ? A Monaldo la sosti-
tuzione non parve assurda, e ne scrisse a Roma; ma_dichiarò
indispensabile l'abito da abate « con ferraioletto, collarino,
chierica e cappello pretino «. E ad evitare equivoci o mezzi
termini, ammonì (16 gennaio 1826):
RIPUGNANZA ALLA PRELATURA 31
Io gradirei, e sommamente gradirei, che vi piacesse lo stato eccle-
siastico, e quindi il vestiario che gli corrisponde. Se ciò fosse, imme-
diatamente potrei ottenervi i distintivi prelatizii, e potreste comparire
nella società in un grado più rispettato, e aprireste ima strada di con-
siderarvi alla Corte nostra, la quale, per quanto vi apprezzi, non saprà
mai come distinguervi, finché non vestirete la sua montura. Altronde
non vedo quale ripugnanza possa aversi ad un abito, clericale o pre-
latizio poco importa, il quale fu l'abito di tanti Santi, e lo fu pure di
tanti uomini grandissimi in ogni genere di grandezza. Conosco che
in addietro per i vostri rapporti letterarii avrete dovuto capitolare coi
pregiudizii, o piuttosto colle malvagità del tempo; ma attualmente la
vostra età, la vostra esperienza e il vostro nome vi mettono al di sopra
di queste umiltà, e siete in grado di dare il tuono nella repubblica
delle lettere, piuttosto che di riceverlo. Qual trionfo, figlio mio, per
la causa dei Santi e dei saggi, e qual gloria per la Chiesa e per lo Stato,
se l'uomo il più erudito forse dello Stato spiegasse arditamente la ban-
diera della, Chiesa, e con ciò proclamasse altamente che gli studii, le
lettere e le meditazioni dei saggi conducono a conoscere e a venerare
la Chiesa, e a disprezzare e combattere i suoi palesi e nascosti inimici ?
Voi con questo atto e in questi tempi fareste per la Chiesa di Gesù
Cristo forse più che non fecero isolatamente i Màrtiri con lo spargi-
mento del loro sangue, e di quest'atto eseguito con intenzione retta,
pura, cristiana, vi trovereste applaudito in terra, e premiato gloriosa-
mente in Cielo. Se per altro lo stato ecclesiastico non vi conviene, e
se consentireste solamente ad assumerlo per questa miseiia del bene-
fizio, io vi consiglierei a non pigliarlo, perchè il galantuomo deve pro-
cedere in coerenza dei suoi principii, e non conviene ricevere stipendio
da un principe, vergognandosi di portare la sua divisa. Mi pare che la
benedizione di Dio non potrebbe essere né sopra di voi né sopra di me,
e che insomma dobbiate restare o ecclesiastico provveduto, o laico
senza beni di Chiesa. Nulladimeno me ne riporto a voi, e farò quanto
sarà per piacervi.
lu verità ch'io non so come un credente convinto., un
gentiluomo e un padre affettuoso avrebbe potuto parlare
piii dignitosamente, onestamente e 'amorevolmente di così.
Sarebbe indizio di durezza di cuore far carico all'infermo e
sprovveduto figliuolo della titubanza mostrata in quest'oc-
casione; ma sarebbe indizio di diuezza di mente voler con-
tinuare a biasimar la condotta del padre, ora che i docu-
menti ce la illuminano di luce così nuova.
L'esplicita lettera di Monaldo ne provocò un'altra, abba-
stanza esplicita, di Giacomo (25 gennaio). Ei si dichiara
oramai convinto u pienamente della impossibilità di conci-
liare la sua vita presente colla condizione di benefiziato ec-
clesiastico »; e prosegue:
32 LA VITA DEL POETA
Quanto al mutare sitato, sebbeue io non latici di apprezzare intini-
tamente gli amorosi consigli che Ella mi porge, e le ragioni che ne ad-
duce, debbo confessarle con libertà e sincerità liliale che io vi provo
presentemente tal repugnanza, che quasi mi assicura di non esservi
chiamato, ed anche di dovere riuscire poco atto all'adempimento de'
miei nuovi doveri in caso che io li volessi abbracciare. Prevedo non
impossibile, anzi più possibile che forse Ella stessa non crede, che col
crescere dcU'eta, la mia disposizione si cangi totalmente, e mi conduca
a quella risoluzione, alla quale ora sono cosi poco inclinato; ma in ciò
mi pare di non dover prevenne l'eiletto del tempo, prendendo oggi un
partito che io sento che sarebbe affatto prematuro.
Il cuore di padre e la coscienza di buon cattolico del po-
vero Monaldo eran messe a dnia prova; che in questa me-
desima lettera il figlio diletto e glorioso lo informava dei
tormenti che gii cagionava il freddo clima di Bologna. Sog-
giungeva :
Qui non abbiamo gran neve, ma freddi intensissimi che mi tormen-
tano in modo straordinario, perchè la mia ostinata riscaldazione d'in-
testini e di reni m'impedisce l'uso del fuoco, il camminare e lo star
molto in letto. Sicché dalla mattina alla sera noji trovo riposo, e non
fo altro che tremare e spasimare dal freddo, che qualche volta mi dà
voglia di piangere come xm bambino... Sospiro continuamente la pri-
mavera.
Il preteso tiranno rispose (31 gennaio):
A me, come a vostra madre, ha fatto grandissima pena il sentire
quanto soflrite per il freddo. Io lo prevedevo, ed anche per questo
avevo desiderato che ritornaste a passare l'inverno in casa, dove avreste
ritrovata maggiore custodia, ed un clima meno rigoroso di quello di
codesta cittì, riputata la ghiacciaia dell'Italia. Piaccia al Signore che
non vi sia di danno, e presto la mitigazione dell'aria vi ridoni intiera
salute!... Venendo al benefìzio, lodo la vostra risoluzione, e lodo anche
che non pensiate ad abbracciare lo stato ecclesiastico, finche non ci
siate invitato da quello Spirito che spira dove vuole, e non dove sem-
brerebbe bene a noi che spirasse. Anche senza il collare si può esser
santi, e san Pietro apre le porte del Paradiso anche senza la dimis-
soria del Vescovo, Mi sono però informato, ed ho conosciuto che Roma
qualche volta accorda ai patroni di sospendere la presentazione del
nuovo rettore per sei o otto anni, e di applicare le rendite ad un uso
onesto, sopportati i pesi consueti. Io volentieri domanderò questa
grazia, e cederò a voi le rendite del benefizio, ma bisogna maneggiar
bene la cosa per i miei riguardi domestici. Scrivetemi ostensibilmente
nei termini suddetti, come avendo avuto questo lume da altri, e prega-
RIPUGNANZA ALLA PRELATURA
temi di farri ottenere questa piccola temporanea provvista, toccando
che voi niente costate alla casa. Io sono inimico giurato di questi ^iri,
ma nìi conviene patteggiare fra il mio cuore ed il molto giudizio di
mamma vostra; la quale vi ama tenerissimamente, ma crede che le
vostre lettere siano una miniera d'oro, la quale vi rende inutile qualimque
altro sussidio.
Giacomo si prestò al giochetto (cfr. lettera dell* 8 feb-
braio); e il padre di rimando (12 febbraio): e Del beDefìzio
lasciatevi servire, e penserò io a tutto >. E ci pensò davvero.
Pur di soccorrere il figliuolo, se non reprobo c^rto traviato
(ali quel mariolo del Giordani, benedettino sfratato!)^, il
quale s'era ostinato nel- non voler vestire l'abito ecclesia-
stico, quel padre vilipeso venne a un accomodamento o a un
compromesso con la propria coscienza di credente 1 Tuttavia
gli raccomandò il piìi assoluto silenzio; e la lettera del 21
aprile 1826, che a noi ha rivelato l'arcano, è stata pubblicata
solo di recente, e quasi di soppiatto. In essa Monaldo dice a
sua giustificazione :
Nel foro della coscienza io sono salvo, perchè non vi do li benefizi
col patto di riaunziarli, né con veruno altro patto, anzi ve li do libera-
mente di cuore e con desiderio che voi li riteniate. Nel foro esterno
però questa rinunzia concordata precedentemente potrebbe dar so-
spetto di simonia ed esporci a perdere li benefizi. Frattanto, per meglio
assicurarne la conservazione, è necessario un qualche piccolo vostro
sacrifizio, cioè che usiate una cravatta nera ed un soprabito modesto,
sicché nessuno possa pescare costà un documento o prova che voi ve-
stite decisamente in abito da secolare... Appena seguita la riaunzia,
voi sarete libero da qualunque impegno; ma vi ripeto che se vorrete
ritenere i benefizi, io ne sarò contentissimo, e per questo- la rinunzia
non si farà senza altra vostra precisa commissione... Addio, mio caro
figlio, vi abbraccio e vi benedico con tutto il cuore.
A volta di corriere, Giacomo, vinte le ultime tentazioni,
rispose definitivamente rinunziando (24 aprile):
Ringraziandola poi sinceramente e vivamente della bontà con cui
Ella mi ha destiaati i benefizi e desidera ch'io li ritenga, le confermo
la mia intenzione di rinunziarli per non portare i pesi annessi ed indi-
spensabili.
^ Sulla Giovinezza di Pietro Giordani è da vedere il bel libro di
Gaetano C apasso, Torino 1S96. La molta somiglianza nei sentimenti,
nei desiderii e nella infelicità dei primi anni, spiegano meglio l'appas-
sionato interessamento dello scrittore piacentino pel martire e recluso
di Recanati.
3. — G. Leopardi.
34 LA VITA DEL POETA
VI,
L'angustia di mente e di cuore delia madre di Giacomo,
le gravi accuse del marito e dei figli.
Quella rimiuzia fu un duro sacrifizio. Il 16 ottobre di quel-
l'anno medesimo, Monaldo, mortificato del non averne più
spesso lettere, riscrìve al figlio con affettuoso accoramento:
Sono oramai quindici mesi clie state fuori di casa, e avete viaggiato,
e vi siete mantenuto senza il concorso mio. Dovete conoscere il mio
cuore, e potete dedurne quanto dolore mi abbia arrecato il non provve-
dere alli vostri bisogni, o anche alli vostri piaceri; e se pure voi non
avevate bisogno del mio concorso, io avevo bisogno e desiderio arden-
tissimo di dimostrarvi frequentemente il mio tenerissimo affetto.
I tempi però veramente funesti, ma più di tutto mamma vostra, che, come
sapete, vii tiene non solamente in dieta, via in un loerfetto digiuno, ini
hanno costretto ad un contegno, riprovato prima di tutto dal viio cuore,
e poi dalla equità e quasi dalla convenienza. Nulladimeno son vivo e,
quantunque alla lontana come di cosa oramai prescritta, pure ho me-
moria che sono il padrone di casa mia. Voi state sial tornare. Se nulla
vi occorre, tanto meglio; ma se vi bisogna denaro per il viaggio, e per
pagare qualche debituccio, o comunque, ditelo all'orecchio al padre e
amico vostro.
e Mamma vostra » : ecco la vera nemica ! E pensare : in
casa Leopardi tutti si mostrano tenerissimi per il loro amato
e già famoso assente, che chiaman carezzosamente Buccio,
Muccio, Giacomuccio, Muccetto, Mucciaccio; tutti sospi-
rano i suoi ritorni; tutti si dicono orgogliosi della sua gloria:
tutti, meno una. sola persona, quella che ci saremmo aspettati
la pili tenera e premurosa, la madre I Tra le infinite lettere,
che Giacomo conservò scrupolosamente, del padre, della so-
rella, dei fratelli; della marchesa Adelaide Antìci contessa
Leopardi non ce n'ha che due soltanto (di altre « poche
righe » si fa cenno in una risposta di Ciiacomo, del dicembre
1832), e come scolorite e laconiche ! L'una è del 29 novembre
1822, e dice:
Caro, carissimo figlio. Molto mi ha rallegrato la vostra lettera, ma
molto più quella che avete scritta al babbo da Spoleto. Vedo che co-
LE LETTERE DELLA CONTESSA
noscete bene i vostri doveri a suo riguardo, e ciò mi è sparante della
vostra buona condotta in avvenire. Sapete quanto io vi amo sincera-
mente, e qual spina mi sia stata al cuore il vedervi sempre malcon-
tento e di mal umore. Prego, benché indegna, il Signore e la cara nostra
avvocata Maria SS. ma, perchè vi renda pienamente felice... Abbiatevi
moltissima cura, e non trattate persone indegne. Vi ritorno mille saluti
di tutti. Amatemi, e credete sempre all'affetto sincero della vostra af-
fezionatissima madre che vi abbraccia e vi benedice.
Da ima madre che si staccava per la prima volta dal suo
primogenito, oramai così « malcontento e di mal umore »,
così cagionevole di salute, e che oltre tutto il resto era pure
Giacomo Leopardi, avremmo forse avuto il diritto d'atten-
derci qualcosa di meglio: non solo un po' più di cuore, ma
anche un po' più d"intelligenza I Nonostante le sue proibi-
zioni, l'ostinato figliuolo le riscrisse da Roma il 22 gennaio
dell'anno dopo (1823).
Cara Mamma, Io mi ricordo ch'Ella quasi mi proibì di scriverle,
ma intanto non vorrei che, pian piano. Ella si scordasse di me. Per
questo timore rompo la Sua proibizione e Le scrivo, ma brevemente,
dandole i saluti del zio Carlo e del zio Momo. Sono in piedi oggi per
la prima volta dopo otto giorni intieri di letto, e la mia piccola piaga
è ben chiusa. Se non si riapre, che spero di no, son guarito. S'Ella non
mi vuol rispondere di Sua mano, basterà che lo faccia fare, e mi faccia
dar le Sue nuove, ma in particolare, perchè le ho avute sempre in ge-
nere. La prego a salutare cordialmente da mia parte il Papà e i fratelli;
e se vuol salutare anche D. Vincenzo, faccia Ella. Ma soprattutto La
prego a volermi bene, com'è obbligata in coscienza, tanto pi» ch'alia fine
io sono i^n buon ragazzo, e Le voglio quel bene ch'Ella sa o dovrebbe sapere.
Le bacio la mano, il che non potrei fare in Recanati. E con tutto il cuore
Vìi protesto Suo figlio d'oro Giacomo alias MrcciACCio.
A questa la Contessa replicò con la seconda letterina,
del 26 gennaio, anch3 più scarna.
Carissimo ei amatissimo figlio. Ad onta del divieto mi avete scritto
due volte con tanta cordialità. Ve ne sono tenuta; e molto più perchè
mi date notizie ottime della carissima vostra salute. Xoi pure, grazie
al Signore, la godiamo perfetta. Sempre più mi anima la lusinga della
vostra buona condotta. Abbiatevi tutta la cura, perchè abbiamo un
inverno crudo assai... Addio, figlio d'oro: continuatemi il vostro af-
fetto sincero, e crediatemi di tutto cuore la vostra affezionatissima
madre.
Le perdoneremmo di tutto cuore codesto suo crediatemi
(un provincialismo o preziosità che la pia contessa aveva co-
30 LA VITA DEL POETA
mime col miscredente Giordani, e che una volta, nella lettera
al padre del 3 settembre 1824, cade perfin dalla penna di
Giacomo), e quanti altri idiotismi in cui sarebbe forse caduta
scrivendo più spesso, in grazia di quel soave fiqìio d'oro, se
quest'espressione non ci ricordasse, con un bagliore sinistro,
quel metallo a cui l'austera massaia sacrificò la felicità e la
salute dell'incompreso e immeritato figliuolo.
Alla signora Adelaide, rigida e impeccabile, mancava la
squisitezza del sentimento materno : quella tenerezza nuova
che trasforma e consacra la donna, che la fa vivere della
sua creatura, per lei e con lei, vigilante sempre, instanca-
bile; quella carezza ineffabile ond'essa, presente o lontana,
circonda e preserva il cuor del suo cuore, l'anima delFanima
sua. (Me l'hai insegnato tu, mia povera mamma adorata, a
cui queste pagine non verranno, ohimè, sotto gli occhi I).
Una famiglia non è un collegio d'educazione; e la Contessa,
che vi sarebbe stata un'ottima economa, non fu una buona
madre. Se, osservò già il D'Ovidio i, ella « avesse avuto un po'
pili di cuore, se avesse sentito un po' piìi di tenerezza e di
rispetto per quel prodigioso fanciullo a cui aveva visto con-
sumare la gracile fanciullezza in una applicazione così in-
tensa, così virile ed eroica, ella si sarebbe contentata di andar
restaurando il patrimonio di casa Leopardi un po' piti len-
tamente, pur di dare a quel suo povero figliuolo la sodisfa-
zione di uscire un po' da Recanati, o almeno pur di soccor-
rerlo quando egli, riuscì a viverne lontano I Ella non pensò
che a restaurare il patrimonio ; e ci riuscì, ma a scapito della
felicità dei figli, e di Giacomo in ispecie. Alla fin fine, co-
desto patrimonio fu ben potuto restaurare in pochi anni, e
lo fu in maniera che dipoi tutte le persone di casa Leopardi
poterono sguazzare nelle migliaia di scudi. Ci doveva essere
dunque panno da tagliare ! ».
Ai figli ne lei né Monaldo accordaron mai l'intimità: li
tenevano anzi a rispettosa distanza; e, com'era naturale, non
ne ebbero la confidenza. Con gli anni, codesta strana condi-
zione cominciò a pesare al padre; che il lo dicembre 1827
se ne lamentò col figliuolo sempre prediletto.
Saggi critici, p. 661.
LA Kl^EKVA■iEZZA MATERNA 37
Se voi non ricevete più spesso lettere mie, ciò non accade percliè
mi sia molesto lo scrivervi, che niente mi piace tanto quanto il trat-
tenermi col mio caro figlio, né perchè voi mi scriviate tanto di raro,
ciò che mi dispiace senza puntigliarjui, che coi figli non si sta sull'eti-
chette; ma accade perchè mi pare che le lettere mie sieno di molestia
a voi, e che voi diate ad esse un riscontro stirato stirato, come i versi
latini dei ragazzi, quasi che il vostro cuore trovasse un qualche in-
ciampo per accostarsi al mio, il quale vorrebbe esser veduto da voi
xma volta sola e per un solo lampo, e questo gli basterebbe.
Giacomo rispose con una franca e dolorosa dichiarazione
(da Pisa, 24 dicembre).
Le dico... e le protesto con tutta la possibile verità, innanzi a Dio,
che io L'amo tanto teneramente quanto è o fu mai possibile a figlio
alcuno di amare il padre; che io conosco chiarissimamente l'amore
che Ella mi porta, e che a' suoi benefizi e alla sua tenerezza io sento
una gratitudine tanto intima e viva, quanto può mai essere gratitu-
dine umana; che darei volentieri a Lei tutto il mio sangue, non per
solo sentimento di dovere, ma di amore, o, in altri termini, non per
sola riflessione, ma per efficacissimo sentimento. Se poi Ella desidera
qualche volta in me più di confidenza e più dimostrazioni d'intimità
verso di Lei, la mancanza di queste cose non procede da altro che
dall'abitudine contratta sino dall'infanzia, abitudine imperiosa e invin-
cibile, perchè troppo antica e cominciata troppo per tempo...
Della madre poi, Carlo raccontava che essa stendeva
bensì loro la mano perchè la baciassero, ma non se li strinse
mai al seno; così che quando l'oblioso Giacomo, da Bologna
(10 ottobre 1825), si permette di scrivere alla Paolina: « dà
un bacio per me a Pietruccio, e mille alla mamma, alla quale
raccomanda di aversi cura », a noi par di vedere l'austera
marchesana accigliarsi e tirarsi indietro, perchè il figlio non
discenda a tanta familiarità. Giacomo ha fin paura di riu-
scirle fastidioso se le chiederà direttamente conto della sua
salute. « Mi dispiace assai del raffreddore della mamma », dice
invece al padre (10 ottobre 1825): «non le scrivo per non
annoiarla, e perchè so che questa lettera sarà comune anche
a lei; ma Ella le dica, La prego, le più tenere cose per me,
e mi dia nuove della sua salute ». Perfino a quella madre
davan noia le tenerezze tra fratelli. « Non ho molto garbo
nella galanteria », scrive un'altra volta (30 dicembre 1822)
Giacomo alla sorella amatissima, « e di più temo che, se
38 LA VITA DEL POETA
volessi usarla con voi, la mamma non abbruciasse le mie
lettere o prima o almeno dopo di avervele date ». Perchè
sembra che la castellana si credesse lecita, qualche volta,
fin la censura postale: il sospetto, latente nelle lettere di
Giacomo e in quelle di Monaldo, vien francamente formulato
da Carlo. Nella lettera al fratello, del 19 giugno 1826, questi
narra :
Mi è entrato in testa un diabolico sospetto, che mamma abbia
aperta la mia lettera consesrnatale da Paolina per francarla come al
solito. Vari segni di turbamento in mamma al sentire che tu non avevi
ancora ricevuta la lettera, e il rifiuto ostinato di asserirmi il contrario,
fan credere, tanto a Paolina che a me, che ella, non avendo avuta no-
tizia di ciò che conteneva l'ultima tua a me, si sia servita di questo
mezzo per sodisfare la curiosità donnesca, e l'imperiosità che è ormai
divenuta in lei insopportabile... Pare impossibile che debbano cre-
scere i motivi per farmi abborrire questo soggiorno, e ti giuro che questa
minuzia mi tien disperato più del solito. Perdio ! non poter cavar dalla
bocca di una donna un sì o un «o ! Se l'ha aperta, sia ben fatto ; solamente
mi dica di sì. Io non dico niente. Le tue lettere però non le apre.
E il pericolo dell'inquisizione domestica faceva sì che i
fratelli e il padre raccomandassero a Giacomo di servirsi, per
certe lettere, d'un falso indirizzo. Paion dei Carbonari che
congiurino per sottrarsi all'occhiuta sorveglianza della po-
lizia 1 «La tua assenza», riscrive Carlo al primogenito (6
marzo 1823), « mi ha fatto stringere maggior amicizia con
Luigi, che verrà degno della nostra fratellanza, se non altro
per il cuore e per la devozione assoluta! alla causa comune ».
Tuttavia di tratto in tratto la Contessa si ricordava d'aver
un figliuolo lontano, che, a quanto dicevano, dava prove di
molto talento. E allora gli faceva scrivere d'occuparsi a com-
perare non so che velluto ^, a cercare un marito per la Pao-
lina o una moglie per Carlo, e di raccomandar caldamente
a un certo monsignore Auditor di Rota una causa di fa-
' Giacomo risponde da IJologna, nel marzo 1826, alh; Paolina: « Un
velluto perfettamente simile alla mostra non si è potuto assolutamente
trovare... Ti mando certe mostre di velluto che si accostano al colore
di cotesto. Se mamma crede che qualcuno di questi faccia a proposito,
rimandami quella tal mostra, e mamma sarà servita subito per la di-
ligenzar». Povero figliuolo!
I « PENSIERI » CONTRO IL PADRE 39
miglia, u Contento la mamma con l'indicarvi il suo desi-
derio », soggiungeva timidamente Monaldo (19 giugno 1828),
(( e rimetto il resto alla vostra prudenza e pieno arbitrio ».
Una volta poi, mentre Giacomo versava nel maggior bisogno,
la Contessa s'indusse fino a mandarle non so qual regaluccio.
E il figlio, commosso, scrive alla Paolina (9 dicembre 1825):
Ringrazia tanto e poi tanto la mamma del suo caro dono, che io
conserverò come mia reliquia, e dille che la consolazione di vedere il
suo carattere per me è stata tanta che quasi dubitavo di travedere.
Giacomo fu, sino all'ultimo, inesorabile col padre. E nei
Pensieri, ch'egli medesimo ordinò i, il II e il CIV suonano
ancora un biasimo feroce. Il II comincia:
Scorri le vite degli uomini illustri, e se guarderai a quelli che sono
tali, non per iscrivere, ma per fare, troverai a gran fatica pochissimi
veramente grandi, ai quali non sia mancato il padre nella prima età...
La potestà paterna appresso tutte le nazioni che hanno leggi, porta
seco una specie di schiavitù de' figliuoli; che, per essere domestica,
è più stringente e più sensibile della civile; e che, comunque possa
essere temperata o dalle leggi stesse, o dai costumi pubblici, o dalle
qualità particolari delle persone, un efletto dannosissimo non manca
mai di produrre: e questo è un sentimento che l'uomo, finché ha il
padre vivo, porta perpetuamente nell'animo... Dico un sentimento
di soggezione e di dependenza, e di non essere libero signore di sé me-
desimo, anzi di non essere, per dir così, una persona intera, ma una
parte e un membro solamente, e di appartenere il suo nome ad altrui
più che a sé...
Ed è anche piti acre e personale il CIV.
L'educazione che ricevono, specialmente in Italia, quelli che sono
educati (che a dir vero, non sono molti), è un formale tradimento or-
dinato dalla debolezza contro la forza, dalla vecchiezza contro la gio-
ventù. I vecchi vengono a dire ai giovani: fuggite i piaceri propri della
vostra età, perchè tutti sono pericolosi e contrari ai buoni costumi.
e perchè noi che ne abbiamo presi quanti più abbiamo potuto, e che
ancora, se potessimo, ne prenderemmo altrettanti, non ci siamo più
atti, a causa degli anni. Non vi curate di vivere oggi; ma siate ubbi-
dienti, sofferite, e affaticatevi quanto più sapete, per vivere quando
non sarete più a tempo. Saviezza e onestà vogliono che il giovane si
astenga quanto è possibile dal far uso della gioventù, eccetto per su-
^ Cfr. F. 1*. Lurso, .Sui Pensieri di G. L., n'&lla « Rassegna Nazio-
nale », Firenze, 1° maggio 1899.
40 LA VITA DEL POETA
perare ^li altri nelle fatiche. Della vostra sorte e di ogni cosa impor-
tante lasciate la cura a noi, che indirizzeremo il tutto all'utile vostro.
Tutto il contrario di queste cose ha fatto ognuno di noi alla vostra
età, e ritornerebbe a fare se ringiovanisse: ma voi guardate alle nostre
parole, e non ai nostri fatti passati, né alle nostre intenzioni. Cosi fa-
cendo, credete a noi conoscenti ed esperti delle cose umane, che voi
sarete felici. Io non so che cosa sia inganno e fraude, se non è il pro-
mettere felicità agl'inesperti sotto tali condizioni. — L'interesse della
tranquillità comune, domestica e pubblica, è contrario ai piaceri ed
alle imprese dei giovani; e perciò anche l'educazione buona, o così
chiamata, consiste in gran parte nell'ingannare gli allievi, acciocché
pospongano il comodo proprio all'altrui... Più notabile é, che mai
padre né madre, non che altro istitutore, non senti rimordere la co-
scienza di dare ai figliuoli un'educazione che muove da un principio
cosi maligno... — Frutto di tale coltura malefica, o intenta al profitto
del cultore con rovina della pianta, si é, o che gli alunni, vissuti da
vecchi nell'età florida, si rendono ridicoli e infelici in vecchiezza, vo-
lendo vivere da giovani; ovvero, come accade più spesso, che la na-
tura vince, e che i giovani, vivendo da giovani in dispetto dell'edu-
cazione, si fanno ribelli agli educatori, i quali se avessero favorito
l'uso e il godimento delle loro facoltà giovanili, avrebbero potuto re-
golarlo, mediante la confidenza degli allievi, che non avrebbero mai
perduta.
Qui è anche implicito un biasimo per la madre; ma di-
rettamente ed esplicitamente Giacomo si guardò bene dal
prenderla mai di mira. Xelle opere a stampa, dico; che in
quel preziosissimo suo Zibaldone, venuto alla luce solo di
recente, si è poi trovata questa pagina, che rattrista. La
signora Adelaide vi è ritratta al vivo, in tutta la rigidità e
glacialità delle sue forme disseccate. Porta la data del 25
novembre 1820.
Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era
punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cri-
stiana e negli esercizi, della religione. Questa non solamente non com-
piangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'lnvi-
diava intimamente e sinceramente, perchè questi eran volati al para-
diso senza pericoli e avean liberato i genitori dall'incomodo di man-
tenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella
stessa età, non pregava Dio che li facesse morii-e, perchè la religione
non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o af-
fìiggtjrsi il marito, si rannicchiava in sé stessa e provava un vero e
sensibile dispetto. Era esattissima negli uflBzi che rendeva a quei po-
veri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che fossero inutili,
ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell'interrogare
LA MORTE DEL FRATELLO LUIGI 41
o consultare i medici era di sentirne opinioni o ragguagli di migliora-
mento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una
gioia profonda, che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che
la condannavano; e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei
un giorno allegro ed ameno, né sapeva comprendere come il marito
fosse si poco savio da attristarsene.
Il qiial marito, nella trepidazione per la malattia d'uno
dei figliuoli e poi nell'angoscia per averlo perduto, era ca-
pace di scriver frasi come queste:
... Piaccia al Signore di accordare un esito uguale [lieto e sollecito]
alla malattia di Luigi, la quale mi dà infinita pena, perchè di petto, e
finora resistente ai rimedi. Sapete quanto amo tutti voi, e quanto mi
trafigge ogni vostro male e pericolo; ma Iddio che vede il mio cuore,
non lo lascerà senza consolazione. (2 maggio 1828).
Il giorno della Santa Croce fu quello, in cui si vide che la perdita
era irreparabile, e il giorno seguente, in cui quest'anno per essere do-
menica avevamo trasferita la festa, fu quello in cui si spezzò la corona
delle giovani olive, che erano l'allegrezza e decoro della mia mensa;
in cui l'angelo della morte passò sopra la nostra casa, inalberandoci
lo stendardo del pianto, e in cui rimasi per sempre desolatissimo padre.
Giacomo, figlio mio, voi sapete quanto sia sviscerato il mio amore per
tutti voi miei figli, e potete immaginare una parte del mio immenso
cordoglio. Il mio cuore non trova pace, non distinguo più i giorni dalle
notti, le lagrime mi hanno affievolita la vista, et noluit consolari quia
non sunt... ^. Lascio, perchè il mio cuore si spezza. Forse non dovevo
ferire il vostro, ma non ricuserete di unire le vostre lagrime a quel
mare di dolore e di pianto, in cui siamo stati e siamo immersi. Non
vi dirò niente di vostra madre. Nulladimeno, grazie a Dio, sta piuttosto
bene. (16 maggio).
Questa mattma ricevo la carissima delli 2'i, e ne sento molto con-
forto. Il mio cuore ne è bisognoso all'estremo, e l'arrecarmelo è un
atto di vera pietà. Il gran colpo, con cui il Signoi'e ha voluto visitarci,
mi ha sbalordito, e non so se io penso o vaneggio. Sapevo che vive-
vamo in una valle di pianto, ma in verità non credevo che i poveri
figli di Adamo fossero capaci di tanto dolore. Voi, Giacomo mio, pian-
gerete un giorno per la morte dei vostri genitori, ma la previdenza di
queste lagrime le renderà meno inconsolabili. Quelle però di un padre
per là morte di un figlio sono imprevedute, terribili, inesaxaste, e lo
accompagneranno al sepolcro. Soltanto i figli che restano possono in-
fondere qualche balsamo in questo mare di amarezza; e voi lo fate
caramente con l'amorosa e pietosissima vostra, che ho già letta più
volte e baciata con tenerezza. Iddio ve ne benedica!... Il rivedervi mi
1 Matth. II, 18: « Rachel plorans filios suos, et noluit.
42 LA VITA DEL POET.
sarà dolcissimo, anzi vi diro in verità che il mio cuore non sa preve-
dere un momento d'ilarità, se non attraverso di questi me.=i che deb-
bono tuttora separarci. NuUadimeno non anticipate e non precipitate
le vostre mosse, e fate che io vi riveda sano, come dite di stare adesso
con mia somma consolazione... Tutti vi abbracciano e vi accarezzano.
Non dubitate, ficrlio mio, che il mio cuore, quantunque ferito acerba-
mente e insanabilmente, sia chiuso ad ogni altro sentimento fuori che
al suo immenso dolore. Pur troppo è spezzato per sempre il bel serto
della mia gloria, ma sento tutto il prezzo delle gemme che me ne re-
stano. (1" giugno).
E torniamo, per poco ancora, a quella tal «^ madre di
famiglia » conosciuta « intimamente )> dal poeta; da quel po-
vero poeta, che doveva conìondere i suoi coi lamenti di SafTo,
e piangere con lei i danni del « disadorno ammanto ». Che
prò se, mentre gli altri spregiavano il suo « aspetto misera-
bile », la madre — crudele ironia del caso I — ringraziasse
Dio di quella deformità onde aveva deturpato e guasto il
frutto delle sue viscere, e rèsolo perciò meno esposto alle
tentazioni mondane ?
Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi
figli brutti o deformi ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta
voglia. Non procurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro
difetti, anzi pretendeva che in vista di essi rinunziassero intieramente
alla vita nella loro prima gioventù: se resistevano, se cercavano il con-
trario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n'era indispettita,
scemava quanto poteva colle parole e coll'opinion sua i loro successi
(tanto de' brutti quanto de' belli, perchè n'ebbe molti), e non lasciava
passare, anzi cercava studiosamente l'occasione di rinfacciar loro e far
loro ben conoscere i loro difetti e le conseguenze che ne dovevano
aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità
spietata e feroce. Sentiva i cattivi successi de' suoi figli in questo o
simili particolari con vera consolazione, e si tratteneva di preferenz^
con loro sopra di ciò che aveva sentito in loro disfavore. Tutto questo
per liberarli dai pericoli dell'anima; e nello stesso modo si regolava
in tutto quello che spetta all'ediicazione dei figli, al produrli nel mondo.
al collocarli, ai mezzi tutti di felicità temporale.
Questa dipintura fredda e spietata ci fa ribollire nel
cuore tutte le imprecazioni piii terribili dei Canti; e pensiamo
con nuovo raccapriccio quale inferno moiale dovesse essere
per l'infelicissimo e appassiouatissimo Giacomo quella casa
patrizia, dove imjjerava inesorabile una tal donna, che ci ri-
IL PENSIERO 0 CIRCA LA MADRE 4.3
pugna chiamar madre ^. E Giacomo non è il solo accusa-
tore, come non era runica vittima. La soave Paolina così
deponeva contro la rigida tiranna; in un'altra delle sue let-
tere alle amiche Brighenti:
Marna è una persona ultrarigorista, un vero eccesso di perfezione
cristiana, la quale non potete immaginarvi quanta dose di severità
metta in tutti i dettagli della vita domestica. Veramente ottima donna
ed esemplarissima, si è fatta delle regole di austerità assolutamente
impraticabili, e si è imposti dei doveri verso i figli che non riescono
loro punto comodi.
E qualche anno piìi tardi, continuava, associando pieto-
samente alle vittime anche quel disgraziato di Monaldo:
Papà è buonissimo, di ottimo cuore, e ci vuole molto bene: ma gli
manca il coraggio di affrontare il ìnuso di marna anche per una cosa
lievissima, mentre ha quello di affrontare il nostro assai spesso... Ma-
rianna mia, non se ne può più affatto affatto. Io vorrei che tu potessi
stare vm. giorno solo in casa mia, per prendere un'idea del comesi possa
vivere senza vita, senza anima, senza corpo I
Giacomo, il tenero cantore di Xerina e di Silvia, di co-
deste fanciulle « tenerelle » strappate alla sua innocente con-
templazione « pria che l'erbe inaridisse il verno », combattute
e vinte a da chiuso morbo », ha ancora qualcosa da dire su
quella tal madre di famiglia.
Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma pochissima per
le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta la vin-
ceva. Le malattie, le morti le più compassionevoli de' giovanetti estinti
nel fior dell'età, fra le più belle speranze, col maggior danno delle fa-
miglie o del pubblico ecc., non la toccavano in verun modo. Perchè
diceva che non importa l'età della morte, ma il modo : e perciò soleva
sempre informarsi curiosamente se erano morti bene secondo la reli-
gione, o, quando erano malati, se mostravano rassegnazione ecc. E
parlava di queste disgrazie con mia freddezza marmorea.
* Tra gli Appunti e ricordi del 1819, i quali, come ha ben dimostrato
Angelo Moxteverdi (Giomnle Storico della h-tt. itcd., LIV. irìl ss.).
non sono se non l'abbozzo d'un romanzo autobiografico che avrebbe
avuto per titolo J'ita di Silvio, o Lorenzo, Sarno, è pur questo spunto:
a Pianto e malinconia per esser uomo, tenuto e proposto da mia madre
per matto ». Scritti vari inediti, p. 273.
44 LA VITA DEL POETA
Quando, nel 1847, uno dei tanti ammiratori del sommo
poeta si recò in pellegrinaggio a Recanati per visitarne la
casa, nella camera dovegli era nato, « innanzi un gran
letto», vide «ritta in piedi la madre sua: maestosa della
persona, austera, coi capelli candidissimi ». Il visitatore pro-
ruppe: «Benedetta colei die 'n te s'incinse!». Ma la ma-
trona 'non die segno di commozione. <( Soltanto, levando gli
occhi al cielo, esclamò: Che Dio gli perdoni! » i. Avesse al-
meno detto: Che Dio gli abbia perdonato! « Quell'altra vit-
tima, Paolina, quando novella gli giunse che le era morto
il fratello grande e infelice, segnò nelle sue note il funereo
giorno, aggiungendo sotto: Addio, Giacomino mio: ci rive-
dremo in paradiso ! » ^.
1 F. Zamboxi, Roma nel Mille, Firenze 1875, p. 408.
" Carducci, Degli sjììrUi e delle forme nella poesia di G. L., p. 30 .
— Può qui trovar posto il curioso e caratteristico aneddoto raccon-
tato dal D'Ovidio (nel «Corriere della sera » del 12-1.3 gennaio 1898)
" Il mio rimpianto amico Ippolito Amicarelli <>, ecrli narra (l'ottimo
Amicarelli, che finì preside del r. Liceo Vittorio Emanuele di Napoli,
è l'autore del libro Della lingua e dello stile italiano; intorno a lui è da
vedere il saggio del D'Ovidio medesLoio, nei i?impì'a7i^i, Palermo, Sandron,
1903, p. 201 ss.\ «che fu deputato per la sua nativa Agnone al primo
Parlamento italiano, viaggiando una volta nell'Italia centrale si trovò
per un tratto di ferrovia da solo a solo con una signora attempata.
Attaccarono discorso. La signora disse esser di Recanati; egli cominciò
a tempestarla di domande circa il Leopardi, le chiese delia sorella Pao-
lina. La Paolina, che era proprio lei, e in quello scompartimento era
salita appunto perchè ci aveva visto lui prete, commossa a quelle do-
mande e scorgendo la commozione del suo interlocutore, gli chiese
subito se a parer suo Giacomino fosse potuto andare in i)aradiso. L 'Ami-
carelli che, patriotta ardente, era però insieme credente sincero e assai
più fervido che generalmente non paresse, si trovava d'essersi posto
tante volte anche lui quel problema; poiché del Leopardi era, non oc-
corre dirlo, ammiratore grande, e non lo leggeva né vi pensava mai
senza lacrime. Fattagli ora quella domanda, e da quella Paolina lun-
gamente cara a lui di riverbero come a tutti i lettori del Leopardi, e
conosciuta li per lì la prima volta e quasi ingenuamente supplicante
da lui la celeste beatitudine del fratello adorato, si sentì nell'animo
una persuasione più chiara, una speranza più sicura che non avesse
mai avuta, e con focosa parola dimostrò, spiegò, assicurò in quattr'e
quattr'otto che il povero Giacomo era andato in paradiso di volo: con
tutte le scarpe, come diciam noi Meridionali. La Paolina si stemperò
LO «SPETTATORE» DI MILANO 45
VII.
Il Leopardi e io « Spettatore ». — • Il saggio di traduzione
delV'i Odissea » e delVa Eneide.)^. — Le prime lettere al
Mai, al' Monti e al Giordani. — ■ La genesi delV ammi-
razione e delV amicizia pel Giordani, prima antora di
conoscerlo di persona.
Non intendo di rifar passo per passo la storia di quella
fanciullezza impaziente e di quella giovinezza sconsolata.
Qualcosa di più particolare dovrò dirne illustrando le poesie,
che son come maravigliosi e fragranti fiori di passione sboc-
ciati neirinamabile deserto. Qui mi contenterò di un rapido
cenno, avendo soprattutto a guida V Epistolario, eh' è di
per sé stesso uno squisito romanzo psicologico ^.
Durante la luminosa meteora del Regno Italico, Milano
era cominciata a essere quel che poi. con denominazione non
iscevra d'alterigia, è stata detta la capitale morale d'Italia.
Certo, come asseriva il Giordani (in una lettera al Leopardi
del 10 giugno 1817), « qui gli uomini sono come altrove.
Quelli che più potrebbero e dovrebbero leggere, i nobili e i
preti, sono in Lombardia come nella Marca e in tutto il
mondo. Poco si legge; e quel poco, di frivolezze». Ma in-
in pianto, e per gratitudine a quella sommaria sentenza di canoniz-
zazione si fece a forza promettere dall'Amicarelli una visita a Recanati.
La promessa, com'egli soleva fare di tutte quelle di simil genere, non
ja mantenne; ma nemmeno, credo, avrebbe mantenuti tutti gli argo-
menti che, nell'impeto di una duplice compassione, aveva snocciolati
con opportuna facilità a quella nobile donna, a cui toccò il singoiar
destino, come d'esser celebre per nozze che non ebbero mai luogo, così
di rimaner a struggersi per la memoria d'un fratello di cui aveva in
tanto orrore le dottrine ->.
^ Con brani di lettere appunto già i professori G. Piergili e C. An-
novi son riusciti a mettere insieme, l'uno la Vita di G. L. scritta da
esso, Firenze, Sansoni, 1899; l'altro, una Biografia di G. L., Per la storia
di un'anima. Città di Castello, Lapi. 1898.
4fì LA VITA DEL POETA
somma fra i tigli dei boschetti siibiirbani ancor fremevano
le note argute del cantore del Giorno ; e Ugo Foscolo veniva
ad ispirarvisi, e cospirava una patria, con versi e con prose
che suscitavano incendii, Vincenzo Monti, reputato principe
dei letterati viventi, e Pietro Giordani, Angelo Mai, Silvio
Pellico, Giovanni Berchet, avevano fissata la loro dimora
qui, dove, tra 1" altro, fiorivano due Riviste, lo Spettatore e la
Biblioteca Italiana, che raccoglievano, insieme con parecchia
borra, pur quel po' di buono che si producesse tra noi nel
campo delle lettere e delle scienze morali. E qui, in un con-
ciliabolo di pochi ma baldi novatori, maturava quel perio-
dico battagliero che fu chiamato 11 Conciliatore; e nella fe-
conda quiete degli studi e della felicità domestica, maturava
la gloria di Alessandro Manzoni.
Editore dello Spettatore era il libraio Antonio Fortunato
Stella, che^aveva la sua casa e il suo negozio nelle viuzze,
ora distrutte, attorno a Santa Margherita. Il conte Monaldo,
fin dai primi giorni del 1816, aveva fatto capo a lui per
l'acquisto di libri moderni e per 1" abbonamento a qualche
Rivista italiana e straniera. E subito, nel febbraio dell'anno
stesso, gii aveva offerta la stampa di due opere del suo pre-
cocissimo figliuolo: il Saggio sugli errori popolari degli an-
tichi e il Discorso sopjra la vita e le opere di M. Cornelio Fron-
tone, col volgarizzamento degli scritti testé pubblicatine
dal dottor Angelo Mai, della Biblioteca Ambrosiana. Lo
Stella diede da esaminare al Mai il Discorso, che gli era de-
dicato, e mise il Saggio in quarantena; ma intanto esortò
l'erudito novellino a mandargli qualcosa di piìi spiccio o
acconcio per la Rivista. Nell'agosto poi. compiendo un
viaggio per l'Italia centrale, capitò a Recanati, ospite desi-
derato e festeggiato del conte Monaldo; e portò a Giacomo
una lettera del Mai, il quale con belle parole lo consigliava
di rimandare a miglior tempo la stampa del Frontone. 11 gio
vanetto, se da un lato rimase compiaciuto dell'interessa-
mento d'un tanto uomo, dall'altro capì il latino; e riscri-
vendo pili tardi (21 febbraio 1817) al Mai, gli dichiarò che
oramai anche a lui quel lavoro pareva « indegno di veder
la luce '), e lo condannava perciò a starsene « in tenebre eter-
namente ».
LE TRADUZIONI DALL" ODISSEA » E DALL' < ENEIDE » 47
Nei pochi giorni che lo Stella rimase a Eecaiiati, 1" autore
e-sordieiite ebbe modo di meglio amiodare con lui quei rap-
porti di amicizia, che gli valsero poi a farsi conoscere, che
voleva dire ammirare e amare, fuori del guscio, e da chi
meglio ambiva. Nei quaderni del 30 giugna e del lo luglio
dello Sj^eitaiore era stato pubblicato il suo Saggio di tradu-
zione dell'Odissea; ed egli, in un breve proemio, era uscito
in questa audace quanto ingenua dichiarazione:
M'inginocchio innanzi a tutti i letterati d'Italia per supplicarli a
comunicarmi il loro parere sopra questo Saggio, pubblicamente o pri-
vatamente, come piacerà loro, quando non mi credano affatto indegno
delle loro ammonizioni. Deh 1 possano essi parlarmi schiettamente, e
risparmiarmi una fatica inutile, se questo Saggio non può esser lodato
con sincerità.
Oh SÌ che i letterati d'Italia avean tempo e voglia di ba-
dare a uno sconosciuto, supplicante in ginocchio I Solo un
anonimo, in un successivo quaderno della stessa Eivista. si
degnò di fare una scortese e sgarbata allusione a quella cu-
riosa prefazione e a quella versione alquanto lambiccata ^.
Il giovanetto rimase, e si capisce, ugualmente scontento e
del silenzio dei pezzi grossi e del latrato del botolo. E per
costringere i primi a dargli retta, e anche pel gu^to di dare
una ceffatina al secondo, pregò lo Stella di stampargli in
un opuscolo un altro diverso saggio di traduzione, quello
del libro secondo dell'Eneide. Xell'epistola al lettore, molto
compassata e affettata nello stile e neUa lingua, che Tanno
dopo ebbe a ripudiare come « stentatissima », dichiarava, tra
lo sconforto e la rassegnazione, a proposito del primo saggio:
... E malgrado del mio inginocchiarmi innanzi ai letterati, e del-
l'usare a bello studio maniere un po' stravaganti, a pregarli che lor
piacesse dirmi se utile o inutil cosa farei mandando l'opera innanzi,
non altro ho potuto saperne, se non che quello inginocchiarmi è pa-
ruto strano (ed io avea voluto che il fosse)...; e converrà, se pur dili-
bererò di tradur rOdisseci, che ne giudichi per me, e cori'a il rischio
che avrei vohito causare di gittar la fatica.
' In un articolo che concerneva < un poema epico di argomento
moderno ". Essendo contrassegnato con le iniziali F. C, il Leopardi
lo suppose scritto dal conte Francesco Cassi suo ciigino; ma dovette
ricredersi. Vedi lettere del 18 aprile e del 5 maggio 1817.
48 LA VITA DEL POETA
Ma a buon conto, dell"" opeiicciuola « fece pervenire un
esemplare al Mai, uno al Monti e un terzo al Giordani, scri-
vendo a ciascuno di essi una letterina di presentazione, nello
stesso giorno, 21 febbraio 1817. Al Mai diceva:
Non presumo che la legga, che sarebbe dargliela ad usura, ma solo
che la serbi a memoria non affatto sgradita del suo devotissimo obbe-
dientissimo servitore.
E al Monti:
Non La prego che legga il mio libro, ma che non lo rifiuti; ed, ac-
cettandolo, mi faccia chiaro che Ella non si tiene offeso del mio ar-
dimento, con che verrà a cavai*mi di grande ansietà.
E al Giordani:
E per prima cosa La prego caldissimamente che mi perdoni l'au-
dacia di scriverle il primo e d'aggiugnerle il carico d'un libro, né vo-
glia punirmene con recarsela ad ollesa. Il libro stesso, mostrandole la
mia miseria, mi putìirà. Tolga Iddio ch'io Le ricerchi il suo giudizio
su di esso. Ben Le dico quanto si può sinceramente quello che già Le
sarà notissimo avvenire come a me a molti altri, che io, sapendo sopra
qualunque opera letteraria il parere anco di venti letterati, fo conto
di non saper nulla quando non so il suo.
Il Mai deve avergli risposto con vacui complimenti. Il
Monti invece, insieme coi complimenti, gli lece qualche ap-
punto, che a Giacomo riuscì u carissimo » com'era stato
« de«ideratissimo ». Ma chi fece di più e di meglio fu T ot-
timo Giordani. Il quale rispose una prima volta, il 5 marzo,
senza che ancora avesse ricevuto l'opuscolo, per dichiarare
allo sconosciuto «signor conte»:
V. S. non abbisogna delle mie lodi; né potrebbe farne gran conto.
Nondimeno io voglio congratularmi seco, e coll'Italia, che V. S. con
cotanto amore eserciti i buoni studi: de' quali io tengo che non po-
tranno mai prosperare ed essere pubblicamente utili, se non quando
saranno amati e praticati dalla nobiltà. V. S. dà un bello e necessario
esempio: ed io La riverisco e L'amo e La ringrazio per ciò.
E riscrisse subito il 12 marzo, con commovente e premurosa
cordialità, al " signor contino >:
Non si meravigli di ricevere cosi presto una mia seconda lettera.
Quando ebbi la sua gentilissima del 21 febbraio, sapevo ch'Ella era un
LE PRIME LETTERE DEL GIORDANI 49
signore, d'ingegno e di studi raro; ma non sapevo la sua età... Mag-
gior consolazione ricevo da quello cke riconosco di pubblico bene nel-
l'essere in si pociii anni venuto a si aito segno di sapere un signore
come Lei. Di questo voglio con tutto il cuore ringraziarla, e pregarla
instantemente clie prosiegua; aniinanaosi a ciò da un pensiero ch'io
non so se finora sarà stato avvertito da Lei, e che a me giace in mente
dacché ho potuto conoscere il fonao delle cose umane. Kila veae a che
stato miserabile sono caauti gii stuai nella povera Italia, operare che
li rialzi 11 favore ae' prmcipi e speranza stoltissima : niente il vogliono ;
e poco ancora ii potrebbono. La sola speranza ragionevole e nella nobiltà
italiana, be in ogni parte non pocui siguori cosph'eranno ad abbrac-
ciare con torre amore, e promuovere lervorosahiente gii studi, non
pasceranno quinaici o vent'anni che l'itaiia ritornerà granae e glo-
l'iosa. Mi alletta il pensare che nel novecento il conte Leoparui (che
già amoj sarà numerato tra' primi che alla patria ricuperarono il male
peruuto suo onore. Anch'iella s'imbeva ui questo pensiero; e Le alle-
viera le fatiche, e Le auaoicira le amarezze che negli stuai anche a'
signori (beiicne meno che agii altri) si attraversano.
Come dovevano riuscii' piene d" insperata letizia queste
magnamme paiole dell ammirato scrittore, ali animo del
noDiiissimo giovanetto assetaco ai gloria: i:. il (.Tioraaui con-
tinuava:
Ho letto il Suo libro: e non gliene dirò nvilla di mio. So che gliene
hanno scritto aue uomini sommi, e miei amicissimi. Monti e Mai. V. S.
dee lor creaere; perche sono sinceri quanto son granai; e parlando
meco dicon ai Lei iorse più di quello che scrivono: e certo con gran
ragione. E io vogUo congratvdarini seco di òue cose, che mi promet-
tono che V. S., essendo giunta. in si pochi anni a tal segno che mai
forse in pari età non fu tocco da altro ingegno, sarà ancora, e arriverà
ad altezza aiìatto sublime. Ne piglio argomento da quel caldo amore
che vedo in Lei per gl'ingegni granai, che oggidì son pochi; e mi appa-
risce da ciò ch'Ella scrive al Monti e al Mai, degnissimi d'esser da Lei
tanto riveriti, e di tanto amar Lei. In secondo luogo, mi rallegra che
V. S., non contenta di molto leggere i classici, anche si eserciti a tra-
durne: esercizio che mi pare affatto necessario a divenir grande scrit-
tore, e proprio all'età giovane: onde fa pietà il povero Altieri, accorto-
sene tardi, e postosi di cinquant'anni a quell'opera che sarebbegli
stata utilissima trent'anni innanzi... E saviamente col suo maturo giu-
dizio lo ha presto Inteso V. S., la quale Len presto sarà un onore d'Italia;
come già è un miracolo di Recanati.
Xuovi e indiretti e più graditi elogi del Monti e del Mai,
del maggior poera e del magiiiore erudito del secolo ; un.
paragone, benché di sbieco, di lui giovanetto con l'Alfìeri,
4. — G. Leopardi.
50 LA VITA DEL POETA
cioè col maggior poeta d'Italia dal Tasso iu poi, e a tutto suo
vantaggio : ma che cosa insomma di più e di meglio avrebbe
potuto ambire quell'erudito e poeta novellino, che solo ieri
si prostrava in ginocchio dinanzi alletterati d'Italia, implo-
randone uno sguardo ? Il Giordani toccava poi una corda, che
noi già sappiamo quale simpatica risonanza risvegliasse nel-
l'animo di Giacomo, e a qual triste passo lo sospinse.
Non pensa V. S. di fare per l'Italia un giro, per conoscere quel
moltissimo che vi è di cose belle, e quei poco che abbiamo (ruomiai
valenti ? Milano ha pure il Monti e il Mai, che meriterebbero anche
assai più limgo viaggio.
Povero Giacomo I Ei ci pensava, e come I Ma non ci pen-
sava suo padre, che avrebbe dovuto dargli il modo di attuare
il suo desiderio I Intanto, si affrettò a rispondere (21 marzo):
Che io veda e legga i caratteri del Giordani, che egli scriva a me,
che io possa sperare d'averlo d'ora innanzi a maestro, sono cose che
appena posso credere. Xè Ella se ne maraviglierebbe, se sapesse per
quanto tempo e con quanto amore io abbia vagheggiata questa idea,
perchè le cose desideratissime paiono impossibili quando sono presenti.
E poiché, finalmente, aveva trovato un cuore capace di
comprenderlo, ei cominciò subito a versarci dentro tutta
l'anima sua. Queste prime lettere al Giordani sono il primo
dei capolavori del Leopardi: son pagine autobiografiche,
in cui lo scrittore scruta e rivela sé stesso con un acume e
una schiettezza singolari; in cui freme ancora e palpita
un'anima giovanile che nello ansie e nelle angosce proprie
rispecchia e raffina le ansie e le angosce del secolo. Si ca-
pisce che la lieta stagione, in cui vissero Metastasio e Goldoni,
è finita: quei tiepidi giorni e quei rosei tramonti han dato
luogo alle torve bufere, che agitarono variamente la vita
dell" Alfieri e del Foscolo, del Byron e del Rousseau.
Sennonché, prima di riferirne qualche brano, sarà bene
sentir narrare da Giacomo medesimo come e perchè egU con-
cepisse tanta stima pel Giordani, e si mostrasse così preso
di lui « come per fama uom s'innamora ». Il buon piacentino
insistette per saperlo; che, avrà pensato, in un giovane è
spiegabile una sì focosa aminiiazione per un poeta come il
CO^JE GIACOMI O CONOBBE IL CIORDAKI 51
Monti e per un erudito come il Mai, imi, modestia a parte,
« Io uou Enea, io non Paolo sono ! ». E il Leopardi finì col-
raccontentailo (30 aprile 1817).
11 povero marchese Beuedetto Mosca (il quale so che Ella amava),
cugino carnale di mio padre, venne un giorno a fare una visita di sfug-
gita ai suoi parenti, e quell'unica volta noi due parlammo insieme;
dico parlammo, perchè quando io era piccino ed egli fanciullo, ave-
vamo bamboleggiato insieme qui in Recanati per molto tempo, ed al-
lora io gli avrò cinguettato. Dopo non l'ho veduto più; ma so che m'a-
mava e voleva rivedermi, e forse presto ci saremmo riveduti, per let-
tere certamente, perchè io appunto ne preparava ima per lui che sa-
rebbe stata la prima, quando seppi la sua morte; e di questa morte
che ha troncato tanto, non posso pensare senza spasimo e convulsione
dell'animo mio. Mi disse dunque di Lei questo solo: che conosceva, e,
se non fallo, avea avuto maestro il Giordani, il quale, soggiunse (ed
io ripeto le sue stesse parole, e la Sua modestia sei soffra per questa
volta), è adesso il primo scrittore d'Italia ^ O pensi Ella se i primi scrit-
tori d'ItaUa si conoscevano in Recanati! Io aveva allora 15 anni, e
stava dietro a studi grossi, grammatiche, dizionari greci, ebraici, e
cose slmili, tediose ma necessarie. Non vi badai proprio niente. Ma
nel cominciare dell'anno passato, visto il Suo nome appiè del mani-
festo della Biblioteca Italiana, mi ricordai di quelle parole, e avuti 1
volumetti della Biblioteca seppi quali fossero gli articoli Suoi prima
per conghiettura, e poi con certezza quanto a uno o due, e questo mi
bastò per ravvisarli poi tutti. Ora che vuole che Le dica io ? Se Le dirò
che essi diedero stabilità e forza alla mia conversione che era appimto
sai cominciare; che, gustato quel cibo, le altre cose moderne che prima
mi pareano squisite, mi parvero schlfissime; che attendea la Biblioteca
con infinito desiderio, e ricevutala la leggea con avidità da alYamato;
che avrò letti e riletti i Suoi articoli una diecina di volte; che, ora che
non ci sono più, mi vien voglia di gittar via i quaderni di quel giornale,
ogni volta che ricevendoli non vi trovo niente che laccia per me, la Sua
modestia s'irriterà.
' Il Giordani replicò (il di dell'Ascensione): « Xè di. Benedetto Mosca
né di niun altro sono mai stato, né mai vorrò essere maestro: parola,
che mi fa nausea ed ira. Ma ben conobbi quel bravo giovane, e l'ho
amato molto, e l'amerò sempre con desiderio: perchè mi pare che
avrebbe fatto del bene; e sommamente mi è doluta una tanto impen-
sata ed immatura perdita. Era un buono e valente signore; del quale
mi pareva che si dovesse sperare assai: ed è andato cosi giovane! »,
Il Giordani gli aveva indirizzato anche una lettera a stampa, intorno
a certi Dubbi sopra un luogo di Giovenale. E presentandolo al Monti,
lo proclamava: «giovane per bontà di cuore, per amore agli studi, per
giudizio sanissimo, per sincerità degno della tua benevolenza ».
52 La vita del poeta
Vili,
Le lettere recanatesi al Giordani. — La cantica « Appressa-
mento della morte ». — Eecanati e i mali fisici e inorali
di Giacomo. — Il vagheggiato suicidio.
<■ Io ho grandissimo, torse smoderato e insolente, desi-
derio di gloria », cominciava Giacomo le sue coniessioni.
E continuava (21 marzo 1817):
Ella dice da maestro che il tradurre è utilissimo nella età mia, còsa
certa e che la pratica a me rende manifestissima. Perchè quando ho
letto qualche Classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora
prendo a tradurre il meglio, e quelle bellezze per necessità esaminate
e rimenate a una a una piglian posto nella mia mente, e l'arricchi-
scono e mi lasciano in pace. Il suo g-iudizio m'inanimisce e mi conforta
a proseguire.
Di Recanati non mi parli. M'è tanto cara che mi somministrerebbe
le belle idee per un trattato dell'odio della patria, per la quale se Codro
non fu timidus mori, io sarei tvnidissiìnus vivere. Ma mia patria è l'Italia;
per la quale ardo d'amore,- ringraziando il cielo d'avermi fatto ita-
liano, perchè alla fine la nostra letteratura, sia pur poco coltivata, è
la sola figlia legittima deJle due sole vere tra le antiche; nò certo EUa
vorrebbe che la fortuna l'avesse costretto a farsi grande col Francese
o col Tedesco; e internandosi ne' misteri della nostra lingua compatirà
aUe altre e agli scrittori a' quali bisogna usarle; come spessissimo è
avvenuto a me, che tanto meno di Lei conosco la mia lingua, la quale
se mi si vietasse di adoperare con darmisi pieno possedimento di una
straniera, io credo che porrei la speranza di flivenir qualche cosa nella
vera letteratura, e lascerei gli studi.
QueUo ch'Ella dice del bene che i nobili potrebbero fare aUe let-
tere è verissimo, e desidero ardentemente che il fatto lo mostri una
volta. Il suo dire m'infiamma e mi lusinga: ma io non credo di poter
vincere la mia natura e l'altrui. Nondimeno Ella può esser certa che,
se io vivrò, vivrò alle lettere, perchè ad altro non voglio né potrei vivere.
Giacché la fortuna gli si era mostrata questa volta cosi
benevola, da farlo imbattere in un'anima e in un'intelli-
genza come quelle del Giordani, ei prendeva coraggio di
pregarlo di .dare un'occhiata a un certo suo lavoretto del-
l'anno avanti, che si aiìrettava a spedirgli per mezzo dello
« l'appressamento della morte » 53
stella. « Vorrei che Ella lo esaminasse », gli scrive, « e prima
di tutto mi dicesse se Le par buono per le fiamme, alle quali
io lo consegnerei di buon cuore immantinente ». Il buon pia-
centino, prima ancora di esaminare il manoscritto, volle su-
bito rispondere alla lettera del contino recanatese: egli era
rimasto come atterrito da quel tanto fuoco e da quei pro-
positi così grandiosi in una personcina che sapeva gracile
e delicata. Gli scrisse il dì di Pasqua, paternamente (Pietro
contava ventiquattro anni piti di Giacomo):
Pensando io spessissimo con vero stupore e molta tenerezza al sa-
pere di V. S. (del quale e il Monti e il Mai, che non deono maravigliarsi
per poco, sogliono al pari di me stupirsi), sono entrato in un timore,
nel quale pur troppo lo Stella mi ha poi confex'mato. Ho dunque te-
muto che V. S. abbia dalla natura una complessione delicata, senza
che non potrebbe avere così fino ingescno : ed ho temuto che a questa
delicatezza abbia V. S. poco rispetto con uji soverchio di fatiche. Per
quanto EU'ha di caro al mondo, contino mio, e per questi medesimi
studi ne' quali è innamorato, si lasci pregare e supplicare da un suo
affeziona tissimo : per carità di sé e di tutti quelli che già l'ammirano,
e tanto aspettano da Lei, riconosca e senta e osservi la necessità, di
mode.rarsi nello studio. Chi vuol esser liberale, non dee gittare il patri-
monio, e distruggere i mezzi della liberalità. Poich'Elia sì nobilmente
si è dedicato agli studi, pensi a poter sempre studiare. Ma s'Ella si
rovina, come potrà poi continuare ? e quando non potrà più studiare,
come potrà sopportare la vita ? Il soverchio studio rintuzza l'ingegno,
e lo fiacca; distrugge la sanità. S'Ella in questa giovinezza studia più
di sei ore al giorno, mi creda che fa male, e male grande. Ella verrà
presto in cattivo stato. La supplico dunque ad interrompere gli studi
con quegli esercizi che dando vigore al corpo svegliano la mente; pas-
seggiare, cavalcare, schermire, nuotare, ballare, giocare al pallone,
a palla e maglio. L'incessante studio rovina lo stomaco, rovina la testa,
cresce la malinconia, scema le forze della mente. Non cesserò mai di
pregarla che in questa tenera giovinezza studi in maniera che non si
tolga di poter proseguire. Perdoni all'amore, che già grande io Le porto
e Le dichiaro, se con tanto libera fiducia La prego di cosa che a Lei
e all'onor degli studi tanto importa.
Non è a dire se le apprensioni e le trepidazioni di codesto
valentuomo e uomo di cuore s'accrebbero, quando ebbe letto
il manoscritto e si fu accorto di che cosa mai si trattava. Era
la càntica, in terza rima e in cinque canti V Appressamento
delia morte. Letterariamente, come concezione, non attestava
nulla di veramente nuovo e di straordinario. 11 concetto « è
54 LA VITA DEL POETA
significato da una visione o piuttosto da una serie di visioni
sovrannaturali, per cui il giovane poeta doveva considerar
la morte come principio di quella gioia che sola è vera ed
eterna. Xè la forma generale del componimento, né le par-
ticolari immagini dantesche o petrarchésche ond'é pieno,
hanno il valore di una vera rappresentazione d'arte: anzi
ciò ch'era stato preso da quei nostri sommi, ci si riaffaccia
qui come robusta pianta che, strappata alla verde selva
nativa, inaridisca nel nuovo terreno, non ostante le molte
cure dell'agricoltore » i. Siamo di fronte a un'imitazione,
punto cospicua, di qualche canto del Paradiso e, meglio an-
cora, dei Trionfi: un'imitazione neppur come tale nuova od
originale, giacché di quella specie di Visioni, tra bibliche e
petrarchesche, avevano dato recenti e ammirati esempi il
Varano e il Monti.
Tuttavia, tra sogni e allegorie oscure e prolisse, ceco, al
canto quinto, zampillare fresca e vivace questa elegia dal
fondo stesso del cuore del poeta.
Dunque morir bisogna, e ancor non vidi
Venti volte grravar ne\e '1 mio tetto.
Venti rifar ìe rondinelle i nidi ?
Sento che va lamniendo entro mio petto
La vital fiamma, e 'ntorno guardo, e al mondo
Sol per me vesrgo il funeral mio letto.
E sento del pensier Timmenso pondo.
Si che vo 'i labbro muto e '1 viso smorto,
E qua.si mio dolor più non ascondo.
Poco andare ha mio corpo ad esser morto.
1' mi rivolgo indietro e guardo e piagno
In veder che mio giorno fu si corto.
E 'n mirar questo misero compagno
Cui mancò tempo si ch'appien non crebbe,
Dico: .Misero nacqui, e ben mi lagno.
Trista è la vita, so, morir si debbo;
Ma men tristo è '1 morire a cui la vita
Che ben conosce, u' spesso pianse, increbbe.
I' piango or primamente in su l'uscita
Di questa mortai piaggia, che mia via
Ove l'altrui comincia ivi è finita.
ZiMMivr, SfìKÌi Siti Lciijjftrdi: Firenze 1902. voi. I. p. '>[
« L APPRESSAMENTO DELLA MORTE »
T' piango adesso, e mai non piansi pria:
Sperai ben quel che jrioventude spera.
Quel desiai che iiiovenlù desia.
Non vidi come speme cada e pera.
E '1 desio resti e mai non venpra pieno.
Così che lasso coi* t^iunga la sera.
Seppi, non vidi: e per saper, nel seno
Non si stincrue la speme e non s'acqueta.
E '1 desir non si placa e non vien meno.
Ardea come fiammella chiara e lieta
Mia speme in cor, pasciuta dal desio.
Quando di mio seutier vidi la meta.
Allora un lampo la notte m'aprio,
E tutto cader vidi : ali or piagnendo
A' miei dolci pensieri i' dissi addio.
■ Già l'avvenir guardava, e sorridendo
Dicea: Lucida fama al mondo dura.
Fama quaggiù so! cerco e fama attendo.
Misero 'ngegno non mi die' natura.
Anco fanciullo son: mie forze sento:
A volo andrò battendo ala sicura.
Son vate: i' salgo e 'nver lo ciel m'avvento.
Ardo fremo desio, sento la viva
Fiamma d'Apollo e '1 sopruman talento.
Grande fia che mi dica e che mi scriva
Italia e '1 mondo, e non vedrò mia fama
Tacer col corpo da la morta riva.
Sento ch'ad alte imprese il cor mi chiama.
A morir non son nato, etemo sono
Che 'ndarno '1 core eternità non brama. —
Mentre 'nvan mi lusingo e 'nvan ragiono
Tutto dispare, e mi vien morte innante,
E mi lascia mia speme in abbandono.
Ahi, mio nome morrà ! Si come infante
Che parlato non abbia, i' vedrò sera.
E mia morte al natal sarà sembiante.
Sarò com'un de la volgare schiera.
E morrò come mai non fossi'nato.
Né saprà '1 mondo che' nel mondo io m'era.
Oh durissima legge, oh crudo fato !
Qui piango e vegno men. che saprei morte.
Obblivion non so vedermi allato.
Viver cercai quaggiù d'età più forte,
E pero e 'ncontr' a Obblio non ho più scampo.
E cedo, e me trionfa ira di sorte.
Morir quand'anco in terra orma non stampo ?
Né di me lascerò vestigio al mondo
Maggior eh' in acqua soffio, in aria lampo ?
56 LA VITA DEL POETA
Che non pce=i hamlnn sriù nel profondo?
E a che. se tntto di qua suso ir deggìo.
Fu lo materno sen di me fecondo?
Eterno Dio. per te son nato, il vegerio,
Che non è per quasririù lo spirto mio.
Per te son nato e per l'eterno seqrgio.
Deh tu riroleri lo bssso desio
Inver lo santo regno, inver lo porto !
O dolci studi, o care muse, addio !
Addio sperf>nze. addìo vago conforto
Del poco viver mio che eia trapassa:
Itene ad altri pur com' i' sia morto !
E tu pur. Gloria, addio ! che già s'abbassa
Mio tenebroso criorno e cade omai,
E mia vita sul mondo ombra non lassa.
Per te pensoso e muto alsi e sudai.
E te cerca avrei sempre al mondo sola;
Pur non t'ebbi quagGrifi. né t'avrò mai.
Povera cetra mia. srià mi t'invola
La man fredda di morte, e tra le dita
Lo suon mi tronca e 'n bocca la parola !
Presto spira tuo suon. presto mia vita :
Teco finito ho questo ultimo canto,
E col mio canto è l'opra tua compita...
Il Giordani si sarà sentito i brividi. Xon era possibile
sbagliarsi: questi versi hanno troppo l'impronta della ve-
rità; e ohimè, il pericolo ch'eo:li aveva temuto lontano, era
imminente ! Quel prodigioso giovanetto aveva logorato irri-
mediabilmente il suo corpo, con l'eccessiva e ininterrotta
e incessante occupazione degli studi I Con quanto accora-
mento il poeta medesimo non rievocherà più tardi, nelle
Piicordanze. quei tristissimi giorni, e non rimuginerà quel-
l'intempestivo canto funereo I
Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il flore "^
De' miei poveri di, che sì per tempo
Cadeva : e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentni co' silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
L INVETTIVA CONTRO RECANATI 57
Il Giordani crii riscmse, il lo aprilo, rinnovando con
maeoior fervore le sue ammonizioni e. le sue preghiere; ma
si capi«;ce com'ei sia sconfortato oramai dal presentimento
di quella distruzione irreparabile.
Mi ha molto contristato il timore che la Sua delicata complessione
abl:ia patito dal soverchio delle fatiche, e Le dia quelle tante malin-
conie. Le rineto dunque le preghiere fatte nella mia ultim.a. e le ri-
peto con ferTidis^ima istanza: che pensi di acquistar visrore al corpo,
senza il qttal vieore non si può srran viaesrio fare nee-lì studi; pensi
a procurarsi robustezza e o-ìocondità dì spiriti, e prontezza di umori,
cosrli esercizi corporali e coi divertimenti. È da filosofo non amar la
vita e non temere la morte piìi del giusto; ma fissarsi nel pensier con-
tinuo della, morte cotanto spazio quanto ne vuole il componimento
di quella Cantica, non mi par cosa da giovinetto di dieciotto anni, al
quale la natura consente di viverne bene ancora sessanta, e l'ina-egmo
promette di empierli di studi gloriosi. Pensi dunqiie. io La supplico,
a rallegrarsi e invigorirsi; e invece di allettare i pensieri malinconici,
li sfugga. L'indole malinconica in atto di allegria ^ è quel tempera-
mento d'ingesDo che può produrre le belle cose: ma l'attuale malin-
conia è un veleno, che più o meno distrugge la possa della mente.
L'estenuato Giacomo, commosso per tanta e tanto amo-
revole premura, si affrettò ti rispondere (30 aprile):
Ella mi raccomanda la temperanza dello studio con tanto calore e
come cosa che Le prema tanto, che io vorrei poterle mostrare il cuor
mio perchè vedesse gli effetti che v'ha destati la lettura delle Sue pa-
role: i quali, se il cuore non muta forma e materia, non periranno mai,
certo non mai. E per rispondere come posso a tanta amorevolezza,
dirolle che veramente la mia compressione non è debole ma debolis-
sima, e non istarò a necrarle che ella si sia un po' risentita delle fatiche
che le ho fatto portare per sei anni. Ora però le ho moderate assaissimo:
non istudio più di sei ore al giorno; spessissimo meno; non iscrivo quasi
niente; fo la mia lettura regolata dei Classici delle tre lingue in vo-
lumi di piccola forma, che sì portano in mano agevolmente, si che
studio quasi sempre all'uso dei Penpatetici, e, quod maxivium dictu
e.^t, sopporto spesso per naolte e molte ore l'orribile supplizio dì stare
colle mani alla cintola.
Il buon Giordani aveva, col fine lodevolissimo di farla
^ Mi par chiaro che qui il Giordani voglia parlare àeìVhumoxir. E
codesta sua definizione è assai felice.
58 LA VITA DEI. POETA
parere meno intollerabile a chi vi era costretto a vivere,
arrischiato un elogio di Eecanati, che diceva « posta in sito
salubre ed ameno ». Fu un tasto falso, e Giacomo prorompe
in un'invettiva d'odio; la quale se moralmente atterrisce,
letterariamente invece è maravis^liosa per verità e pa=;sione.
per espressione e immediatezza. Xe riferirò solo un brano,
che illumina fin nel profondo il baratro che s'era spalancato
in quella squisitissima anima (giovanile.
Clic cnsa è in Eecanati '.li bello ? che l'iiomo si ciiri di vedere o d'im-
parare ? niente. Ora Iddio ha fatto tanto bello questo no.stro mondo,
tante belle cose ci hanno fatto rIì nomini, tanti nomini ci sono, che
chi non è insensato arde di vedere e di conoscere: la terra è piena di
meraviprlie: ed io di dieciott'anni potrò dire: In questa caverna vivrò,
e morrò dove son nato ? Le pare che questi desiderii si possano fre-
nare ? che siano iijirinsti, soverchi, sterminati? che sia pazzia il non
contentarsi di non veder nnlla. il non contentarsi di Recanati ? L'aria
di questa città L'è stato mal detto che sia salubre. È mutabilissima,
umida, salmastra, crudele ai nervi e per la sua sottiprliezza niente buona
a certe complessioni. A tutto questo aggiunga l'ostinata, nera, orrenda,
barbara malinconìa che mi lima e mi divora, e collo studio s'alimenta
e senza studio s'accresce. So ben io qual è, e l'ho provata, ma ora non
la provo più, quella dolce malinconia che partorisce le belle cose, più
dolce dell'allegria; la quale, se m'è permesso di dir così, è come il cre-
puscolo, dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, com'Ella
dice, che distrugge le forze del corpo e dello spirito. Ora come andarne
libero non facendo altro che pensare, e vivendo di pensieri senza una
distrazione al mondo ? E come fare che cessi l'effetto se d\ira la causa?
— Che parla Ella di divertimento ? Unico divertimento in Recanati
è io studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il
resto è noia. So che la noia può farmi manco male che la fatica, e peto
spesso mi piglio noia, ma questa mi cresce, com'è nattirale, la malin^
conia: e quand'io ho avuto la disgrazia di conversare con questa gente,
che succede di raro, torno pieno di tristissimi pensieri agli studi miei,
o mi vo covando in mente e ruminando quella nerissima materia.
Pur di codesti « tristissimi pensieri » e rimasta un'eco in
(|uel canto delle Ricordanze, ch'è la più alta espressione li-
rica di rimpianto pel <' caro tempo giovanil », miseramente
perduto (( senza un dil(^tto, inutilmente », nel « soggiorno di-
sumano )' della terra natale, « intra gli affanni », da tutti « ab-
bandonato » e a tutti " occulto », « senz'amor, senza vita ».
IL VAGHEGGIATO SFIOIDIO
E frià nel primo eriovanil tiimnlto
Di contenti, d'ancrosce e rli desio.
Morte chiamai più volte, e limcramcnte
Mi cedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio.
Ili linscna povera, e,s:li avova vafrhescgiato il suicidio ^ Lo
spiattellerà, alcv.ni mesi più tardi al fratello Carlo, in fi nella
ancroseioAa lettera di cono-edo ehe aveva preparata per lui.
quando tentò la fuera dal carcere domestico. Allora dirà:
Ora che la lesrsre mi fa padrone di me stesso, non ho voluto più
differire quello ch'era indispensabile secondo i nostri principii. Due
casrioni m'hanno determinato immediatamente: la noia orribile^ deri-
vata dall'impossibilità dello studio, sola occupazione che mi potesse
trattenere in questo paese; ed un altro motivo che non vocrlio espri-
mere, ma tu potrai facilmente indovinare. E questo secondo, ehe per
le mie qualità, sì mentali come fisiche, era capace di condurmi alle ul-
time disperazioni, e mi facea compiacere sovranamente nell'idea, del
suicidio, pensa tu se non doveva potermi portare ad abbandonarmi
a occhi chiusi nelle mani della fortuna.
Anche senza essere a parte delle confidenze fraterne, si
pila forse indovinare quali fossero quei motivi. 0 non l'ha
detto egli medesimo, il poeta, neW Amore e Morte, che « fin
la donzella timidetta e schiva », se è agitata dalle furie
d'amore,
Osa alla tomba, alle funeree bende
Fermar lo s^ruardo di costanza pieno.
Osa ferro e veleno
Meditar liTucramente.
E nell'indotta mente
La srentilezza del morir comprende ?
^ Tra le Carte napoletane è proprio un Frammento sul suicidio. Cfr.
Scritti rari, p. 387-89.
* Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, il Leo-
pardi dice della noia che « anco è passione, non altrimenti che il do-
lore e il diletto «. Xe riparla nel Pensiero LXVII, dove definisce: " Poco
propriamente si dice che la noia è mal comune. Comune è l'essere
disoccupato, o sfaccendato per dir meglio; non annoiato. La noia non
è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa. Più può lo spirito
in alcuno, più la noia è frequente, penosa e terribile.., ». E nel Pen-
siero seguente ripiglia: « La noia è in qualche modo il più sublime dei
60 LA VITA DEL POETA
Quando ■< il gran travaglio interno ^ giunge al punto « che
sostener noi può forza mortale »,
O cede il corpo frale
Ai terribili moti...;
O cosi sprona Amor là nel profondo.
Che da sé stessi il villanello ifrnaro,
La tenera donzella
Con la man violenta
Pongon le membra griovanili in terra.
Or su quella povera anima, così bisognosa d'amore e così
deserta, eran di recente passate le bufere della passione, tanto
pili violenta quanto piìi nascosta e ignorata, per la donn^
del Primo amore, e quelle della disperazione per la lenta e
inesorabile morte della fanciulla « lieta e pensosa », ch'egli
poi pianse e immortalò col nome di Silvia. La Teresa Fat-
torini era morta nel settembre del 1818; e la lettera a Carlo
è del luglio 1819.
Al padre, che s'intende, ei non fece cenno né di codesto
motivo né del suicidio; ma ben gli ricordò le micidiali ma-
linconie e le terribili noie, dalle quali s'era sentito sospinto
verso estreme risoluzioni.
Ella conosceva ancora la mirabilissima vita ch'io menava per le
orribili malinconie, ed i tormenti di nuovo genere che mi procurava
la mia strana immaginazione, e non poteva ignorare quello ch'era più
ch'evidente, cioè che a questo, ed alla mia salute che ne soffriva
visibilmente, e ne sofferse sino da quando mi si formò questa misera
complessione, non v'era assolutamente altro rimedio che distrazioni
potenti, e tutto quello che in Recanati non si poteva mai ritrovare. Con
tutto ciò Ella lasciava per tanti anni un uomo del mio carattere, o a
consumarsi affatto in istudi micidiali, o a seppellirsi nella più terribile
noia, e per conseguenza, malinconia, derivata dalla necessaria solitu-
dine, e dalla vita affatto disoccupata, come massimamente negli ultimi
mesi.
Dei tragici propositi di quei giorni egli lasciò vivo ri-
cordo nello Zibaldone (I, 193).
sentimenti umani... »; patirla, «pare a me il maggior segno di gran-
dezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana». — Circa II sen-
timento della noia nel Leopardi, e quel tanto ch'ei desunse per codesto
soggetto dal Pascal {Misere de Vhomme), è da vedere M. Lcsacco negli
« Atti della r. Accademia di Torino », 30 giugno 1895.
IL TENTATO smciDÌO DEL GIORDANI 61
Io ero oltremodo annoiato della vita, snll'orlo della vasca del mio
giardino, e guardando l'acqua e curvandomici sopra con un certo fre-
mito pensava: S'io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a
galla mi arrampicherei sopra quest'orlo, e sforzatomi d'uscir fuori,
dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso, pro-
verei qualche istante di contento per essermi salvato e di affetto a
questa vita, che ora tanto disprezzo e che allora mi parrebbe più pre-
gevole.
Ed è probabile che auche lì, sull'orlo della vasca tenta-
trice, ei ripensasse a Saffo e ne immaginasse il suo Ultimo
canto, dacché, nella stessa nota dello Zibaldone, ripiglia:
La tradizione intorno al salto di Leucade poteva avere per fonda-
mento un'osservazione simile a questa.
IX.
Il miraggio del inondo di là dalV Appennino. — La visita del
Giordani a Recanati.
Nel suo « primo giovanile errore » (ed errore proprio nel
senso provenzalesco, di quel travaglio interno di cui è ca-
gione l'amore), quando « era in parte altr'uom » da quel che
gli anni e l'esperienza lo avevan fatto, anche il Giordani
aveva, non che pensato, tentato di porre «le membra gio-
vanili in terra ». A una sua amica scriveva, sette anni dopo
quella tragica notte in cui aveva trangugiato il veleno: Se
perdessi la speranza di vivere studiando, « abborrirei la
vita; una volta ho tentato di distruggerla per disperazione
d'amore )>. Ma non per questo solo. Non compreso né amato
in casa, la madre, « con la sua disgustosissima serietà », lo
aveva mortalmente ferito con uno sconcio paragone ^; e
^ In una lettera al Leopardi, del 9 settembre 1817, il Giordani scri-
veva, con meno acredine ma non meno annoiato: «Mi diverto ad eser-
citare pazienza colla mia buona madre, che è la più siiblime e la più
incomoda santa della terra: mi diverte il potermi vantare di soppor-
tare una santità che impazientirebbe gli apostoli e i profeti ». Il cavai--
leresco Giacomo, rispondendogli, non fiatò di quell'altra santa, che
esercitava invece e come ! la pazienza sua.
62 LA VITA DEL POETA
alla nuova umiliazioue, nello sconforto d'amore, il giovane
sensitivo non aveva voluto sopravvivere. È facile immagi-
nare ciò che ora egli provasse nell" assister da lontano allo
strazio e al rodimento di uuell" altra anima in pena.
Non conoscendo a fondo le singolari condizioni di quella
casa patrizia marchigiana, annidata e rannicchiata sul re-
moto colle dell" Appennino, il Giordani, quasi che quel gio-
verò contino, sprovvisto di salute e di quattrini, potesse es-
ser confuso con un conte Alfieri di spendereccia memoria,
lo aveva esortato a distrarsi dallo studio dei libri con un
pò" di studio del mondo. Ceran tante belle cose da vedere
e tanti valentuomini da conoscere; e non a tutto poteva
bastare una biblioteca di provincia! Come se quell'infeli-
cissimo recluso non sentisse, anche troppo, le smanie di
veder terra e cielo che non fossero recanatesi! Quando sac-
corse d'aver messo acido sulla piaga, il maldestro chiiui'go
cercò di rimediare con qualche lenitivo; ma non riuscì che
a insosiiéttii'e l'ammalato. 11 quale, descrittogli lo stato
miserando del suo animo nella « tana » paterna, ripiglia
(30 aprile 1817):
Non ni'è possibile rimediare a questo, né fare che la mia salute
debolissima non si rovini, senza uscire di un luogo che ha dato ori-
gine al male, e lo fomenta e l'accresce ogni dì più, e a chi pensa non
concede nessun ricreamento. Veggo ben io che per poter continuare
gli studi bisogna interromperli tratto tratto, e darsi xin poco a quelle
cose che chiamano mondane: ma per far questo io voglio un mondo
che m'ailetti e mi sorrida, im mondo che splenda (sia pure di luce falsa),
ed abbia tanta forza da farmi dimenticare per qualche momento quello
che soprattutto mi sta a cuore; non un mondo che mi faccia dare in-
dietro a prima giunta, e mi sconvolga lo stomaco e mi muova la rabbia
e m'attristi e mi sforzi di ricorrere, per consolarmi, a quello da cui
volea fuggire. 3Ia già Ella sa benissimo ch'io ho ragione, e me lo mostra
la Sua seconda lettera, nella quale di propiio moto mi esortava a fare
un giro per l'Italia, b'enchè poi (e so ben io perchè) con lodevolissima
intenzione, della quale Le sono sinceramente grato, abbia voluto par-
larmi in altra guisa. Laonde ho cianciato tanto per mostrarle che io
ho per certissimo quello che Ella ha per certissimo.
11 buon x>iacentino torna da capo a consigliare « gli eser-
cizi corporali », dai quali Giacomo < acquisterebbe vigore
allo stomaco, alacrità alla testa, robustezza alle membra,
serenità aliammo >>. E insiste (20 maggio):
LA PROMESSA VISITA DEL GIORDANI 63
Aon so se a Lei piaccia il ballo; che pure sta bene a un cavaliere:
non so se Ella non siasi già tanto indebolito che non possa sopportare
la scherma: ma il cavalcare, il nuotare, il passeggiare, La prego che
non Le rincrescano: e se io fossi di qualche autorità presso Lei, gliele
vorrei comandare. Io sono intendentissimo di malinconie; e n'ebbi
tanta nella puerizia e nell'adolescenza, che credetti doverne impazzk-e
o rimanere stupido. La mia complessione fu debolissima; nacqui mori-
bondo, e sin dopo vent'anni non potei mai promettermi due setti-
mane di vita. E se ora ho comportabile sanità (non vigore), lo debbo
all'aver fatto esercizio. Però Le raccomando fervidamente che non
voglia mancare a sé stesso.
Ma si capisce come tutte codeste belle e buone prescri-
zioni igieiiiclie iioia dovessero appagare nemmeno il medico.
Che saj)eva mai lui se l'iniermo avesse ancora forze bastanti
a ballare o a tirar di scherma, a cavalcare o a nuotare, 'pai-
Uno anzi a passeggiare un po' a lungo e all'aria aperta?
Occorreva per lo meno guardarlo in faccia e ascoltarne il
cuore I E il Giordani si lascia sfuggir di bocca una promessa.
Erami venuto in mente, tanto mi sento affezionato a Lei, che l'anno
venturo, se mi riuscisse di aver accomodate le cose mie domestiche,
non mi rincrescerebbe di stare per qualche tempo in quel Recana.ti
dov'Ella tanto si annoia ; e starvi unicamente per interrompere un poco
i Suoi studi; darle un orecchio e un cuore che volentierissimo riceves-
sero le Sue parole; forzarla a lunghe e frequenti passeggiate per cotesti
colli Piceni, e distrarla mi poco dalla fissazione delle malinconie...
Veda Ella dunque in qua! modo io pensi a Lei. E certo ho xm grande e
continuo desiderio di conoscerla di persona, come rarissimo se non
unico signore; e di poterla in qualche cosuccia, secondo il mio niente,
servire.
Il Giordani a Recanati ? Giacomo non sta piti nei suoi
panni. S'affretta a rispondere (30 maggio):
Non dovrei desiderare che Ella mi conoscesse di persona, perchè
certo mi troverà minore assai che forse non pensa: ma io tanto vera-
mente e grandemente La amo, che mi fa dare in pazzie il solo pensare
che l'anno vegnente, se la speranza ch'Ella mi ha data non è vana.,
io vedrò Lei e Le parlerò. E parimente non dovrei desiderare che una
persona che amo tanto venisse a cercare tedio e nausea per me; ma
tutte queste considerazioni non possono fare che io non lo desideri
caldamente, anzi La preghi quanto posso che meni ad effetto il Suo
pio disegno.
E d'aver quella visita egli diventa sempre più impa-
ziente. Il Giordani la promette come probabile; non può
64 LA VITA DEL POETA
darla aucora per sicura. Ripete (10 giugno): ^ Se Dio mi con-
cederà ch'io venga in cotesti paesi, sono già risoluto di
usarle cortese violenza; e di obbligarla a camminar molto,
e fare esercizio: di questo Ell'ha bisogno, e non di studio ».
E il Leopardi (20 giugno): ^ Basta che Ella si risolva di ve-
nire e il più presto che potrà ; il che mio padre (che La saluta)
vuol che Le raccomandi ogni volta che Le scrivo ». Il più
prestai Ma il Giordani aveva parlato deìl^anno venturo l
Onde questi ripiglia (3 luglio):
Per quest'anno mi sarà impossibile di soddisfare al gran desiderio
che ho di venire a Recanati per voi '. Ma spero bene che l'anno ven-
turo, poiché sarò stato in primavera a visitare Canova, passerò l'estate
a visitarvi; che ho tante e tantissime cose da dirvi. Riveritemi e rin-
graziatemi parzialissimamente il vostro signor padre. Lasciatemi rac-
comandarvi sempre la vostra salute. Se sapeste quanto mi preme!
Per carità, fate moto ed esercizio !
Un anno ancora, dunque: periodo ben lungo per chi
aveva da trascinare la vita giorno per giorno, con noia e
fatica, e nelllncertezza del domani! Giacomo risponde (14
luglio):
Dunque bisognerà aspettare un anno prima di vedervi. Caro Gior-
dani, se io fossi mio, le catene e le inferriate non mi terrebbero che
non volassi a voi. Ma io sono come la montagna di Maometto, che
tutto si può muovere eccetto lei, e bisogna venirla a trovare. Speranze
non fondate sopra di me, ed, oltreché non son terreno per queste,
non vogliate far della mia vita più capitale che non ne fo io, che ogni
* Ora per la prima volta i due amici si danno del voi. La proposta
venne dal Leopardi. Il quale, chiedendo licenza al Giordani d'indi-
rizzargli, con ima lettera pubblica, la traduzione del Dionigi del Mai,
gli scriveva (20 giugno 1817): « In essa lettera La tratterò col voi (per-
chè la terza persona mi pare grand 'impaccio allo stile), il che farei
sempre se non temessi di non avere corrispondenza, perchè in verità
quando Le parlo, vorrei parlarle a quattr'occhi e che non ci fosse sempre
la Signoria in mezzo che mi sentisse. Se Ella mi promette di corrispon-
dermi. Le prometto anch'io che, quanto a Lei. farò un crocione alla
Signoria. Son persuaso che in queste baie non istà l'amicizia; ma,
quando un uso porta più comodi e vantaggi che un altro, mi par che
sia da preferire ». E il Giordani (.3 luglio): « Io voglio fare tutto quello
che piace al mio Contino, che singolarissimamente amo: però se Le
piace, diamoci del voi ».
l'« infelicissima e orrenda vita » 65
griorno lo conto per guadagnato. Addio, Giordani mio. M'è gran con-
forto il pensare a voi in questa mia, per più cagioni da qualche tempo,
infelicissima e orrenda vita. Di meliora piis: miglior vita al mio dol-
cissimo Giordani !
Il quale, di questa chiusa piìi dell'usato triste, più che
mai si spaventa, e chiede ansioso, il 24 luglio:
Or che è questa vita vostra infelicissima ed orrenda ì Perdio, mi
lacerate il cuore! Non so indovinare ciò che vi molesti; ma troppo
chiaro veggo che non siete sano, o almeno vigoroso. Per carità, abbia-
tevi ogni possibil cura. Esercitatevi, divertitevi... Oh se mi fosse con-
ceduto di venirvi a visitare ! Ma è impossibile ora.
E tre giorni dopo, non essendo punto tranquillo, torna
a scrivere:
Tutto va bene della erudizione e degli studi. Ma della salute voi
mi fate spasimare. Che è questa lunghezza e frequenza d'incomodi ì
e quali incomodi ? Per carità, o ubbiditemi, o non mi scrivete mai più.
Se non volete scemare (o bisognando, anche cessare per un pezzo) le
fatiche mentali; divertirvi; esercitare il corpo: se vi ostinate a vo-
lervi o ammazzare o incadaverire; fatemi la carità, scordatevi di me,
non mi dite più niente, e risparmiatemi questa pungentissima affli-
zione. Quasi patirei meno vedendovi rovinare nei vizi (come fanno
milioni di pari vostri), che vedere un eccesso di virtù condurre a per-
dizione un miracol di natura. Vel dico davvero; non mi regge il cuore
di restarvi amico, se non attendete (ma da senno) a conservarvi. Voi
mi date una gran tortura, accennandomi mali e tristezze orrende; e
non dicendomi quali... Oh se potessi venir volando a vedervi!
Giacomo replica con una delle piti strazianti lettere che
abbia mai scritte. Ha la data dell' 8 agosto.
Quando un giovane dice d'essere infelice, d'ordinario s'immagi-
nano certe cose che io non vorrei che s'immaginassero di me, singo-
larissimamente dal mio Giordani: per il quale solo io vorrei essere
virtuoso quando bene non ci avesse altro spettatore, né alcun premio
della virtù. Però vi voglio dire che, benché io desideri molte cose e
anche ardentemente, com'è naturale ai giovani, nessun desiderio mi
ha fatto mai né mi può fare infelice, né anche quello della gloria, perché
credo che certissimamente io mi riderei dell'infamia, quando non
l'avessi meritata, come già da qualche tempo ho cominciato a disprez-
zare il disprezzo altrui, il quale non crediate che mi possa mancare.
Ma mi fa infelice primieramente l'assenza della salute, perchè, ol-
treché io non sono quel filosofo che non mi curi della vita, mi vedo
forzato a star lontano dall'amor mio, che é lo studio. Ahi, mio caro
5. — G. Leopardi.
66 LA YITA DEL POETA
Giordani, che credete voi che io faccia ora ? Alzarmi la mattina e tardi,
perchè ora, cosa diabolica!, am.o più il dormire che il vegliare. Poi
mettermi immediatamente a passeggiare, e passeggiar sempre sema mai
ajjrir bocca né veder libro sino al desinare. Desinato, passeggiar sempre
nello stesso modo sino alla cena: se non che fo, e spesso sforzandomi e
spesso interrompendomi e talvolta abbandonandola, una lettura di
un'ora. Così vivo e son vissuto, con pochissimi intervalli, per sei mesi.
- L'altra cosa che mi fa infelice è il pensiero. Io credo che voi sap-
piate, ma spero che non abbiate provato, in che modo il pensiero possa
cruciare e martirizzare una persona che pensi alquanto diversamente
dagli altri, quando l'ha in balìa, voglio dire quando la persona non
ha altro svagamento e distrazione, o solamente lo studio, il quale perchè
fissa la mente e la ritiene immobile, più nuoce di quello che giovi. A
me il pensiero ha dato per lunghissimo tempo e dà tali martirii. per
questo solo che m'ha avuto sempre e m'ha intieramente in balia (e,
vi ripeto, senza alcun desiderio) che m'ha pregiudicato evidentemente,
e m'ucciderà, se io prima non muterò condizione. Abbiate per certis-
simo che io stando come sto, non mi posso divertire più di quello che
fo, che non mi diverto niente. Insomma la solitudine non è fatta per
quelli che si bruciano e si consumano da loro stessi. In questi giorni
passati sono stato molto meglio (di maniera però che chiunque sta
bene, cadendo in questo meglio, si terrebbe morto); ma è la solita
tregua che dopo una lunga assenza è tornata, e già pare che si licenzi,
e così sarà sempre che io durerò in questo stato, e n'ho l'esperienza
continuata di sei mesi, e interrotta di due anni. Nondimeno questa tregua
m'avea data qualche speranza di potermi rifare mutando via. Ma
la vita non si muta ; e la tregua parte, e io torno o più veramente resto
qual era.
Sottoscrive: « Sono il vostro buon Leopardi ». Ed è un
ultimo tocco, che ci commuove di tenerezza, come il sin-
ghiozzo rattenuto o il sussulto di pianto d'un bambino, che
non voglia farsi veder piangere.
Oramai egli non ha la mente che al giorno in cui il Gior-
dani sarà accanto a lui. È assalito da « un nembo e una
furia di pensieri », che vorrebbe confidargli e che serba per la
sua venuta. « Credo », soggiunge, « che, se ci vedremo, io
starò qualche giorno senza dirvi niente, per non sapere da
che cominciare. Non sarà poco se vi darò spazio di man-
giare e di dormire, che non v'assedi del continuo col mio
favellare ». Sa che sono « castelli in aria »; ma ne fa per di-
strarsi, (c Vedete », scrive il 29 agosto, « che non posso dire
di esser sano; ma lieto mi sforzo di essere per amor vostro.
Avrei sommo bisogno di distrazioni, ma non ne ho : ohimè !
l'h ozio noioso » 67
mi ridarebbero la salute e la vita ». Uscire, uscire una buona
volta dal borgo selvaggio, dove « si sta tra animali •>: questa
sarebbe stata distrazione vera I ^ A Recanati posso morire,
certo è che non ci vivrò ». dichiara risolutamente. E il Gior-
dani ne prende coraggio per ribattere oramai sul chiodo
anche lui (9 settembre).
Duolmi assai assai della vostra salute; che non cesserò mai di rac-
comandarvi. Gran rimedio, e unico, sarebbe muovervi, distrarvi, cercar
un poco di nuovo paese; e comincerei da Roma. Penso che il vostro
siurnor padre avrà cura di un si prezioso figlio : e penserà non poter
meglio usare la sua fortuna che nel conservarvi sano e lieto, e man-
tenervi a quelle uniche e rarissime sjjeranze che di voi ha l'Italia...
Oh se io potessi venirvi a trovare, e consolarvi un poco !... Spero che
l'anno venturo vi vedrò sicuramente. Ponete og-ni vostro pensiero a
conservarvi. Perchè non cavalcate ? Giò dovrebbe pure giovarvi. Lo
studio v'è nocivo; ma l'ozio noioso vi tormenterà: procacciatevi dunque
(ve ne prego) qualche salutare esercizio.
Intanto, quasi per consolarlo, gli diceva un gran male
della sua Piacenza, dove s'era nuovamente « incardinato ».
Anche questo che ^ povero paese ) I E per « la penuria de'
libri anche piìi usuali, propriamente miserabile e vergognosa »,
Piacenza si trova alla pari, se non al disotto, di Recanatì.
E qui pure, «nobiltà ignorante e superba; preti ignoranti
e fanatici; moltitudine infinita di sciocchi; miserie e vizi;
un governo che fa pietà ». Un po' meno male che a Reca-
nati ci si stava, forse, per -la compagnia: dacché non vi
mancavano < alcuni uomini eccellenti e rarissimi, dai quali »,
il Giordani confessava, « posso continuamente imparare »; e
« amici fedelissimi e cari, qualche donna amabile, molta li-
bertà di pensare e di parlare ». Quanto all'ambiente dome-
stico, le parti erano presso che uguali, se pure non istava
meglio Giacomo, Il Giordani trovava anche lui una '< gran
consolazione » nella sorella, « che è », diceva, « il miglior
cuore del mondo, d'una ingenuità soavissima, affezionata
a me quanto mai si può ». Ma il fratello, « dOigentissimo nei
danari, ma del restante buon uomo », andava qua e là « se-
minando evangelio per coglier pecunia, la quale saviamente
pensa che non è mai troppa ^ ; e lontani, vivevano « concor-
dissimi ». A buon conto, pur nella semibarbara Piacenza,
68 LA VITA DEL POETA
airottimo Pietro riusciva di vivere « quieto, libero, contento:
poiché », concludeva, « bisogna pur contentarsi del mediocre:
Jacileììi amo vitam parabilemque ^ ».
Davvero che il povero Giacomo non aveva nessun de-
siderio smodato; ma il Giordani non giungeva ancora a
persuadersene. « Stando in Eecanati, e come ci sto io », gli
spiegava meglio quel passero solitario (11 agosto), «niente
mi può consolare della privazione degli studi; e nondimeno,
perchè vedo che mi bisogna stare un pezzo senza studiare...,
non istudio, e così fo da molto molto tempo ». Altro che
di poco esser contento ! S'egli si sentiva e dichiarava « infe-
lice », se ne persuadesse, era per « l'assenza della salute »,
che, chiosava (29 agosto), « togliendomi lo studio in Reca-
nati, mi toglie tutto, oltre al pensiero, che è stato sempre
il mio carnefice, e sarà il mio distruttore, se io durerò in
poter suo in questa solitudine ». Egli era convinto che, se
mai una volta fosse pur riuscito a vedere il mondo, lo avrebbe
avuto a noia, anche lui ; anzi, soggiungeva, « allora forse
non mi dispiacerà e fors'anche mi piacerà questo eremo che
ora abborro » ; ma ora, per vivere, sentiva il bisogno ur-
gente e imperioso d'un'aria e d'una noia che non fossero
recanatesi ! E ohimè, « di muoversi di qua né anche si
sogna ! » (26 settembre).
Dio mi scampi dalle prelature che mi vorrebbero pittar sul rauso;
Dio mi scampi da Giustiniano e dal Digesto, che non potrei digerire
in etemo. Certo che non voglio vivere tra la turba: la mediocrità mi
fa una paura mortale; ma io voglio alzarmi e farmi grande ed eterno
coll'ingegno e collo studio: impresa ardua e forse vanissima per me,
ma agli uomini bisogna non disanimarsi né disperare di loro stessi...
TuttvC le forze in questa maledetta città bisogna che le pigli dall'animo
mio e dalle lettere vostre...
Se credete che io stia molto bene a libri, v'ingannate, ma assai.
Se sapeste che Classici mi mancano!... Ma le mie entrate non bastano
per comprarli, e delle altrui io non mi voglio servire più che tanto.
Credo che sarete persuasissimo che qui né per governo, né per
nessun 'altra cosa non si stia meglio che a Piacenza. Questa poi é la
Capitale de' poveri e de' ladri: ma i vizi mancano (eccetto questo di
rubare), perché anche le virtù. Ditemi di grazia almeno i nomi di co-
* Orazio aveva detto, Sat. I, 2, 119: t namque parabilem amo Ve-
nerem, facilemque ».
IL « PERFETTO SCRITTORE ITALIANO » 69
testi uomini insigni che avete in patria. Qui ne abbiamo da sette mila
tutti insigni per la pazienza che hanno di stare a Recanati, la quale
molti nobili vanno perdendo. Le donne poco più hanno di quello che
si son portate dalla natura, se non vogliamo dire un poco meno ; il che si
può bene della più parte. Non credo che le Grazie sieno state qui mai,
né pure di sfuggita all'osteria...
De' molti fratelli ne ho uno con cui sono stato allevato fin da bam-
bino (essendo minore di me di un solo anno), onde è un altro me stesso,
e sarà sempre insieme con voi la più cara cosa che m'abbia al mondo,
e con un cuore eccellentissimo, e ingegno e stxxdio di cui potrei dire
molte cose se mi stésse bene: è il mio confidente universale, e parte-
cipe tanto o quanto degli studi e delle letture mie: dico tanto o quanto,
perchè discordiamo molto, non per l'inclinazione, amando lui gli stessi
studi che io, ma per le opinioni. Questi vi ama, come è naturale solo
che altri vi conosca in qualche modo, e questi è il solo solissimo con
cui apro bocca per parlare degli studi: il che spesso si fa, e più spesso
si farebbe se si potesse senza disputa, le quali sono fratellevoli, ma calde \
Mi duole fieramente del vostro Panegirico che ancora è per la strada.
Oh qua bisognerebbe che venissero gl'impazienti, quelli che quando
desiderano una cosa ardentemente non sanno soffrire indugio ! Io pure
tma volta avea questi vizi, ma vi so dir io che quest'inferno doma tutte
le passioni.
Il cavalcare che m.i consigliate, certo mi gioverebbe, ed è uno dei
pochi esercizi che io potrei fare, dei quali non è né il nuotare né il gio-
care a palla né altro tale, che non molto fa mi avrebbe dato la vita ed
ora mi ammazzerebbe, quando io mi ci potessi provare, che é impossi-
bilissimo. Potrei, dico, cavalcare se avessi ìììoUc cose che non ho.
Vo contando, mio caro, i giorni e i mesi che mi bisogna passare
prima di vedervi.
Intanto che Giacomo riempiva così, descrivendola nella
sua snervante monotonia, la sua squallida vita, l'amico pia-
centino, ingenuamente estasiato dietro il fantasma del e per-
fetto scrittore italiano » che vedeva sempre meglio ingigan-
* Al Giordani, che richiese qualche spiegazione su codeste diver-
genze fraterne, il Leopardi rispose (21 novembre): « Sappiate che questo
scellerato non vuol sentire il nome di differenze, né anche mi concede
che tra noi veramente ci sieno; vedete quanto andiamo d'accordo! Le
stesse controversie non vi si possono scrivere, perché sono infinite, e
ne nasce tutti i giorni come i funghi. Basterà che sappiate che le ca-
gioni dalla parte di Carlo sono poco amore della patria, poco degli
antichi, molto degli stranieri, moltissimo dei Francesi ». Differivano
anche fisicamente: «ch'egli», riscriveva Giacomo (ó dicembre), «è alto
e fatticcione da metter paura a me, scria tello e sottilissimo ».
LA %aTA DEL POETA
tire e impersonarsi nelle gracili forme del contino marchi-
giano, gli gridava: Inveni hominem! (21 settembre).
Appena lo credo a me proprio ; uia è vero. Che ingegno ! che bontà !
E in vm giovinetto I e in un nobile e ricco ! e nella Marca I Per pietà,
per tutte le care cose di questo mondo e dell'altro, ponete, mio caris-
simo contino, ogni possibile studio a conservarvi la salute. La natura
lo ha creato, voi l'avete in grandissima parte lavorato quel jìcrfeito
scrittore italiano che io ho in mente. Per dio, non me lo ammazzate I...
Per l'amore d'ogni cosa amabile, fate, Giacomino mio adoratissimo,
di tener vivo all'Italia il suo perfetto scrittore, ch'io vedo in voi e in
voi solo. Non vi avviliscano le malinconie, le languidezze presenti, i
martiri i del pensiero: io le ho provate tutte nella vostra età; e sono so-
pravissuto. Io sino ai venti anni sono stato cosi moribondo che né io
uè altri potesse di di in di promettermi una settimana di vita: ed ho
avuto molte altre calamità, che voi Dio grazia non avete. Dunque
confidatevi, amatevi, curatevi. Conservate la vostra vita, come se l'aveste
in deposito dall'Italia, e come se nel deposito si conservassero grandis-
sime speranze di gloria e di felicità nazionale... Io ho innanzi agli occhi
tutta la vostra futura gloria immortale: al che nulla vi bisogna fuorché
vivere. Per l'Italia nostra, mio Giacomino, per la nostra sfortunata e
cara madre, sappiate vivere. A ciò solo pensate: reliqua omnia adii-
cientur Ubi '.
Passa pili d'un mese, dopo questa lettera, senza che il
Giordani si rifaccia vivo con l'amico desolato. Il quale, im-
maginando di lui « quelle più acerbe cose che si possono pen-
sare di persona piìi cara che la vita propria », ne prova
« strette di cuore così dolorose, che altre tali non si ricorda
di avere mai provato in sua vita » (21 novembre). « Perchè
certo»), gli spiegava, 'io vivo sempre con voi, e ne' miei
pensieri mi trattengo con voi, e studio per piacere a voi; e
già per questo miserabile sospetto mi parca di non avere
pili motivo di studiare, e pensando al futuro non vedea
come potessi vivere altrimenti che in uno stato simile a
quello dell'anima divisa dal corpo, il quale dicono i filosofi
che sia violento ». Intenerito sempre più d'un tanto amore,
il Giordani gli protesta il suo, non meno caldo. « Sappiate
bene », gli scrive (30 novembre), « che nella vostra età io
era tutto come voi; e se ora l'aver vissuto e troppo cono-
' Nell'Evangelo di Matteo, VI, 33. é scritto: « Quaerite ergo pri-
mum regnum Dei, et iustitiam eius: et haec omnia adiicientur vobis ».
IL e PROJO AMOEE
scinto gli uomini ha moderato il mio cuore, non lo ha
però molto cangiato ». E lo conforta del non essere, com'egli
aveva supposto, » Foracelo della Marca », ricordandogli che
« anche il Messia quando era piccolino non era molto ascol-
tato da' suoi patriotti ') (17 dicembre).
Un raggio di sole era intanto penetrato in quel romito
carcere feudale. La sera dell' 11 dicembre, giungeva in Ke-
canati, ospite di Monaldo, la giovane contessa Geltrude Cassi,
sua lontana parente. Del subuglio di fremiti, di desiderii,
d'ammirazione, di passione, che la vista e la conversazione
deUa bella signora suscitò nel deserto di quel cuore di poeta,-
così assetato di affetti, avrò occasione di toccare piti avanti,
nell'illustrazione dell'elegia, lì primo amore. Qui rileverò sol-
tanto l'eco di quel rimescolamento che rimane nelle lettere
al Giordani. Il 22 dicembre, otto giorni dopo la partenza
della contessa, Giacomo gli scriveva:
^li consolate assai quando mi dite che fra pochi mesi ci vedremo.
Oh mi bisogna, o mio caro, la presenza vostra più che forse non vi
figurate. La salute adesso mi lascia far qualche cosa, ed io son tornato
alle mie vecchie malinconie, e mi rallegro di potermi pure affliggere
per altro che per la infermità, che è bene Un'afflizione sterile e sgra-
dita... M'è accaduto per la prima volta in mia vita di essere alcuni
giorni, per cagione non del corpo ma dell'animo, incapace e non cu-
rante degli studi in questa mia solitudine. Nondimeno tornerò, benché
con is voglia tezza, al Tasso e alle altre mie letture... In verità ne' giorni
addietro, vedendomi cosi fuor del mondo letterato, colle mani legate,
senza, per cosi dire, potermi voltare da nessuna banda..., pigliavami
una rabbia, ch'io n'indiavolava. Ma ora né di biblioteche né di dis-
sertazioni né di furori né d'altre tali cose non mi cale, né mi può ca-
lere né poco né punto... Addio, carissinio e dilettissimo mio. Voglia-
temi bene, e conservatevi al più ardente e smanioso degli amici vostri:
il quale così potesse esser felice e beato in voi., come in sé stesso sarà
sempre infelice, e andrà tuttavia lamentando il suo fato ed il perduto
Fior della forte gioventù.
E il 16 gennaio del 1818. a proposito della Biblioteca lia-
liana e del suo direttore, l'Acerbi, — che il Leopardi, senza
conoscerlo, teneva per un di -quei galantuomini in cher-
misi ') (noi diremmo un furbo matricolato), e il Giordani,
conoscendolo, giudicava ■ il piìi infame diffamato mascalzone,
che tutti predicano per spia pubblica ; ed è questo il minimo
LA ^HTA DEL POETA
de' suoi vituperii », — Giacomo usciva in queste singolari
rivelazioni :
È un pezzo, o mio caro, ch'io mi reputo immeritevole di comjnet-
tere azioni basse, ma in questi ultimi giorni ho cominciato a riputarmi
più che mai tale, avendo provato cotal vicenda d'animo, per cui m'è
parso d'accorgermi ch'io sia qual cosa meglio che non credeva, e ogni
ora mi par mille, o carissimo, ch'io v'abbracci strettissimamente, e
versi nel vostro il mio cuore, del quale oramai ardisco pur dire che
poche cose son degne... Né io sarò meno virtuoso né meno magnanimo
(dove ora sia tale) perchè un asino di libraio non mi voglia stampare
un libro, o una schiuma di giornalisti parlarne. Oramai comincio, o
riiio caro, anch'io a disprezzare la gloria, comincio a intendere insieme
con voi che cosa sia contentarsi di sé medesimo, e mettersi colla mente
più in su della fama e della gloria e degli uomini e di tutto il mondo.
Ha sentito qualche cosa questo mio cuore, per la quale mi par pure
ch'egli sia nobile, e mi parete pure una vii cosa voi altri uomini, ai
quali se per aver gloria bisogna che m'abbassi a domandarla, non la
voglio; che posso ben io farmi glorioso presso me stesso, avendo ogni
cosa in me, e più assai che voi non mi potete in nessunissimo modo
dare.
S'intende che in quel voi altri uomini ei non voleva com-
preso colui al quale la lettera, non già quell'apostrofe, era
diretta! E anzi, non ricevendone più notizie, gli riscrive il
13 febbraio, chiedendogli angosciato: «M'abbandonerete
anche voi così solo e abbandonato come sono ì ». Il Giordani
s'affrettò a rispondere, a volta di corriere (il 21), scusandosi
premurosamente dell'involontario ritardo, e soggiungendo:
Mi accorate, mostrandomivi cosi malinconico. Oh se io potessi ralle-
grarvi! Per carità fatevi coraggio: voi mi atterrate, quando mi vi mo-
strate in languore e patimento. Credevo di vedervi in maggio: ma
bisogna soddisfare a mio fratello, che non vuole aspettare; e bisogna
andar prima a Venezia. Ad ogni modo ci vedremo in quest'anno; e
sarò prima da voi che in Roma, e per questa sola cagione passerò per
la via di Loreto, e non per la più breve di Toscana... Vi raccomando
la salute e l'allegria. Se alla salute è indispensabile assolutamente
l'uscire un poco di costi, m'inginocchierò a vostro padre; e forse si
troverà modo a conseguirne questa grazia. Intanto non vi abbando-
nate cosi alla tristezza. Eh, se vi toccasse di patire quel che ho patito
io, e tanti altri, che fareste allora ? Sappiate godere tanti vantaggi
che avete.
Il Giordani o davvero non intendeva bene, o fìngeva
di non intendere. E Giacomo cerca di spiegarsi meglio
(2 marzo, 1818).
IL «PRIMO AMORE» 73
Della salute sic habeto. Io per lunghissimo tempo ho creduto fer-
mam.ente di dover morire alla più lunga fra due o tre anni. Ma di qua
ad otto mesi addietro, cioè presso a poco da quel giorno ch'io miai
piede nel mio ventesimo anno..., ho potuto accorgermi, e persuadermi,
non lusiagandomi, o caro, né ingannandomi, che il lusingarmi e l'ia-
gannarmi pur troppo è impossibile, che ia me veramente non è cagione
necessaria di morir presto, e purché ra'abbia infinita cura, potrò vi-
vere, bensì strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso
appena per la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre
in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi
pregiudichi, o mi uccida... Questa ed altre misere circostanze ha posto
la fortuna intomo alla mia vita, dandomi una cotale apertura d'intel-
letto perch'io le vedessi chiaramente e m'accorgessi di quello che sono,
e di cuore perch'egli conoscesse che a lui noiv si conviene l'allegria,
e, quasi vestendosi a lutto, si togliesse la malinconia per compagna
etema e inseparabile. Io so dunque e vedo che la mia vita non può
essere altro che infelice: tuttavia non mi spavento, e cosi potesse ella
esser utile a qualche cosa, come io procurerò di sostenerla senza viltà.
Ho passato anni cosi acerbi, che peggio non par che mi possa sopravve-
nire: con tutto ciò non dispero di sofErire anche di più... Quanto alla
necessità di uscire di qua, con quel medesimo studio che m'ha voluto
uccidere, con quello tenermi chiuso a solo a solo, vedete come sia
prudenza, e lasciarmi alla malinconia, e lasciarmi a me stesso che sono
il mio spietatissimo carnefice. Ma sopporterò, poiché sono nato per sop-
portare; e sopporterò, poiché ho perduto il vigore particolare del corpo,
di perdere anche il comune della gioventù.
Queste lettere, veri capilavori d'eloquenza, rattristavano
e insieme esaltavano il Giordani; che s'arrabattava a esco-
gitar nuovi balsami di parole per lenire quelle ferite cotanto
dolorose. Gli scriveva ancora (16 marzo):
Vorrei che per un poco di tempo voi aveste meno ingegno e meno
eloquenza, acciocché meno di forza avesse la vostra malinconia, e io
dall'espressione di lei meno dolore... Ad ogni modo, centra questo
male, che è il più fiero di tutti, bisogna armarsi; e resistergli, e impe-
dirgli i progressi, e vincerlo (che é vincibile) e liberarsene. Ma, come
fare ? direte voi. Benché io sia stato malinconico al pari di voi, ed ora
non sia allegro, ho nondimeno grande speranza di potervi confortare
e consolare, e farvi trovare il vigore per superare questa malattia. Una
certa disposizione malinconica é naturale agl'ingegni, ed é necessaria
al far cose non ordinarie; ma l'eccesso uccide... Intanto abbiatevi cura:
fate moto, prendete aria; e non v'immergete tanto negli amari pensieri.
Certo il muovervi di costà un poco mi pare necessario: vedremo se si
potrà ottenerlo... Mi rattrista la necessità di tardare la mia venuta;
e di non potere correr subito portando un poco di refrigerio al pvirga-
torio d'un'anima dolcissima.
LA VITA DEL POETA
Questa visita, tauto annunziata, sarebbe stata « come
l'aurora alle tenebre » (24 aprile); e Giacomo continua a so-
spirarla. Intanto, « come una distrazione utile a toglierlo
da tanta eccessiva assiduità di studi ), il Giordani gli dà una
strana briga: di procurare a una marchesa sua cugina, di-
lettante di agronomia, un po' di semente deìl'erha sulla, con
le istruzioni necessarie a coltivarla! (17 maggio). Eran gli
anni in cui anche il Manzoni era tutto preso da quegli espe-
rimenti d'agricoltura e di giardinaggio, ch'ei sapeva cari
al Fauriel e alla signora Condorcet. E il Leopardi fece del
suo meglio per accontentare lamico e la dama (1 giugno).
Tuttavia gli ricordava (25 maggio): « Siamo alla fine di
maggio, e fra luglio e questo c'è solamente un mese. Che ?
non verrete piìi in luglio '? Ho paura che non tocchi a me
a pagar la spesa delle vostre tardanze, e a proporzione che
guadagna la Lombardia perda la Marca. Per Dio non fate
che sia vero, che non è giusto >k E il Giordani si ripromette,
e ripromette, d'essere a Eecanati e certamente entro luglio »,
e vagheggia, e fa vagheggiare, " lunghi colloqui » in cui
0 d'infinite co.se» parlerebbero '(lungamente» (16 giugno).
Ma un mese dopo, è ancora allo stesso punto, di promettere
per circa la metà di agosto ». Il 6 agosto, da Bologna, an-
nunzia: « Ora sono in Bologna; ma verso la fine del mese
voglio essere in Recanati ». Giacomo, che non ne può piìi
degli indugi e delle dilazioni, gli risponde, il 14:
Io v'aspetto impazientissimainente, mangiato dalla malinconia,
zeppo di desiderii, attediato, arrabbiato, bevendomi questi giorni o
amari o scipitissimi, senza un filo di dolce ne d'altro sapore, che possa
andare a sangue a nessuno. Certo ch'avendo aspettato tanto tempo la
vostra visita, adesso eh 'è vicina, ogni giorno mi pare un secolo; né
sapendo come riempirli (e quando anche per l'ordinario sapessi, ogni
cosa mi dee parer vana rispetto alla conversazione vostra), sudo il
cuore a sgozzarli. Direte: e lo studio ? In questi sriorni io sono come
chi ha l'ossa péste dalla fatica o dal bastone: tanto ho l'animo fiacco
e rotto, che non son buono a checchessia.
Da Bologna il Giordani non riusciva a staccarsi; e il 26
procrastina nuovamente la sua visita. Dice: « Se non muoio
tra pochi dì, tra pochi dì ci vedremo: in principio di set-
tembre; qualche giorno piìi tardi che non avrei creduto: mi
IL GIORDANI A RECANATI
ritiene grave malattia d'uii'amica amabilissima, dalla quale
non so allontanarmi senza lasciarla incamminata al guarire ».
E Giacomo di rimando (31 agosto): « Nei mali o vostri o di
un'amica vostra io non compatisco ma patisco; si che per
quanto arda e spalimi di vedervi, per quanto sia fatto im-
pazientissimo, e i giorni mi paiano secoli, e proprio non
sappia come ingoiarli; con tutto ciò non vi posso pregare
che v'affrettiate di consolarmi. Basterà che quando potrete,
vi ricordiate dell'amor mio, ed ascoltiate l'amor vostro ».
Il Giordani a Recanati. — I colloqui con Giacomo e i sospetti
di Monaldo. — L'accusa del Gioberti e del Capponi in
danno del Giordani.
Nella seconda metà del settembre 1818, finalmente, il
Giordani salì a Kecanati, e smontò in un alberguccio, donde
fece recapitare un biglietto ai conti Leopardi. Pare che il
messo lo consegnasse, come del resto era naturale, al conte
padre, il quale, nel desiderio di far forza airillustre visita-
tore perchè accettasse l'ospitalità in casa sua, si affrettò ad
andare all'albergo; ma non tanto che non vi fosse preve-
nuto da Giacomo, che avendo saputo dell'arrivo, vi era
corso a precipizio. Del che ebbe poi a rimproverarlo il padre,
giacché quella, come riferì poi Carlo, era la prima volta che
Giacomo osasse uscir di casa senza la compagnia dell'aio
o di qualche persona di famiglia ^.
A Recanati l'insigne piacentino non si trattenne che
cinque giorni solamente. E Monaldo gli si mostrò sempre
cortesissimo, e lasciò che Giacomo e Carlo conversassero
con lui liberamente, anzi lo accompagnassero pur nelle sue
gite per gli ameni dintorni: tanto la carità del natio loco lo
^ Cfr. i Ricordi, giudizi, ragguagli ecc. pubblicati dal Viaui, nel III
voi. dell'Epistolario leopardiano, p. 427-28.
76 LA VITA DEL POETA
strinse I Un giorno, che rimase memorabile nelle immagina-
zioni paurose delle donne di casa, ei permise che andassero
insieme fino a Macerata I ^ Di che cosa i due giovanetti e
l'uomo maturo discorressero, a noi, che abbiamo sott'occhi
l'Epistolario, non è difficile indovinarlo: degli studi, certo,
di poesia, dell'Italia, e anche del modo da tenere per indurre
il conte cocciuto e la taccagna contessa a lasciare che i
figli uscissero del nido. Ma via via, quando, dopo quella
visita e quei colloqui, Giacomo gb* diede quella solenne
prova di ribellione, Monaldo si venne persuadendo, messo
forse sulla buona strada dalle suggestioni della moglie bi-
gotta, che l'ospite fosse una specie di Mefistofele, capitato su
Eecanati a posta per conquistare e rapire l'anima ingenua
di quell'imberbe Faust. Quei colloqui gli apparvero allora
cospirazioni, e vi fiutò non so che di misterioso, di settario,
di diabolico. Così che quando fu sorpreso dal tentativo di
fuga, ei non dubitò un momento di farne risalire la colpa
tutta ai suggerimenti malvagi dell' ospite ingrato. E il 3
d'aprile del 1820 scriveva all'avvocato Pietro Brighentì,
sfogando l'amarezza del suo cuore:
Purtroppo mi dolgo degli amici o falsi o inconsiderati, ma non di
Lei. Le mie espressioni, e sia con Sua tolleranza, miravano principal-
mente il signor Giordani, il quale, sarà forse senza volerlo, mi ha pro-
cacciati rammarichi troppo cocenti, ed è stato d'infausto augurio alla
mia famiglia...
Coli 'occasione di una sua stampa, Giacomo aprì corrispondenza let-
teraria col sig. Giordani, e restò innamorato della sua bella e cordiale
maniera. Io secondai questa amicizia, ed invitai il sig. Giordani a trat-
tenersi con noi venendo da queste parti. Egli mi favori per alcimi
giorni, ma la venuta sua fu l'epoca in cui li figli miei cangiarono pen-
sieri e condotta, ed io forse li perdetti allora per sempre. Fino a quel
giorno mai, letter dimeni e mai, erano stati iin'ora fuori dell'occhio mio
e della madre. Li lasciai con Giordani liberamente, stimando di lasciarli
in braccio all'amicizia e all'onore. Non so, o per lo meno mi giova igno-
rare, ima gran parte, e forse la più interessante, di quanto formò l'og-
* Il PlERGlLi (Z,e tre lettere di G. L. intorno alla divisata fuga, p. 12 n.)
riferisce d'aver saputo dalla contessa Ippolita Mazzagalli, cugina e
coetanea di Giacomo, che « Giordani chiese ed ottenne da Monaldo
il permesso di condurre un giorno il giovane amico a Macerata, donde,
secondo che affermava quella timorata donna, questi tornò mutato
tutto ».
I « MALVAGI PUNGELLI » DEL GIORDANI 77
getto di quei lunghi colloquii. Certo si esagerò sulla infelicità di vivere
in un piccolo paese; si riscaldò la fantasia dei giovani come destinati
dalla natura ad alte imprese ed a teatro vastissimo; si progettò per
Giacomo un posto, o almeno un soggiorno, in Milano ovvero in Roma;
si assegnò al secondo una piazza di ufficiale fralle truppe del Piemonte ;
e fino si parlò di non so quale matrimonio per una mia figlia. Giordani
partì portando con sé il segreto dei figli miei, e se non fu scellerato
per eccitare in essi sentimenti contrarli ai loro doveri, fu incauto fo-
mentandoli coi suoi discorsi, e fu crudele con me conservando il più
rigoroso silenzio. La corrispondenza di loro con esso è continuata; si
sono trattate sempre le stesse materie, si è disceso ai dettagli, si è stato
al momento della esecuzione, e Giordani non mi ha scritto ima sil-
laba, né mi ha fatto pervenire un avviso. So che ha scritto a Giacomo
qualche lettera saggia; ma se vma scintilla promuove un incendio,
una stilla non basta ad estinguerlo. Giordani per lo meno é stato im-
prudente, e le imprudenze con li giovani sono fatali.
Qiii vien tatto d'osservare che Monaldo si mostra ud po'
troppo bene informato di quello che i due amici si scrive-
vano ! Era difatto vero che, in una lettera del 22 settembre
1819, il Giordani dava informazioni a Giacomo intorno alla
« milizia piemontese », e alla « spesa non piccola » che sa-
rebbe occorsa perchè Carlo vi s'inscrivesse. « E a questa »,
aveva soggiunto, « come s'indurrebbe mai vostro padre, già
ripugnante a lasciarvi uscir di casa ? ». Ed era anche vero
che, circa il tentativo di fuga non riuscito, egli aveva scritto
a Giacomo, il 1° novembre: « Keputo gran ventura che sia
stato disturbato il tuo doloroso disegno. Non ti biasimo che
tu l'abbi avuto in mente; ma reputo bene, o assai minor
male, non averlo potuto eseguire ». E di questo suo giudizio
gii esponeva le ragioni: «Come esporti cosi all'azzardo?
con una complessione delicata ? senza un fine certo ? senza
mezzi sicuri? in un mondo, in un secolo il più egoista che
mai fosse. In chi sperare, e che? », Ed esortava: « Figurati
d'essere un carcerato; ma ariosa prigione e salubre, buon
letto, buona tavola, assai libri: oh Dio, ciò è ancora meno
male che non saper dove mangiare, né dove dormire. Chi
sa, forse un qualche giorno tuo padre si piegherà: se io
sapessi qual santo potesse fare questo miracolo, certamente
lo invocherei. Ma frattanto invoco la tua pazienza, la tua
prudenza ». — Come mai, dunque, Monaldo era a cognizione
di tutto ciò ? Non è certo tra le cose verosimili che Giacomo
78 LA VITA DEL POETA
o Carlo gli mostrassero le lettere ! Ma la polizia materna
aveva le braccia lunghe: e i sospetti di Carlo non sorsero
se non troppo tardi I
Monaldo ripiglia, insistendo sulle <> imprudenze » del Gior-
dani :
Né questa sola ha commessa. CoU'occasione similmente della lette-
ratvira, ha suggerita e favorita la corrispondenza di Giacomo con molti
letterati d'Italia. Fra questi vi sono spiriti pericolosi e inquieti, e Gior-
dani è obbligato a conoscerli, e li conosce. Costoro non hanno mentito
sé stessi, e manifestandosi al figlio mio nelle loro lettere, lo hanno
scopertamente invitato a partecipare delle loro massime, e a coadiu-
vare, anzi a farsi primario sostenitore dei loro disegni.
E qui ancora ci verrebbe latto di domandare: e codeste
lettere come mai eran cadute esse i)ure nelle sue mani ?
Sennonché pare che questa volta Monaldo lavorasse di
fantasia, e desse per realtà i suoi sospetti ^. A buon conto,
Giacomo li -smentisce recisamente, come calunniosi, nella
sua Ietterà al Broglio, del 13 agosto 1819. Egli attesta:
Quello che mi duole più di tutto, è il sapere che si vanno incolpando
di questa mia risoluzione antichissima, alcuni letterati ch'io conosco
da poco tempo. S'è lecito in questo caso, io vi giuro per tutto quello
che v'ha di più santo, che nessuno d'essi ha mai sognato di darmi questo
consiglio. Anzi s'io avessi manifestato loro la mia deliberazione, sono
certissimo che me ne avrebbero dissuaso con tutte le forze. Io m'offro
di far leggere a mio padre tutte quante le lettere che m'hanno scritto
a una a una. Bisogna ben che mio padre si stimi il solo prudente della
terra, poiché crede che persone navigate e praticissime del mondo si
vogliano impacciare negli affari di una famiglia altrui, e tirarsi addosso
l'odio di \in terzo, per qualunque vantaggio ne potesse derivare a un
loro amico. Massimamente che saprebbero bene, e sanno, ch'io par-
tendo di qui, mi priverei d'ogni avere; sicché tornerebbe loro molto
meglio il conto, ch'io me ne stessi qui aspettando e soffrendo, poich'essi
non soffrirebbero già nulla con me. Quanto ai loro principii, io non
m'inganno, ma li conosco, tanto che anch'io li professo. Non ignoro
* Il 21 giugno 1819, Giacomo scriveva al Giordani: «In questo paese
di frati, dico proprio questo particolarmente, e in questa maledetta casa,
dove pagherebbero un tesoro perché mi facessi frate ancor io, dove
volere o non volere a tutti i patti mi fanno viver da frate, e in età di
21 anno e con questo cuore che io mi trovo, fatevi certo che in brevis-
simo io scoppierò, se di frate non mi converto in apostolo, e non fuggo
di qua mendicando, come la cosa finirà certissimamente ».
MONALDO ACCUSA IL GIORDANI
che possono aver delle mire interessate, ma io distinguo le cagioni
dagli efletti, e quanto a questi, cioè alle massime, se non si sono avve-
duti ch'erano mie fin da quando io non sapea neppure il nome di questi
letterati (che non pensando come i marchegiani, è naturale che siano
scelleratissimi), non si vantino di quella fina conoscenza degli uomini
di cui fanno tanta pompa. È ben curioso che si voglia credere ch'io,
se non messo su. come dicono, dai letterati, non fossi capace di ima de-
terminazione, che qualunque savio nei mio caso vedrebbe esser la sola
che mi rimanga.
Monaldo protesta ch'egli è ■< assai lontano da qaalunque
fanatismo », ma altresì « lontano, dall' esser cieco »; che tutto
ciò che ha scritto « è tutto vero », anzi, soggiunge, « è vero
ancora il di più che taccio ».
Il fatto sta che alla venuta di Giordani i miei figli cambiarono na-
tura. Mi rispettano perchè sono educati, e perchè mi farei rispettare
se noi facessero, ma non mi danno altra soddisfazione. Abborriscono
la patria 's'intende Recanati!], che ogni uomo onesto deve amare e
servire qualunque essa sia, e quale gli è stata destinata dalla Provvi-
denza; abborriscono quasi la casa patema, perchè in essa si conside-
rano estranei e prigionièri; e forse abborriscono me, che, con un cuore
troppo pieno di aniore per tutti, sono dipinto nella loro immaginazione
corrotta come un tiranno inesorabile. Io invidio la sorte di un padre
mendico, che, riportando a casa un pane nero e bagnato di sudore, si
vede accolto dall'amore e dalla riconoscenza dei figli ^.
Poveromo I S'egli non faceva allegra la vita dei figli,
non si può in coscienza dire che questi spargessero di fiori
la sua! E piìi egli ci venne pensando, più si convinse di
dovere al Giordani il traviamento dei figliuoli. Così che il
28 dicembre del 1830 giunse a scrivere al cognato Antìci:
Di Giacomo so che sta abbastanza bene, e non è andato a Pisa
come pensava, ma passa l'inverno a Firenze. Del signor Giordani poi
non so nulla, e questo miserabile apostata dovrebbe stare lontano un
milione di miglia dal consorzio degli uomini. Quello è im alito che .
contamina chiunque ardisca di avvicinarglisi ^.
Un così fiero rincrudimento di stizza era forse dovuto alla
voce, qua e là bisbigliata, che fosse stato appunto il Gior-
Cfr. l'Appendice sW Autobiografia di Monaldo, p. 29S-99 n.
Cfr. l'Appendice citata, p. 300 n.
80 LA VITA DEL POETA
dani a instillare nella mente di Giacomo l'incredidità reli-
giosa. La strana leggenda, a cui i tanti nemici del piacen-
tino, che un po' ostentava la sua miscredenza, apparecchia-
vano '( grazioso loco » nel loro cuore, fu più tardi, dopo la
morte del poeta, ripetuta, avvalorata, e diffusa autorevol-
mente, nientemeno che dal Gioberti. Il quale anzi asserì
d'averne avuto la confidenza orale dal Leopardi medesimo.
In una nota alla Teorica del Sovrannaturale (v. II. p. 352)
ancora si legge:
A proposito delle funeste dottrine professate dal Leopardi, non
sarà forse discaro ai lettori l'intendere ciò che io ho udito dalla sua
bocca, e che può spiegare, fino ad un certo segmo, un traviamento così
straordinario in uno degli ingegni più vasti e più eleganti, e degli animi
più belli, più amabili e più generosi che abbiano ornato da gran tempo
la nostra Penisola. L'incredulità non fu un parto spontaneo della sua
mente, né un frutto immediato de' suoi studi...; e quando gli fu instil-
lata, benché egli già fosse dottissimo ia letteratura, non era egualmente
versato nelle materie che spettano alla religione e alla filosofia. In ap-
presso il Leopardi si diede effettualmente a questi studi, e vi recò l'ar-
dore e la potenza intellettiva che metteva in ogni sua elucubrazione;
ma il sensismo e la miscredenza dominavano allora generalmente
nell'Europa meridionale, e le dottrine del Locke, del Condillac, del
Tracy godevano in Italia di un'autorità irrefragabile, che dovette
confermare il Leopardi nell'indirizzo ch'egli avea ricevuto.
Qui il nome del Giordani si legge tra le righe; ma nella
prima edizione del libro, del '38, l'allusione a lui, e ai suoi
« ma'conforti », era ben più aperta e accusatrice. Vi si diceva:
Il Leopardi era tuttavia fanciulUo, e godeva già di una celebrità
nazionale a causa delle sue facoltà straordinarie, e de' suoi studi pro-
digiosi nelle lettere greche, latine e italiane, che sarebbero bastanti
alla reputazione di un uomo. Un personaggio, a cui l'ingegno, gli scritti
ed il nome davano allora un'autorità grande, lo vide e prese l'assunto
di renderlo incredulo: né penò a riuscirvi per la sua eloquenza, che
doveva aver molta forza sull'immaginazione d'un giovane, il quale
d'altra parte, dottissimo in letteratura...
D'una tal pubblica denunzia, fatta da un uomo della
probità e del credito del Gioberti, ebbe amaramente, e ra-
gionevolmente, a dolersi l'ardente piacentino, in una lettera
all'abate G. F. Baruffi, da Parma, il 24 febbraio 1841. Ac-
cennando all'esule filosofo, egli scrisse:
LE EIVELAZIOKI DEL G30BEETI 81
Egli ha e tutti hanno il diritto di combattere qualunque opinione
gli paia falsa o dannosa. Ma Leopardi fece professione d' incredulità ?
No, mai. Con qual diritto dunque imputargliela ? — Me l'ha confidato
egli. — Sia vero ! benché a me paia poco verosimile, essendo egli ri-
servatissimo. Ma sia: qual necessità o quale utilità di pubblicare una
confidenza amichevole ? — Non può nuocere a tm morto. — E che im-
porta ? Non gli giova nell'opinione presso molti. — Ma quello che è una
calunnia impudentissima è che Leopardi gli abbia detto che io Io sedussi
all'incredulità. No: Leopardi (che sarà stato miscredente, se volete, ma
era galantuomo) non può mai aver detto tal cosa. Non l'avrebbe detta
se fosse vera, molto meno essendo falsissima; perchè mai, mai si è tra
noi parlato di tali cose. E poi, com'è verosimile che Leopardi, persistente
(secondo il prete) nella incredulità, e non pentito, dovesse accusarne
autore o promotore un altro?... Io non cerco la stima né di lui né di
nessuno al mondo, e questo non é neppur l'ultimo de' miei pensieri.
Ma non comporto che mi si attribuisca nessun fatto non vero... Oh
genimina vij)eraruvi\ *.
Che il cantore di A se stesso e della Ginestra, pensatore
nato e ragionatore inesorabile, avesse bisogno dei colloqui
con Pietro Giordani, spirito aperto e siiregiudicato bensì
ma né veramente nutrito di filosofìa né profondo, perchè la
sua mente si disnebbiasse e si ponesse per quella china
che doveva condurlo difilato agli antipodi della morta gora
dove il conte Monaldo diguazzava, è afìermazione o suppo-
sizione che ci moverebbe a riso, se non ci trattenesse il
rispetto dovuto a chi vi credette e la propalò, e il rammarico
pel dolore che ne venne all'accusato. Il Gioberti non era
uomo da millantare una confidenza che non gli fosse stata
fatta, o da arrischiare un'accusa che sapesse calunniosa:
ma egli s'era fatto l'apostolo ardente d'una causa e d'una
fede, a cui riusciva d'impaccio la miscredenza d'un uomo
e d'un poeta come il Leopardi, e può avergli fatto comodo
d'ingrandire e colorire qualche particolare accennatogli da
Giacomo, nella loro conversazione intima. Al De Sinner.
^ La lettera, già edita in un giornale torinese del 1877, fu ristam-
pata da P. ViAXi neìV AjW^ndice all'Epistolario di O. L., p. t.xvttt-
LXix. Il Giordani riconfermò la smentita in un'altra lettera, diretta
al conte Giuseppe Fàcciardi, del 28 aprUe 1845, che si conserva in copia
tra le carte Le Mounier nella Biblioteca Nazionale di Firenze. I due
valentuomini si rappattumarono poi nel 1848. Cfr. Ricordi biografici e
carteggio di V. Gioberti, raccolti per cura di G. Massari, v. II, cap. 12.
6. — G. Leopardi.
82 LA VITA DEL POETA
che per il primo, forse, gli cliiedeva una spiegazione di quella
nota, egli difatto rispondeva (da Bruxelles, 22 agosto 1838):
Io conobbi il Leopardi in Firenze nel 1828, e lo accompagnai In
Recanati sua patria. Egli è in quel piccolo viaggio che mi raccontò
le circostanze della sua conrersione filosofica, com'egli la chiamava, e
siccome sono atte a consolare in parte chi ama la sua memoria senza
approvare le sue opinioni, perciò non ho creduto inconveniente di
farne cenno nella mia nota. Vi siete apposto intorno al nome di quel
certo personaggio, ma siccome egli vive tuttora, ed è in Italia, vi prego
a non far uso di questa notizia, cioè a non indicarlo se non general-
mente, quando vi occorresse di valervi dell'aneddoto. Se desiderate
più particolari, ve li darò con un'altra. Il Leopardi non vi disse se non
è vero, attribuendo a' suoi proprii discorsi, e agli studii l'incredulità
che professava; giacché egli non era uomo da cedere facilmente alle
ragioni degli altri: e se il colloquio col G. valse a seminare lo scetti-
cismo nell'animo suo, e a fargli fare quel primo passo di chi comincia
a mettere in dubbio la fede bevuta col latte e connaturata dall'edu-
cazione, egli non dovette se non ai proprii studii, e all'influenza ine-
vitabile dei sistemi filosofici, che correvano alla giornata, le dottrine
che in appresso professò nelle sue scritture *.
E si badi. Neanche allora, nel novembre del 1828, i due
giovani pensatori (il Gioberti era sui ventisette anni) anda-
vano pienamente d'accordo sulle idee fondamentali della
filosofìa e dell'ontologia; ma a buon conto allora l'abate
torinese non poteva dirsi neanch'egli molto ortodosso. È
venuta recentemente in luce ^ una importantissima lettera
sua al Leopardi, scrittagli da Torino il 2 aprile del 1830; e
in essa, quasi continuando la conversazione di diciassette
mesi innanzi, il Gioberti si fa un dovere di dichiarargli d'aver
' mutate alcune di quelle opinioni che prima teneva ». E
soggiunge :
Ho scoperto, mio Leopardi, che io era in un grave errore, intorno
alla religione. Mi ricordo di avervi significato assai chiaro il mio sen-
timento su questo punto, quando ebbi la buona fortuna di conoscervi,
di trattare con voi alla libera, e godere la vostra conversazione. Io
professava allora un puro teismo, e su di questo in tanto differiva
dalle vostre opinioni filosofiche, in quanto voi tenevate che ogni con-
* Questa lettera fu pubblicata dui Piergili tra i Nuovi documenti
intorno a &'. Z,., p. 2 ss.
* Negli Scritti vari inediti, p. 430 ss.
GLI ACCUSATORI DEL GIOEDANI 83
cetto della mente uinana nasca dalla sensazione, e si contenga in essa,
e io credeva che vi sieno alcuni concetti primitivi, naturali, univer-
sali, che non si possono dedurre dalla sensazione, e riditrre agli elementi
di essa. La discrepanza delle nostre opinioni in ontologia procedeva
in origine, se mal non m'appongo, dal nostro disparere intorno alla
quistione psicologica della generazione, e della natura delle idee...
Per un processo d'idee, che lungo sarebbe a dichiararvi, io fili condotto
ad esaminare di nuovo un'altra questione non molto rilevante...: cioè
la verità del Cristianesimo (e quindi del Cattolicismo, che è la sola
forma invariabile di quello) come sistema dottrinale, e come fatto
storico. Questo esame da me instituito con perfetta imparzialità, e
con tutta la diligenza e attenzione di cui era capace..., mi fece sco-
prire degli aspetti, e delle attinenze del tutto nuove in quegli oggetti
medesimi, ch'erano stati con meno studio disaminati da me altre volte,
e mi aveano guidato a conclusioni contrarie... Questo ho ricavato
di utile da questi studi, che il mutamento d'idee in me operato, e l'ade-
sione intima, schietta, profonda alla Religione cattolica, che ne è stata
la conseguenza, ha partorito in me ima dolce e inusitata quiete e con-
solazione, la quale è per me un nuovo argomento della verità e divinità
di quella.
Che del Giordani, e allora e poi, si fosse tra i due amici
parlato colla dovuta affettuosa veuerazione, mi pare si possa
dedurre e dalF unica lettera del Leopardi al Gioberti che ha
trovato posto nell'Epistolario, dell'aprile 1829, in cui è detto:
« Giordani, al quale ho scritto di voi più volte, vi stima assai
pel molto bene che ha sentito di voi da chi vi conosce »; e
da un'altra del Gioberti al Leopardi, del 4 ottobre 1831, che
finisce: « Salutate i signori Vieusseux e Hocqueda; e se me
ne credete degno, eziandio il sig. Pietro Giordani » ^, Ma
purtroppo anche al piacentino era serbata la sorte che toccò
ai maggiori e più efficaci amici dell'infelicissimo recanatese:
d'esser beneficati dai contemporanei e dai posteri di maldi-
cenza e di calunnia. Non avvenne, o non è forse avvenuto
così ai napoletani Colletta e Ranieri f L'egoismo degl'indif-
ferenti diventa feroce con quei generosi che, col carattere
affettivo, riescon loro di perpetuo, pur se muto, rimprovero;
ed essi se ne vendicano, o calunniando, o prestando facile
orecchio alle altrui calunnie, o additando con compiaci-
^ Anche questa lettera è stata pubblicata negli Scritti vari inediti,
p. 435 ss.
84 LA VITA DEL POETA
mento stizzoso in quei nobili spiriti qualche tacclierella, e
ingrandendola e scandalizzandosene con una sufficenza
da Catoni. È una ben miserabile gioia il far da saccenti e
da scontenti addosso ai magnanimi pochi I E il vero è che,
se non fosse stato il Giordani, il Leopardi, nonostante l'in-
gegno e l'animo singolarissimi, o sarebbe naufragato nella
sua rancida biblioteca provincialesca, o il suo nome di poeta
non avrebbe varcato quei monti azzurri e quel lontano mare,
che il derelitto avrebbe continuato a guardar cod desiderio
d'in su la vetta della torre antica. E se non fossero stati il
Colletta e il Eanieri, la sua favola breve si sarebbe compita
nella tomba recanatese, l'ultima volta ch'ei vi tornò e vi
scrisse Le ricordanze.
Ma lasciamo andare. Certo, non si legge senza nausea e
senza rincrescimento lo sgarbato Pensiero di Gino Capponi,
il candido Gino della Palinodia. « Il povero Leopardi », vi
si dice, « aveva scusa nell'essere gobbo; ma non è forse una
piccolezza il non sapere vivere gobbo ? Avrebbe saputo (per-
chè nell'anima sua e nell'ingegno era del grande), se il Gior-
dani e tutto il secolo dei letterati di quella scuola {saecla
jerarum) non gli avessero contro suo genio messa addosso
una sciaurata filosofìa ». Non adusato alla contradizione, il
Marchese, « beata prole mortai », non era mai riuscito a
mandar giii l'amaro boccone di quei versi conditi d'aloe
del povero « gobbo » ! ^
* Nel volume degli Scritti vari inediti, p. 503 ss,, è venuta in luce
la lettera del Capponi al Leopardi, da Varramista, 21 novembre 1835,
con la quale il Marchese ringraziava a mezza bocca, e con molte ri-
serve, della dedica di « quei nobili versi ». — Il Pensiero, su riferito,
ha il numero XVIII, ed è pubblicato tra gli Scritti editi ed inediti di
di O. Capponi, v. II, p. 445.
LO ZIO ANTICI 85
XI.
Giacomo esce finalmente del nido. — I buoni uffici dello zio
Carlo Antìci. — A Boma, nelV inverno 1822-1823. — - Il
Canova e la zia Ferdinanda. — L'interessamento del
Niehuhr. — Ritorno a Becanati. — L'invito del Yieusseux
a collaborare nelVn Antologia ».
Rimettiamoci in via, dopo lo sfortunato tentativo di fuga.
Nell'autunno del 1822, a Giacomo, più che mai malan-
dato in salute, fu finalmente concesso d'uscire del borgo
odiato, per recarsi a Eoma, e passarvi l'inverno in casa
degli zii Antìci.
Fin dal 1813, il marchese Carlo Antìci, fratello della con-
tessa Adelaide, aveva esortato Monaldo a mandargli il ni-
pote, perch'ei potesse un po' divagarsi dagli studi. Gli scri-
veva (15 luglio 1813), con quel buonsenso elementare di
cui cognato e sorella mancavano:
Il troppo assiduo studio è stato sempre fatale alla durata della
vita, e specialmente quando s'incomincia nell'adolescenza... Se Giacomo
interrompesse la sua logorante applicazione con l'esercizio delle arti
cavalleresclie, cesserebbero i miei timori. Ma quando veggo e so che
il suo lungo e profondo studio non è interrotto che da qualche seden-
taria rappresentazione di cerimonie ecclesiastiche, io mi sgomento
col pensiero che avete voi un figlio ed io un nipote di animo forte e di
corpo gracile e poco durevole... I progressi poi che il giovane esimio
fa nella scienza, vi debbono consigliare di doverlo trasportare da qui
a non molto in luogo, dove uomini sommi per dottrina e per carattere
dieno colle istruzioni e col circolo un pascolo adeguato a quell'animo.
Io trovo che in tutti gli aspetti nessima città del mondo offre agli studi
ed alle inclinazioni di Giacomo tanti immensi vantaggi, quanti questa
antica Regina « sempre ne' casi suoi degna d'impero ». Se la Provvi-
denza dispose che per qualche altro anno una porzione della mia ia-
miglia continui a vivere qui, ascriverò a mia fortuna e consolazione
di avere in casa come un figlio il vostro Giacomo... Datemi speranza
di farlo, e con essa già mi rallegrerete.
E insisteva, con commovente premura (7 agosto):
86 LA VITA DEL POETA
Non vi fate vincere dall'eccessivo genio del vostro, o per dir meerlio,
del nostro Giacomo allo studio. Scuotetelo a suo dispetto, conser-
vate, invigorite la sua salute con esercizi corporali... Ma vi ripeto, non
lasciate sotto al moggio quella lucerna *: mandatelo presto a Roma, dove
specialmente nelle scienze, alle quali più inclina, potrà in breve tempo
giganteggiare. Se la separazione vi duole, il dovere di padre lo esige *.
Ma Monaldo, un pò" per malinteso affetto, assai più per
egoismo, moltissimo per paura della moglie, non aveva ac-
consentito. Il 22 luglio (1813) aveva risposto, ancora con
qualche esitazione:
Dite benissimo rapporto alla troppa applicazione del mio Giacomo.
Io ne lo riprendo continuamente, ma egli si è fatto talmente allettare
dallo studio, che nulla gusta più fuori dei libri, e mi conviene pren-
dere il tono serio per distaccamelo. Convengo ancora che qualche
anno di Roma lo renderebbe quello che non può divenire in Recanati,
anzi aggiiingo che avendo collo studio e col profitto prevenuta l'età,
sarebbe quasi tempo già di mandarvelo; ma questo è per me un tasto
troppo sensibile. Privandomi di lui, mi priverei, nella mancanza vo-
stra, dell'unico amico che ho e posso sperare di avere in Recanati,
e non mi sento disposto a questo sacrificio. S'egli poi gustasse una
capitale, e ne facesse confronto con questa terra di relegazione e di cecità,
non saprebbe più viverci contento. Lasciamo al tempo il suggerire
le risoluzioni opportune; ma per ora il mio sentimento è ch'egli sia meno
dotto, ma sia di suo padre, e possa vivere tranquilllo e lieto nel paese
in cui lo ha collocato la Provvidenza. Intanto rimango penetrato dalla
vostra cordialità, e vi accerto che voi sareste l'unica persona cui afiì-
derei questo oggetto per me carissimo, e che, se potessi adattarmi
a separarmene, ve lo affiderei fin d'ora senza esitanza, quantunque
non senza opposizione di mia moglie.
Ma pili tardi, il 21 dicembre, egli assume un'aria risoluta
di diniego.
' L'immagine è tratta dai Vangeli. In quello di Matteo, V, 15:
« Neque accendunt lucernam et ponunt eam sub modio, sed super
candelabrum, ut luceat omnibus qui in domo sunt ». E in quello di
Marco, IV, 21: « Et dicebat illis: Nunquid venit lucerna, ut sub modio
pouatur aut sub lecto ? nonne ut super candelabrum ponatur ? ». E
cfr. Luca, XI, 33. — Ad ogni modo, lucerna non fiaccola ! Cfr. F. Ra-
MORixo, Fiaccola sotto il moggio, o lucerna?, nella « Rassegna Nazionale »
del 16 febbraio 1906.
* Queste lettere sono state piibblicate dall'Avòu, nell'Appendice
SiìV Autobiografia di Monaldo, p. 278 ss., n.
GIACOMO A ROMA (18221
Non mi sento ancor di>posto a mandare in Roma il mio amatis-
simo Giacomo. Lasciamo stare che il mio cuore ne soffrirebbe indicibil-
mente, e che io rimarrei più desolato che mai; perchè alla fine, se fosse
proprio necessario di mandarlo, dovrei rassegnarmi a qualunque sa-
crificio. Ma io sono più che persuaso che la salute non gli permette
troppo lunga assenza da sua casa, dove non gli manca niun comodo,
e può dare sfogo alla sua passione di studiare. Assicuratevi che la fe-
licità di Giacomo è tutta nello studio, e qui può attendervi meglio
che altrove.
Sennonché sei anni dopo, quando i fatti dimostrarono elie
purtroppo le predccTipazioni dèlio zio non erano infondate, e
Monaldo, pur senza che lo confessasse, dovette convincersi
che la sua cocciutaggine aveva prodotti mali iiTeparabili,
ai dtie cognati fu piti facile mettersi d'accordo dinanzi alla
pietà di quella vittima innocente. Il giovanetto scriatello,
ferito a morte nell" anima e nel corpo, s'era audacemente
atteggiato a ribelle; e la sua levata di scudi era pur valsa a
incuter rispetto I Trovandosi, nell'autunno del 1822, gli
Antìci a Recanati, il marchese Carlo ritentò dunque la prova
d'aprir gli occhi e di scuoter 1" egoismo di quei genitori, ti-
ramù e carnefici incoscienti; e questa volta ci riuscì. 11 17
novembre, la comitiva si mise in via per Roma. Giacomo fu
accompagnato allo zio Girolamo, soiferente d'emicrania: la
loro era una specie di carrozza d'ambulanza 1 E mentre il
resto proseguiva direttamente per la capitale, essi fecero
una breve sosta a Spoleto.
AUa città eterna giunsero il 23 novembre (1822). Ma quale
di^^inganno! Il 25. Giacomo scriveva al fratello Carlo:
Se tu credi che quegli che ti scrive sia Giacomo tuo fratello, t'in-
ganni assai, perchè questi è morto o tramortito, e in sua vece resta
lina persona che a stento si ricorda il suo nome... Delle gran cose che
io vedo non provo il menomo piacere, perchè conosco che sono mara-
vigliose, ma non lo sento, e t'accerto che la moltitudine e la grandezza
loro m'è venuta a noia dopo il primo giorno... Durante il viaggio ho
soft'erto il soffribile... In somma io sono in braccio di tale e tanta malin-
conia, che di nuovo non ho altro piacere se non il sonno: e questa ma-
linconia, e l'essere sempre esposto al di ftiori. tutto al contrario della
mia antichissima abitudine, m'abbatte ed estingue tutte le mie facoltà
in modo ch'io non sono più buono da niente, non ispero più nulla,
voglio parlare e non so che diavolo mi dire, non sento più me stesso,
e son fatto in tutto e per tutto una statua... Senti, Carlo mio, se pò-
88 LA VITA DEL POETA
tessi esser con te, crederei di potere ancora vivere, riprenderei un poco
di lena e di coraggio, spererei qualche cosa, e avrei qualche ora di pon-
solazione. In verità io non ho compagnia nessuna : ho perduto me stesso ;
e gli altri che mi circondano, non potranno farmi compagnia in etemo.
Scrivimi distesamente... Amami, per Dio. Ho bisogno d'amore, amore,
amore, fuoco, entusiasmo, vita: il* mondo non mi par fatto per me: ho
trovato il diavolo più brutto assai di quello che sì dipinge. Le donne ro-
mane alte e basse fanno propriamente stomaco ; gli uomini fanno rabbia
e misericordia. Ma tu scrivimi e amami... Addio, caro ex carne mea.
E scrivendo alla Paolina, il 3 dicembre, completava co-
desto fosco quadro.
Il più stolido Recanatese ha una maggior dose di buon senso che
il più savio e più grave Romano. Assicuratevi che la frivolezza di queste
bestie passa i limiti del credibile... Il materiale di Roma avrebbe vin
gran merito se gli uomini di qui fossero alti cinque braccia e larghi
due. Tutta la popolazione di Roma non basta a riempire la piazza di
San Pietro... Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a
moltiplicare le distanze, e il numero de' gradini che bisogna salire per
trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade
per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini,
invece d'essere spazi che contengano uomini. Io non vedo che bellezza
vi sia nel porre i pezzi degli scacchi della grandezza ordinaria sopra
uno scacchiere largo e lungo quanto codesta piazza della Madonna.
Non voglio già dire che Roma mi paia disabitata; ma dico che se gli
uomini avessero bisogno d'abitare cosi al largo, come s'abita in questi
palazzi, e come si cammina in queste strade, piazze, chiese, non ba-
sterebbe il globo a contenere il genere umano.
Peggio che peggio quanto a cultura. Di questa dà conto
al padre, al letterato, il 9 dicembre.
Quanto ai letterati..., io n'ho veramente conosciuto pochi, e questi
pochi m'hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono
d'arrivare all'immortalità in carrozza, come i cattivi cristiani al pa-
radiso. Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e
vera scienza dell'uomo, è l'Antiquaria. Non ho ancora potuto cono-
scere un letterato romano che intenda sotto il nome di letteratura
altro che l'Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore
umano, eloquenza, poe-ia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e
par un giuoco da fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di
rame o di sasso appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa. La bella
è che non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino o
il greco; senza la perfetta cognizione delle quali lingue, Ella ben vede
che cosa mai possa essere lo studio dell'antichità. Tutto il giorno ciar-
IL CANOVA E LA ZIA FERDINANDA 89
lano e disputano, e si motteggiano ne' giornali, e fanno cabale e par-
titi; e così vive e fa progressi la letteratura romana ^
Povere mura ed archi e colonne e simulacri, sognati e
vagheggiate nella solitudine di Recanati ! Ohimè, l'infelicità
ei la sentiva in sé e attorno a sé oramai, da per tutto; e il
sospiroso poeta la ritrovava anche oltre i monti azzurri del
suo Piceno, come l'avrebbe ritrovata anche di là da quel
lontano mare, che una volta aveva contemplato con tanto
desiderio dalla prigione paterna I II 28 gennaio 1823 così
confortava la sorella, anch'essa impaziente della clausura
recanatese :
La felicità umana è im sogno; il mondo non è bello, anzi non è
sopportabile, se non veduto come tu lo vedi, cioè da lontano ; il pia-
cere è un nome, non una cosa; la virtù, la sensibilità, la grandezza
d'animo sono non solamente i.e uniche consolazioni de' nostri mali, ma
anche i soli beni possibili in questa vita; e questi beni, vivendo nel
mondo e nella società, non si godono né si mettono a profìtto, come
sogliono credere i giovani, ma si perdono intieramente, restando l'animo
in un vuoto spaventevole... La felicità e l'infelicità di ciascuno uomo
(esclusi i dolori del corpo) è assolutamente uguale a quella di ciascun
altro, in qualunque condizione o situazione si trovi questo o quello. E
perciò, esattamente parlando, tanto gode e tanto pena il povero, il
vecchio, il debole, il brutto, l'ignorante, quanto il ricco, il giovane, il
forte, il bello, il dotto: perchè ciascuno nel suo stato si fabbrica i suoi
beni e i suoi mali; e la somma dei beni e dei mali che ciascun uomo
si può fabbricare è uguale a quella che si fabbrica qualunqu'altro.
Un mese avanti che arrivasse in Roma, v'era morto An-
touio Canova, ch'egli tanto aveva desiderato di conoscere;
e morta era pure, il 31 agosto, quella buona zia Ferdinanda,
maritata Melchiorri, che dei parenti era quella che piti e
meglio gli somigliava e lo amava. Giacomo se ne rammarica
col Giordani (1° febbraio).
Che ti dirò di Canova ? Vedi ch'io son pure sfortunato, come soglio,
poiché quando aveva pure ottenuto, dopo tanti anni e tanta dispera-
zione, d'uscire dal mio povero nido e veder Roma, il gran Canova, al
quale principalmente era volto il mio desiderio, col quale sperava di
^ Cfr. anche le lettere: a Carlo, 16 dicembre; al Giordani, 1° feb-
braio 1823; al Vieusseux, 2 febbraio 1824; al Papadòpoli, 19 dicembre
1825.
90 LA VITA DEL POETA
conversare intimamente e di stringere vera e durevole amicizia col
mezzo tuo, appena un mese avanti il mio arrivo in questa città piena di
lui, se n'è morto. E la morte ha preso anche piacere d'uccidermi, quasi
svd punto della mia mossa, alcuxie altre persone ch'erano qui, e che
rivedendomi fuor d'ogni speranza loro e mia, si sarebbero rallegrate
assai per l'affetto che mi portavano, ed io mi sarei confortato di ve-
derle e di star con loro.
Tuttavia, a Roma fece una conoscenza preziosa: del
Ministro di Prussia, ch'era nientemeno che l'insigne storico
dell'antica Roma, il danese Xiebuhr. Per un certo artico -
letto filologico^ da lui pubblicato colà, nelle Effemeridi lette-
rarie del dicembre 1822 ^, questi desiderò di parlargli; e
Giacomo narra la sua visita, al fratello, il 12 marzo 1823.
Sono stato da lui: m'ha detto che questo è il vero modo di trat-
tare la filologia; ch'io sono nella vera strada, che mi pregava calda-
mente a non abbandonarla, che non mi spaventassi se l'Italia non mi
avrebbe applaudito, perchè tutti gl'Italiani sono fuor di strada; che
non mi sarebbe mancato l'applauso degli stranieri, ecc. Ha preso spon-
taneamente l'impegno di fare stampare in Germania quello ch'io ho
scoperto o fossi per iscoprire nelle Biblioteche di Roma: insomma mi
ha mostrato tanto interesse, che, sentendomi necessitato a partire di
qua in breve, m'ha domandato se non accetterei volentieri qualche
impiego.
Ma si era nello Stato papale, e gli ufficiali del Governo
avrebbero dovuto indossarne la livrea, come diceva Monaldo.
E qui il Leopardi impuntava. Il Xiebuhr, qualche giorno
dopo, gli scrisse, « colla maggior gentilezza e premura pos-
sibile », d'aver parlato col Segretario di Stato, ch'era il car-
dinal Consalvi, e d'averlo trovato ben disposto: condizione
però necessaria, tenuto conto della sua « avversione al sa-
cerdozio », di prendere almeno «l'abito di Corte»! Giacomo,
informandone il fratello, concludeva (22 marzo):
In somma, è quasi certo che s'io avessi voluto farmi prelato, tu
fra poco avresti sentito che tuo fratello in mantelletta se n'andava a
governare una provincia... Io mi diedi un'occhiata d'intorno, e con-
chiusi di non volerne saper niente.
Notae in M. T. Ciceronis De Republica quae supersunt...
Cfr. F. MORONOiN'i, Studio sul L. filologo; Napoli 1891, p. 21.3 ss.
l'invito del vieusseux 91
E così, alla fine dell" aprile 1823, gli convenne lasciar
Roma. La sera del 3 maggio, rientrò nel borgo natio: 'c nel
mio bel Eecanati », scrisse il giorno dopo, e giova credere,
senza intenzioni ironiche. Ma subito gli ripiombò suU'anima
la tristezza inesorabile. Quella solitudine e quella mono-
tonia lo accasciavano. « Ma vie est plus uniforme que le
mouvement des astres, plus fade et plus insipide que les
parole de notre Opera », scriveva il 23 giugno al signor
A. Jacopssen di Bruges, un amico che aveva conosciuto in
Roma. E il 4 agosto dichiarava al Giordani, « caro angelo,
cara e celeste anima, carissimo e santo e divino amico »,
che quella « sepoltura » ora gli riusciva « alquanto più mo-
lesta di prima », per la minore libertà che gli era permessa,
e per « la presenza degli uomini, de' quali », diceva, « non
so piii che fare»: fastidiosa sempre questa, ma '«molto
più nelle città piccole, e massimamente nella patria, che
nelle capitali, dove altri può vivere anche nel mezzo delle
piazze come in un deserto ».
Il Giordani, trovandosi in Firenze, gli offerse di colla-
borare TieìV Antologia del Vieusseux. « Tu che hai il più raro-
ingegno che io mi conosca », gli scriveva il 5 novembre 1823,
(( e tanto sapere che appena è credibile, potrai farti cono-
scere cosi stupendo come sei, in questo giornale, che è il
solo che abbia credito; e tu facendo onore a te e all'Italia,
che ugualmente adoro, mi darai una grandissima consola-
zione ». Qualche mese dopo, il 15 gennaio 1824, il Vieusseux
medesimo lo pregò di « rendervi conto di tale o tale opera
nuova venuta alla luce in qualche parte d'Italia, e che ne
meritasse la pena; ma piìi particolarmente d'imprendere a
trattare delle novità scientifiche e letterarie dello Stato pon-
tifìcio ». Ah sì ch'eran cose possibili a Recanati codeste !
« Io vivo qui segregato dal commercio », lamenta il Leo-
pardi rispondendo, il 2 febbraio, « non solo dei letterati, ma
degli uomini, in una città dove chi sa leggere è un uomo
raro, in un verissimo sepolcro, dove non entra un raggio di
luce da niuna parte, e donde non ho speranza di uscire ».
92 LA VITA DEL POETA
XII.
Giacomo a Milano e a Bologna (1825-1826). — L'interes-
samento del Bunsen. — Il freddo di Bologna. — L'invito
alle Università di Berlino e di Bonn.
Il raggio di luce s'annunziò ai primi di marzo del 1825.
Il tipografo milanese A. F. Stella richiese Giacomo del suo
« dotto e sincero parere » intorno a una divisata ristampa
delle opere di Cicerone con a fronte le migliori traduzioni
italiane. Il Leopardi enumerò le gravi difficoltà dell'im-
presa: prima fra tutte, quella di dare un buon testo. Or co-
desta parte ei sarebbe stato pur disposto ad assumersela;
« ma in tanta lontananza, e in una città priva affatto di Libri
moderni, massimamente in materia filologica, io non posso »,
egli insinua timidamente (1.3 marzo), «neppure indicarle in
particolare i fonti che io preferirei ». L'onesto editore non
s'aspettava forse tanto; e con cordialità e risolutezza lom-
barda gli rispose a volta di corriere, il 30 aprile:
La carissima Sua del 13 marzo mi ha riempiuto di riconoscenza e ^
di confidenza insieme: onde con aperto animo Le dico che se dalla Sua
volontà dipendesse il lasciare per qualche mese la patria, e non Le di-
spiacesse di trasferirsi qui, per dimorar qui tutto quel tempo che si
richiedesse per incamminar bene l'impresa mia, senza pensar Ella a
spesa alcuna, Le scriverei subito: Venga, e venga subito, che sarà rice-
vuta da me colle braccia aperte e festeggiata da molti.
Così, dopo poco più di due anni di nuova prigionia, a
Giacomo era permesso di tornare a uscir di Recanati. È
vero : di salute stava « sempre peggio », e specialmente lo
scrivere gli era di « gran fatica » (24 maggio); ma il viaggio lo
avrebbe guarito ! E parti che « era in una tal debolezza di
corpo, che l'anima non aveva forza di considerar la sua si-
tuazione » ; e montò « nel legno con un sentimento di cieca
e disperata rassegnazione, come se andasse a morire, o a
qualche cosa di simile, mettendosi tutto in mano al destino ».
GIACOMO A BOLOGNA (1825) 93
Giunse a Bologna il 18 luglio, « stanco ma sano ». Vi fu
accolto molto bene: erano ad aspettarlo il Giordani e il Bri-
ghenti. La città gli parve « quietissima, allegrissima, ospi-
talissima »; così ch'ei riprese « di mala voglia » il cammino
per Milano. Ove mise piede la sera del 30 luglio. La grande
e gaia metropoli non era fatta per lui. « Chi ama il diverti-
mento », scrisse a Carlo, il quale per conto suo l'amava,
« trova qui quello che non potrebbe trovare in altra città
d'Italia, perchè Milano nel materiale e nel morale è tutto
un giardino delle Tuilleries; ma tu sai quanta inclinazione
io ho ai divertimenti». Vi si sentì solo; anche perchè chi
mai rimane d'agosto a soffocare in Milano ? « Monti è ora
a Como; Zaiotti, Compagnoni, e quasi tutti gli uomini di
valore sono in villa »; onde scriveva al Brighenti r8 agosto:
Qui mi trovo malissimo e di pessim^issima voglia. Pochi letterati
ho conosciuto, e non mi curo di vederli per la seconda volta. Sospiro
per Bologna, dove certamente o presto o tardi ritornerò per fermarmici
stabilmente.
Lasciò Milano il 26 settembre, e la mattina del 29 rien-
trava nella sospirata Bologna. Ma ora, costretto per vi-
vere a dar lezioni private di greco e di latino, sente l'at-
trattiva dei comodi di casa sua; e quasi si lascia prendere
alle seduzioni delle lettere paterne. Ma Carlo si affretta a
scongiurarlo (6 ottobre): « Xon ti fare spingere da qualsi-
voglia malinconia a relegarti in Eecanati, perchè mi sembra
una delle poche cose che meritano compianto, il dover di-
morarvi ». E la Paolina, carezzevolmente:
Il dirti quanto io ti amo, e quanta smania e impazienza è in me di
rivederti, è inutile, poiché te lo immaginerai bene; e tutte le notti
ti vedo in sogno, e mi par proprio di guardarti, di esaminarti, di aspet-
tare ansiosamente che tu mi faccia quei racconti di cui mi parlavi, e
che mi promettesti in un'altra tua; ed ogni cosa mi richiama in casa
la tua memoria, e mi ti fa tanto più regretter, quanto meno speranza
ho di vederti. Pure a Recanati non ti vorrei vedere giammai.
Non saprei dire se lettere come queste giovassero ad attu-
tire o invece a far più pungenti gli stimoli della nostalgia.
Certo, Giacomo risponde ai fratelli come un innamorato
in esilio (10 ottobre).
94 LA VITA DEL POETA
Carluccio mio, mi vengono le lagrime agli occhi scrivendo il tuo
nome. Chi ti potrebbe dire quanto io t'amo, e quanto mai smanio di
ribaciarti! Io parlo di te più frequentemente che posso... Xessun'ami-
cizia sarà mai e poi mai uguale alla nostra, ch'è fondata in tante ri-
membranze, che è antica quanto la nostra nascita, che se uno di noi
domandasse all'altro tutto il suo sangue, questo sarebbe prontissimo
a darlo, e quello già certissimo di ottenerlo... Carluccio mio, scrivimi.
Io t'abbraccio; t'amo quanto i miei occhi...
Paolina mia, tu scrivi colla tua solita sensibilità, e mi consoli in
tre modi: perchè mostri di volermi tanto bene, perchè mi persuadi
che la sensibilità si trova al mondo, perchè risvegli la mia, ch'è pur
troppo addormentata, come tu sai, non verso te in particolare, ma
verso tutto l'iiniverso. Se tu pensi a me in Recanati, non credere ch'io
sia tanto distratto in Bologna., e fossi anche in Parigi, ch'io non pensi
a te ogni giorno. A proposito di Parigi, sappi ch'io sono venuto da
Milano a Bologna con tre Francesi, e da Bologna a Milano era andato
con due Inglesi. Vedi quanta materia di osservazioni e di racconti per
le nostre serate d'inverno I...
Il gran problema era di trovar da vivere in Bologna, senza
affaticarsi piìi di quanto la sua gracile e cagionevolissima
persona comportasse. Il Xiebuhr, ch'era partito da Roma,
s'era mantenuto sempre in corrispondenza con lui, e non
aveva mai smesso il pensiero di trovar un modo di giovargli.
Lo raccomandò anzi vivamente al successore, il barone
C. C. G. Bunsen ^. Il quale, con commovente e instancabile
assiduità, sollecitò dapprima, sullo scorcio del 1823, dal go-
verno pontifìcio, pel contino recanatese, l'ufficio di Cancel-
liere del Censo a Urbino ; ma non ottenne che belle promesse.
Nei primi mesi del '25, ritentò la prova; e con accorgimento
di vero diplomatico, pose sotto gli occhi del Cardinale segre-
tario di Stato un articoletto dell'invisa Antologia fiorentina,
in cui il Giordani, il '< Capaneo dell'ateismo italiano», ac-
cennava al Leopardi con parole d'infinita benevolenza e
ammirazione. Che pericolo lasciar codesto dottissimo e valo-
rosissimo, ma sprovvisto suddito pontificio, esposto alle se-
duzioni di quegli astuti liberali'.... Il Cardinale ringraziò, e
s'offerse di fornirgli i mezzi di compiere qualche opera
'< che, mentre provvedesse alla sua gloria nell'età futura,
* Cfr. D'Ovidio, Lettere inedite di L. a Bunsen, nei Saggi critici,
Napoli 1878, p. 16 ss.
l'interessamento del bunsen 95
riunisse ima pubblica utilità»: s'intende che essa avrebbe
dovuto avere « una stretta relazione colla religione ->. Il
Leopardi propose un'' A nfoìogi a Platonica, nella quale, per
combattere il rude materialismo clie allora infestava l'Italia,
avrebbe raccolto, tradotti in ischietta lingua italiana, molti
pensieri di Platone, accompagnandoli con preamboli e com-
menti. Ci voleva altro I Di codesta opera non si fece pili
nulla; e nemmeno di quell'altro sperato ufficio, che sarebbe
stato una beata sinecura, di Segretario dell'Accademia di
Belle Arti in Bologna.
L'ottimo Bunsen non si diede per vinto, e concepì un
diseguo diverso: far chiamare il Leopardi in Roma, per oc-
cuparvi una « cattedra combinata di eloquenza greca e la-
tina nella Sapienza», che si sarebbe istituita a posta per
lui. Veramente a quel poveretto la proposta non sorrideva
gran che; e al suo protettore faceva timidamente osservare
(24 ottobre):
che da una parte il soggiorno di Roma, specialmente nell'estate,
è poco adattato al mio temperamento, e alla mia salute assai debole;
dall'altra parte, che una cattedra non so quanto mi potrebbe conve-
nire per due ragioni, l'una fisica, cioè la grandissima debolezza del
mio petto, l'altra morale, cioè la mia poca attitudine a trattare con
una scolaresca, sempre insolente, attesa la timidità naturale del mio
carattere.
E dire che non usavano ancora laggiii gli scioperi per
la terza sessione d'esami, e i tumidti annuali per Giordano
Bruno ! Ma poi, gii emolumenti annessi alle cattedre romane
erano così tenui: noii più di duecento scudi all'anno! Tut-
tavia, un improvviso rincrudimento del freddo bolognese
gli fece vincere ogni titubanza. « Oggi stesso », scrive al
fratello il 28 ottobre, <; rispondo ed accetto; al che mi muove
anche il bestialissimo freddo di questo paese, che mi ha
talmente avvilito da farmi immalinconichire e disperare ». E
al Bunsen osa chiedere che gli faccia « somministrare qualche
somma sufficiente al viaggio » : ei si trovava in gravi « stret-
tezze ». Il valentuomo s'affrettò a mettere a sua disposizione
quanto potesse occorrergli; ma codesta risposta non ebbe
nemmeno n tempo d'arrivare a Bologna, che già il Leopardi
aveva mutato proposito. Erano sopravvenuti l'estate di
96 LA VITA DEL POETA
san Martino, il Giordani, e una curiosa lettera di Monaldo.
In questa si diceva (29 ottobre):
... da Roma vi offrono una cattedra, ed una speranza di farvi vice-
presidente della Università. Di quest'ultima cosa, che sarebbe pure
qualche cosa più del volgare, non abbiate alcima lusinga, perchè Roma
dà solamente ai temerari ed agl'importuni, e voi, non essendo l'uno
né l'altro, non la avrete. Credo che potrete contare sulla prima, perchè
piccola, perchè la temerità non basta a sostenerla, e perchè infine
hanno essi più bisogno di darla che voi di riceverla... Quanto a me...
sceglierei meglio ima capanna, un libro e una cipolla in cima a un
monte, che un impiego subalterno in Roma, dove chi non è prelato o
avvocato, è niente; e dove credo che tutti gli altri impieghi sappiano
di staflBeri, e quelli che li sostengono debbono essere gli umilissimi,
adulantissimi servitori di tanti asini vestiti da abati, che, incassando
la testa in collare rosso o pavonazzo, hanno acquistata l'infusione di
tutte le scienze. Uno per altro, il quale non possa o non abbia piacere
di restringersi alla vita domestica, deve pensare prima di ricusare un
impiego, che in qualunque modo lo lega al Governo; e ad un Governo
che si fa un dovere di pelarci per mantenere e pensionare in vita i suoi
impiegati, ancorché lo abbiano servito un giorno e assassinato un
secolo.
Giacomo rimase a Bologna, ma in condizioni di salute e
di finanze sempre peggiori. 11 caldo di Milano aveva determi-
nati in lui mali insanabili; e i due suoi scolari lo avevano ora
abbandonato. Sperava tuttavia nel Segretariato delle Belle
Arti: un'occupazione che si riduceva « a tener certi registri,
e a fare una volta all'anno un discorso che poi si stampa »
(4 dicembre); e il Bunsen non si stancava d'insistere per
ottenerglielo. Intanto metteva a sua disposizione, presso
un banchiere di Bologna, una somma, perchè ei se ne
giovasse occorrendo. Ma il buon Giacomo si guardò bene dallo
stendervi mai le mani. — Ed eran questi i tempi in cui la
contessa Adelaide reputava che la letteratura fosse, pel
figlio lontano, una miniera d'oro!
Chi valse a sollevare in parte una tanta miseria fu an-
cora una volta il bravo Stella, che propose al Leopardi di
raddoppiargli l'onorario mensile (da 10 scudi a 20), perchè
ei potesse meglio attendere al commento del Petrarca e alla
traduzione dei Moralisti greci. « Ci pensi », terminava una
sua lettera del 3 dicembre, « e pensi ancora ch'io Le parlo col
cuor di padre ». Giacomo rispose con cuore di figlio, accet-
L INVITO OLTRALPI
tando, E così continuò a trascinare avanti, alla men peggio,
la penosissima esistenza. Il freddo s'era fatto intenso e in-
sopportabile; e per le sue condizioni fìsiche, l'inverno già
per sé solo era « una malattia grave ». Kicorrere a medici
valenti non poteva, non avendo di che pagarne le visite.
Gli era vietato « l'uso del fuoco », e pei suoi acciacchi non
poteva né camminare né star molto in letto. « Sicché », con-
cludeva il 25 gennaio 1826, « dalla mattina alla sera non
trovo riposo, e non fo altro che tremare e spasimare dal
freddo, che qualche volta mi. dà voglia di piangere come un
bambino ». Per ripararsi e riscaldarsi alla meglio, egli, rac-
contò poi il Brighenti, « si era fatto fare una specie di sacco
imbottito malamente di piuma; dentro il quale, studiando,
stava delle mezze giornate, e ne usciva poi tutto pieno di
peluia o lanugine, che pareva l'uomo salvatico ». È facile
immaginarne lo stato d'animo! «La malinconia», scrive al
fi'atello il 6 gennaio, « che spesso mi prende qui come a Ee-
canati, ha ora per me un carattere più nero di prima, e rare
volte ne risulta una certa allegria interna, come spesso mi
accadeva costì. Sento che sono senza appoggio e senza
amore ».
Ma non era senza protettori. Il Bunsen non sapeva darsi
pace che il Governo papale lasciasse morir di miseria e di
freddo l'itaUano più dotto del secolo. E indignato per tante
subdole tergiversazioni, scriveva al Niebuhr: « È un vero or-
rore I Leopardi ed io siamo stati menati per il naso ! Buone
parole, promesse in iscritto; e tutto come prima !... Oh perchè
non sono io ricco I Entro un mese Leopardi dovrebbe aver
passate le Alpi I » ^, Anche il Xiebuhr aveva pensato a questo ;
^ Il Governo romano non lasciò mai trapelare le ragioni vere di
quegl'infingimentì. Esse son vennte in luce solo di recente. Il cardinal
Galeffi, allora Camerlengo, aveva presentata al Papa, Leone XII Della
Genga, il 21 novembre 1825, una sua Relazione, in cui, tra l'altro, di-
ceva che, « informatosi dell'indole e della condotta del Leopardi, era
venuto a conoscere essere egli in vero dotato di molta dottrina, mas-
sime nelle lettere greche ed italiane, e d'un ingegno veramente grande
e straordinario, ma esservi al tempo stesso motivo di dubitare della
rettitudine delle sue massime, sapendosi essere egli molto amico ed
7 — G. Leopardi.
98 LA VITA DEL POETA
e il 9 marzo del "25, potè scrivere da Berlino d'avere colà
preparate le cose in modo da far invitare da quella Univer-
sità il Leopardi, per insegnarvi letteratura italiana. Il
Bunsen riprende l'idea dell'insegnamento in Germania, sia
poi a Berlino o a Bonn; e il Leopardi gli risponde, il 1° feb-
braio 1826:
Il mio affare, di cui Ella mi parla colla solita Sua bontà ed affe-
zione, è una nuova prova del quanto poco, anzi nulla, ci possiamo noi
confidare in questo nostro Governo gotico, le cui promesse più solenni
vasrliono meno che quelle di un amante ubbriaco. La idea che Ella mi
propone di una cattedra in Berlino o in Bonn, è tale, che io L'assicuro
che niun'altra mi potrebbe riuscir più grata e lusinghiera. Ma sven-
turatamente ora la mia povera salute è in uno stato cosi tristo, che
io non ardisco fermare il pensiero in una proposizione che del resto
mi sarebbe giocondissima. Crederà Ella che appena io posso soppor-
tare l'inverno in Bologna, e che passo questi giorni in un continuo spa-
simo e in un tormento indicibile, cagionato dalla mia n^alattia d'in-
testini, che dal freddo riceve un grandissimo pregiudizio ? Or che sa-
rebbe nei climi di Germania ? Tuttavia, la mia guarigione non essendo
punto disperata, ed i medici promettendomi che a primavera io sarò
ristabilito e migliorato assai, La prego caldamente a non abbandonare
l'idea di cui Ella mi ha parlato, la quale credo che non esiga fretta, e
che possa sopportar dilazione.
Ah sii l'agognata guarigione non venne mail E l'amma-
latissimo dovè anche rifiutare l'invito, che il Bunsen me-
desimo gli fece più tardi (5 giugno 1828) da parte dell'Uni-
versità di Bonn, non piìi d'andare a occuparvi una cattedra
di filologia classica, bensì di letteratura dantesca, con lo
stipendio di 1500 talleri (circa 7500 delle nostre lire): una
ricchezza neppur sognata I « Là a Bonna, in un clima eguale
a quello di Verona, con un inverno dove la temperatura
non iscende che raramente sotto 4^ di Réaumur, quando
fa freddo, Ella », soggiungeva riconfortando e blandendo
l'insigne diplomatico, <' sarebbe circondata e di amici dotti o
intrinseco di persone già note per il loro non savio pensare, e avendo,
benché con molta astuzia, fatti trapelare i suoi sentimenti assai favo-
revoli alle nuove opinioni morali e politiche in Odi italiane da lui stam-
pate l'anno trascorso in Bologna ». Cfr. Carlo Bandini, Il Leopardi
alla ricerca d'impiego, nella « Rassegna Nazionale » del 16 ottobre 1902.
A BOLOGNA, LA PRIMAVERA 1826 99
di una turba studiosa, desiderosa di vedere ravvivata la
Cattedra di Dante al di là delle Alpi .'. Ahimè ! ma « come
abbandonare la mia famiglia e l'Italia », osservava colui che
con tanto entusiasmo aveva inneggiato al risorto culto di
Dante, " e come sopportare il clima della Germania ì ».
XIII.
La primavera dei 1826 a Bologna. — Una gita in Fomagna.
— Il ritorno a Eecanati nel novembre. — La primavera
del 1827 nuovamente a Bologna, e V estate a Firenze. —
L'incontro del Leopardi col Manzoni, e il suo giudizio
sui « Promessi Sposi >k
Col febbraio del 1826, il Leopardi cominciò a sentirsi
meno male. « Già fin dal primo di questo mese », scrisse
YS al padre, da Bologna, <( il freddo qui, grazie a Dio, è
molto scemato, anzi abbiamo avuto qualche giorno quasi
di primavera: io ho ripreso le mie passeggiate campestri,
e mi pare di essere rinato ». E il 13 al fratello: « Io respiro
con questi giorni tepidi che abbiamo, e la mia salute ne
migliora sensibilmente ». E di nuovo al padre, il 20: « Qui
continuano le giornate temperate, che mi hanno fatto tor-
nare in vita da una vera morte, perchè le pene che ho pro-
vate in questo inverno non sono descrivibili ». Anche finan-
ziariamente le cose s'eran messe benino; e, regolandosi
nelle spese, ei riusciva fino a passare per ricco presso i suoi
padroni e vicini di casa. Lavorava assiduamente intorno
al Petrarca (« fatale e amaro », « vero calice di passione! »).
e ai Moralisti greci; e se avesse voluto e potuto affaticarsi
di pili, non avrebbe avuto che da scegliere tra le proposte
che gli giungevano da editori di Torino, di Bologna, di
Milano, di Napoli, di Firenze. Anche il Yieusseux insisteva
per averlo collaboratore, ricompensato e regolare, della
Antologia. Gli suggerì perciò di flagellare, sotto le spoglie
d"un Romito degli Appennini, <• i nostri pessimi costumi.
100 LA VITA DEL POETA
i nostri metodi di educazione e di pubblica istruzione, tutto
ciò in fine che si può flagellare, quando si scrive sotto il
peso di una doppia censura, civile ed ecclesiastica ». Il
futuro autore dei Paralipomeni si scusò, adducendo la
« maledetta salute » che non gli permetteva una pili lunga
ed assidua occupazione. E poi (4 marzo):
Perchè questo buon Romito potesse flagellare i nostri costumi e
le nostre istituzioni, converrebbe che, prima di ritirarsi nel suo romi-
torio, fosse vissuto nel mondo, e avesse avuto parte non piccola e non
accidentale nelle cose della società. Ora questo non è il caso mio. La
mia vita, prima per necessità di circostanze e contro mia voglia, poi
per Laclinazione nata dall'abito convertito in natura e divenuto inde-
lebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in
mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all'inglese, io sono più
abseni di quel che sarebbe un cieco e sordo. Questo vizio dell'absence
è in me incorreggibile e disperato.... Da questa assuefazione e da questo
carattere nasce naturalmente che gli uomini sono a' miei occhi quello
che sono in natura, cioè una menomissima parte dell'universo, e che 1
miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m'interessano
punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissima-
mente. Però siate certo che nella filosofìa sociale io sono per ogni parte
un vero ignorante. Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo me
stesso, cioè l'uomo in sé, e similmente i suoi rapporti col resto della
natura, dai quali, con tutta la mia solitudine, io non mi posso liberare....
La mia filosofia.... mi fa disprezzar la vita e considerar tutte le cose
come chimere, e così mi aiuta a sopportar l'esistenza.
Bello il marzo e l'aprile, così che il povero Giacomo era
potuto tornare « nel gran mondo », ai primi del ^jiaggio
ci fu una ripresa di freddo. « Qui non è maggio, ma gen-
naio », ei si lamenta con la Paolina; <' e già da quindici
giorni io sono ritirato dal mondo, maledicendo Bologna e
chi Tha inventata. Oh qulieureux qiie je auis ! non ti pare ? ».
11 caldo gli riportò un po' di salute. « lo vivo molto annoiato
e arrabbiato, ma migliorando di salute sensibilmente, col
caldo », scrive al fratello il 21 giugno. E il 23, giunge a dire
alla Paolina: " Vo sempre sospirando il momento di riveder
Recanati, che sarà certamente presto ». Veramente qui Re-
canati voleva significar soprattutto i due fratelli prediletti !
Il 29 maggio, ebbe un «assalto nervoso al petto»;
« dove », ricordò poi, « il dolore si accresceva effettivamente
A RAVENNA 101
colla impazienza e colla inquietezza >. E sperimentò allora
quel sovrano rimedio che è la pazienza, e che ■ consiste
in una non resistenza, una rassegnazione d'animo, una
certa quiete dell'animo nel patimento. E potrà essere di-
sprezzata questa virtù quanto si voglia », soggiunge, .« e
chiamata vile: ella è pur necessaria all'uomo, nato e desti-
nato inesorabilmente, inevitabilmente, irrevocabilmente a
patire, e patire assai, e con pochi intervalli » ^.
Nei primissimi di agosto, invitatovi dal marchese An-
tonio Cavalli, fece una gita in Romagna, per « vedere le
antichità di Ravenna ». Alla Paolina, che gli aveva scritto:
« Pei'sone venute da Sinigaglia ci hanno raccontato di aver
parlato con un Francese, il quale fa gi'andissimi elogi di
te, e che sarai per essere il più gran letterato d'Italia » ^:
il buon Giacomuccio è lieto di poter rispondere (16 agosto):
Che meraviglia che i Francesi parlino di me a Sinigaglia ?
Xon sai tu che io sono un grand'uomo, che in Romagna
sono andato come in trionfo, che donne e uomini facevano
a gara per vedermi ? ■.
Rimase fuor di Bologna dal 2 al 13 agosto; e (^nell'an-
dare e tornare da Ravenna », ebbe a soffrir molto del caldo.
Ma a buon conto rimpatriare oramai conveniva; e sog-
giungeva alla Paolina: «Fuor di burla, io spasimo di tro-
varmi di nuovo fra voi altri, e non aspetto altro che la
iìne del caldo per mettermi in viaggio ». Difatto, il 3 no-
vembre si pose in cammino, e. << dopo un viaggio pessimo
veramente >, 111 fu a casa. Dove, in mezzo alla sua li-
breria, « con quei comodi che non si possono avere fuori
di casa propria >. intraprese subito a compilare la Cresto-
mazia. « Io sto di salute passabilmente », scriveva il 6 di-
^ Zibaldone, voi. VII, p. 175-7(i.
^ Ancjje Monaldo gli narrava, il 12 agosto: «Un certo Francese,
commissionato dalla Casa Bondi, se non erro, di Torino, a raccogliere
associati per una edizione di Classici latini, come saprete, ha fatto gran
rumore di voi in Sinigaglia, proclamandovi il primo letterato d'Italia,
e notissimo anche alla Francia. Lodiamone Iddio », conchiudeva mo-
ralizzando, » senza dimenticare l'obbligo che corre a quelli, i quali
esso distingue coi suoi doni, di usarne per la sua gloria ».
102 LA VITA DEL POETA
cembre, ^ occupato la mattina a studiare, la sera a tremare
e a bestemmiare". E il 15: «Sto di salute comportabil-
mente, e sento qui un poco men freddo che a Bologna, di
corpo; ma d" animo ho un freddo che mi ammazza, e ogni
ora mi par miUe di fuggir via ». Non sarebbe però stato
l)rudente muoversi prima della primavera. « Io e la mia
salute medesima », scriveva allo Stella, il 9 febbraio 1827,
■ non possono tollerare questo paese privo di ogni possibile
distrazione, separatissimo da ogni commercio letterario,
morto affatto, digiuno di ogni novità, vero sepolcro di
vivi ». Il 21 aprile, vagheggiando la partenza fissata pel 23,
si sfogava col Puccinotti, ch'era di Urbino:
Ogni ora mi par mill'anni di fuggir via da questa porca città, dove
non so se gli uomini sieno più asini o più birbanti; so bene che tutti
sono l'uno e l'altro. Dico tutti, perchè certe eccezioni, che si conte-
rebbero sulle dita, si possono lasciar fuori del conto. Dei preti poi,
dico tutti assolutamente. Quanto a me, la prima volta che in Reca-
nati sarò uscito di casa, sarà dopo domani, quando monterò in legno
per andarmene: sicché mi hanno potuto dare poco fastidio.
Così, il 26 aprile (1827) era di nuovo a Bologna, « do2Do
un viaggio ottimo veramente»; ma non per fermarvisi. Il
20 giugno ne ripartì per Firenze, dove entrò la mattina
seguente. < Dopo un viaggio ottimo », riscriveva al padre.
Soggiungeva però subito: " Il non poter uscir di casa di
giorno per la flussion d'occhi, che mi molesta costante-
mente, mi dà molta malinconia e m'impedisce di conoscere
la città; nella quale veramente non godo nulla ». I letterati
fiorentini, anche i primari come il Xiccolini, o stabiliti in
Firenze, come il Giordani, gli usavan molte gentilezze; ma
ciò non valeva a rimuovergli di dosso la ruggine della tri-
stezza. E il 3 luglio scriveva al Papadòpoli:
Io sono qui da due settimane, trattato con molta gentilezza dai
Fiorentini, ma tristo per la cattiva salute, e in particolare per la ma-
lattia degli occhi, la quale mi costringe a starmene in casa tutto il
di, senza né leggere né scrivere. Non posso uscir fuori, se non la sera
al buio, come i pipistrelli. Starò qui tutta l'estate; l'inverno a Pisa,
se io non mi sentirò troppo male: nel qual caso tornerò a Recanati,
volendo morire in casa mia.
l'incontro col MANZONI 103
Ammalatosi anche alle geugive, spasimante per dolore
acuto di denti, la dimora fiorentina gli diventa insoppor-
tabile. « Firenze », ne conclude (24 luglio), « non sarebbe cer-
tamente il luogo ch'io sceglierei per consumar questa vita ».
E scrive al suo caro Puccinotti, dopo di averlo vivamente
esortato a compiere V^^ opera fisiologica sui temperamenti »,
la quale sarebbe certo riuscita « degna dell'Italia, utile
al mondo» (il 16 agosto):
Sono stanco della vita, stanco della indifferenza filosofica, eh 'è il
solo rimedio de' mali e della noia, ma che infine annoia essa medesima.
Non ho altri disegni, altre speranze che di morire. Veramente non tor-
nava conto il pigliarsi tante fatiche per questo fine. Starò qui fino
a mezzo ottobre: poi sono incerto se andrò a Pisa o se a Roma. Ma se
mi sentirò male assai, verrò a Recanati, volendo morire in mezzo ai
miei.
Di questo tempo s'incontrarono a Firenze i due mag-
giori poeti italiani del secolo. Terenzio Mamiani, che si
trovava aUora anch' egli laggiii, racconta d'avervi veduto
il Manzoni <; impacciato fuor modo degli encomii infiniti
che gii suonavano intorno. Eispondeva », dice, « con parole
poche ed avviluppate, e arrossiva tuttavia a somiglianza
di fanciulla. Spesso il Leopardi assisteva a codeste apoteosi.
Ed io, vedutolo una sera rincantucciato e solo, mentre il
fiore de' letterati e degli studiosi affollavasi intorno al Man-
zoni, lo incitai a manifestare quello che gliene paresse.
— • Me ne pare assai bene, rispose; e godo che i Fiorentini
non si dimentichino della gentilezza antica, e dell'essere
stati maravigliosi nel culto dell'arte. — Pochi anni dopo »,
soggiunge il Mamiani, « io l'udivo in Firenze esprimere in-
torno al Manzoni questa riservata sentenza: che l'avere
eletto pel suo romanzo una delle epoche più sventurate
e servili delle storie italiane, dee nascondere molte ragioni
ed assai poderose; ma certo non appariscono, e sembra
invece uscire dal suo racconto la deplorevole conseguenza
che del presente non bisogna zittire, dacché gl'Italiani altre
volte si trovarono molto peggio, e l'Austriaco vale un oro
a petto del Castigiiano » i. Vedeva in verità assai piti giusto
^ T. :^[A^nANi, Manzoni e Leopardi, nella « Nuova Autologia »,
voi. XXIII, agosto 1873.
104 LA VITA DEL POETA
il Giordani, che, ammiratore ferventissimo del Manzoni
e dell'arte sua, lo lodava di <? aver creato nuovo odio ad
antichi rei di calamità italiane », al (^ dominatore straniero
e lontano, ignorante e crudele, superstizioso ed improv-
vido » 1.
Il 1° agosto "27, lo Stella aveva chiesto al Leopardi:
' Il romanzo del Manzoni lo ha Ella letto ì Sentirei volen-
tieri il Suo parere ». E il 23, il Leopardi aveva risposto
d'averne « solamente sentito leggere alcune pagine », ma che
in Firenze le persone di gusto lo trovavano « molto inferiore
air aspettazione », e gli altri generalmente lo lodavano.
Il 30 poi egli avvertiva il Brighenti: « Qui si aspetta Man-
zoni a momenti ». L'8 settembre, scriveva al padre: « Tra'
forestieri ho fatto conoscenza e amicizia col famoso Man-
zoni di Milano, della cui ultima opera tutta l'Italia parla,
e che ora è qui colla sua famiglia ». E allo Stella: « Io qui
ho avuto il bene di conoscere personalmente il signor Man-
zoni, e di trattenermi seco a lungo: uomo pieno di amabi-
lità, e degno della sua fama » ^. Piìi tardi, al Vieusseux
che, accennando all'articolo del Tommaseo sul Manzoni,
stampato nel fascicolo d'ottobre deìV Antologia, gli diceva:
e non se ne parla piii, e ciò non vi farà meraviglia » ; ei
replicava (31 dicembre '27):
L'articolo sul Manzoni potrà trovar molti che -abbiano opiaioni
diverse, ma certo non potrà raj^ionevolmente esser disprezzato. Solo
quella divinizzazione che vi si fa del Manzoni, mi è dispiaciuta, perchè
ha dell'adulatorio, e gli eccessi non sono mai lodevoli *.
^ Pensieri per uno scritto sui Promessi .S'posi, negli Scritti editi
e postumi di P. Giordani, voi. IV, p. 132-31.
* Cfr. Bonghi, Perchè la letteratura italiana non sia popolare in
Italia, in fin della lettera VI.
' Per codesto articolo del Tommaseo, e in generale pei primi giu-
dizii sul Romanzo manzoniano, v. Michele Barbi, A. Manzoni e il
suo romanzo nel carteggio del Tommaseo col Vieusseux, nella « Misceli,
di studi critici in onore di A. Graf », Bergamo 1903, p. 235 ss.; e Gio-
vAXXi Sforza, Le prime accoglienze ai Promessi Sposi, avanti al voi. II
dei Brani inediti dei P. Sposi, Milano, Iloepli, 1905. Col Tommaseo,
colto ma bizzarro, acuto ma caustico e parzialissimo, generoso con
chi non gli dava ombra ma invidioso e maledico coi maggiori di lui,
L INCONTRO COL MANZONI 105
E il 25 febbraio 1828, dichiarava da Pisa al Papadòpoli:
Ho veduto il romanzo del Manzoni, il quale, non ostante molti
difetti, mi piace assai, ed è certamente opera di un grande ingegno ;
e tale ho conosciuto il Manzoni in parecchi colloqui che ho avuto seco
a Firenze. È un uomo veramente amabile e rispettabile.
Il qual giudizio egli confermava, riscrivendone da Fi-
renze il 17 giugno al padre:
Ho piacere che Ella abbia veduto e gustato il Romanzo cristiano
di Manzoni. È veramente una bell'opera; e Manzoni è un bellissimo
animo e un caro uomo. Qui sì pubblicherà fra non molto una specie di
continuazione di quel romanzo, la quale passa tutta per le mie mani.
Sarà una cosa che varrà poco; e mi dispiace il dirlo, perchè l'autore
è mio amico, e ha voluto confidare a me solo questo secreto, e mi co-
stringe a riveder la sua opera, pagina per pagina; ma io non so che
ci fare. Prego però anche lei a tener la cosa secreta affatto ^.
il Leopardi non ebbe mai buon sàngue. Giunsero presto al disprezzo
reciproco e all'odio. Cfr. Paolo Prttnas, La critica l'arte e Videa
sociale di N. Tommaseo, Firenze, Seeber, 1901, pp. 96, 98, 121 ss.
^ ìsqIV Epistolario leopardiano occorre ancora qualche altra volta
il nome del Manzoni. — Il fratello Pierfrancesco mandò a Giacomo,
il 1° giugno '28, una copia degl'/nm sacri ristampati in quel torno di
tempo a Macerata, con una dedicatoria di Monaldo (si può leggerla
riprodotta da C. A. -Traversi, in Studi sw G. i., p. 8-9). « E vi mando
questo libro », dichiarava, « più. perchè leggiate questa, che gl'/nni,
perchè m'immagino che lo stesso Manzoni ve lì avrà dati a leggere.
Fatemi dire.... dove attualmente si trovi il suddetto Manzoni». Gia-
como rispose : « Vi son proprio obbligato di avermi fatto leggere quella
bella e originale dedicatoria. Manzoni è con la sua famiglia a Milano
sua patria, dove è stabilito. È vero che io aveva già i suoi Inni: ho
ancora e porterò costi tutte le altre sue opere, fuori del Romanzo ». —
Il 12 aprile '29, il Leopardi sospetta, e non a torto, che l'Accademia
della Crusca macchini qualcosa per non assegnargli l'ambito premio
quinquennale, e scrive al Yìeusseux: « Da una frase... del Poggi nel-
V Antologia... deduco che l'Accademia della Crusca, per non premiare
le Operette morali, abbia intenzione dì violar piuttosto le regole, de-
cretando spontaneamente il premio ai Promessi Sposi di Manzoni, il
quale certamente non è concorso ». — E il 28 maggio '32, per giustifi-
carsi col padre d'aver pubblicamente dichiarato non sua un'operetta
ch'era invece di Monaldo, assevera: «Non son io l'uomo che sopporti
di farsi bello degli altrui meriti. Se il romanzo dì Manzoni fosse stato
attribuito a me, io non dopo quattro mesi, ma il giorno che l'avessi
saputo, avrei messo mano a smentire questa voce in tutti i giornali )>.
106 LA VITA DEL POETA
Monaldo replicò, osservando acutamente, a proposito
della Monaca di Monza che io sciagurato amico di Giacomo,
il presuntuoso e vacuo professore dell'Università pisana
Giovanni Eosini, mulinava:
Perchè mai codesto amico vostro s'impegna a continuare il Ro-
manzo di Manzoni? Quell'opera deve essere imitata quanto si può,
ma nessuno speri di uguagliarla; ed essa resterà sempre somma ed
inarrivabile nella sua classe. Il mettersi dunque tanto scopertamente
in linea con esso, è voler sentire dichiarata da tutto il mondo la propria
inferiorità. Appena letto quel Romanzo, ne fui rapito, e lo giudicai
prezioso non tanto alle lettere, quanto alla religione e alla morale.
Ebbi poi molta compiacenza nel sentire che in Roma i confessori Ge-
suiti lo danno a leggere alle loro penitenti.
E l'antico pupillo del padre Torres aveva ragione di
compiacersene: questa volta almeno la sua fede religiosa
poteva andare a braccetto con la sua ammirazione lette-
raria I Tuttavia, nel sorridere aUa squisita rappresentazione
di quel tipo di nobiluccio saccente che fu don Ferrante,
non balenò mai al conte Monaldo il sospetto che il roman-
ziere avesse indovinato pur qualche lineamento del suo
viso e spiato qualche angoletto del suo animo ? E che avrà^
pensato di quel principe milanese, che costrinse la sua Gel-
trudina a farsi monaca, non ostante che questa manife-
stasse in mille modi ripugnanza a prendere il « vel del
core », e giungesse a ribellarsi alla tirannia paterna ì Pur-
troppo, anche l'arte vera e grande può sì divertire ed esal-
tare; ma quanto a convincere e a convertire, essa, alla
pari di ogni filosofia, non ci riesce se non con quelli che non
hanno interesse a rimaner fermi nei loro propositi e nelle
loro superstizioni!
XIV.
A Fisa, nelVinverno 1827-1828. — «I? Bisorgimento )) e
« A Silvia ». — - Giacomo assiste a una lezione del Carnii-
gnani e a una recitazione del Guadagnoli. — Il pro-
fessor Eosini. — La morte del fratello Luigi. — Il ri-
A PISA, l'autunno 1827 107
torno a Firenze e la malinconica estate del 1828. — Il
ritorno a Eecanati.
Dopo molta indecisione, se andare a passar l'inverno
o a Roma o a Massa o a Pisa, o sino a Como o a Venezia
come gii proponeva lo Stella, finalmente, cedendo al con-
siglio degli amici fiorentini, si determinò per la bella ri-
vale di Firenze, « città tanto migliore e di clima tanto ac-
creditato ». Giammai il Leopardi fu più contento della
scelta; e nessun'altra volta una città nuova gli aveva de-
stata, o gli destò poi, una simpatia piìi viva. Il 23 luglio
1827 aveva annotato nello Zibaldone (VII, 232-33):
Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi
dove più dove meno o mesi o anni, m'avvidi che io non mi trovava
mai contento, mai nel mio centro, mai natiu-alizzato in luogo alcuno,
comunque per altro ottimo, finattantockè io non aveva delle rimem-
branze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava,
alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non consi-
stevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti
mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata
di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la
rendeva importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia
di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla
se non con successo' di tempo, e col tempo non mi poteva mancare.
Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll'andar
del tempo mi trovava sempre divenuto contento ed affezionato a qua-
lunque luogo. Colla-rimembranza egli mi diveniva quasi il luogo natio.
Pisa invece gii piacque subito, non appena vi mise il
piede. 11 12 novembre, scrive aUa Paolina:
Partii da Firenze la mattina dei 9 in posta, e arrivai la sera a Pisa,
viaggio di 50 miglia. Ieri notte, per la prima volta, dopo più di sei
mesi e mezzo, dormii fuori di locanda, in una casa dove mi sono col-
locato in pensione, a patti molto discreti ^ Sono rimasto incantato
di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. Ho lasciato a
Firenze il freddo di vm grado sopra gelo; qui ho trovato tanto caldo,
che ho dovuto gittare il ferraiuolo e alleggerirmi di panni. L'aspetto
^ La casa era in Via Fagiuoli, ora Della Faggiuola. A ricordo,
è stato dato il nome del poeta alla viuzza solitaria che unisce questa
strada a quella di Mugelli.
108 LA VITA DEL POETA
di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze: questo lung'Anio è uno
spettacolo cosi bello, così ampio, così masrnifico.'così gaio, così ridente
che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano
né a Roma; e veramente non so se in tutta l'Europa si trovino molte
vedute di questa sorta. Vi si passeggia poi nell'inverno con gran pia-
cere, perché v'è quasi sempre un'aria di primavera : sicché in certe
ore del giorno quella contrada é piena di mondo, piena di. carrozze e
di pedoni: vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi briUa un sole
bellissimo tra le dorature dei caffé, delle botteghe piene di galanterie,
e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura.
►Nel resto poi, Pisa é un misto di città grande e di città piccola, di cit-
tadino e di villereccio, un misto così romantico che non ho mai ve-
duto altrettanto. A tutte le altre bellezze si aggiunge la bella lingua.
E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene, che mangio con ap-
petito, che ho una camera a ponente che guarda sopra un grand'orto,
con ima grande apertura tanto che si arriva a veder l'orizzonte, cosa
di cui bisogna dimenticarsi in Firenze.
E nello stesso giorno, al Viensseux:
Sono più che contento, sono proprio innamorato di questo cielo.
Ho lasciato a Firenze l'inverno, e qui ho ti'ovato l'autunno, di ma-
niera che ho dovuto gittar via il pastrano e alleggerirmi di panni. Anche
l'aspetto di Pisa mi piace assai. Quel lung'Arno, in una bella gior-
nata, è uno spettacolo che m'incanta: io non ho mai veduto il simile:
tu che hai viaggiato mezzo mondo, avrai veduto forse qualche cosa
di questo genere in Olanda o altrove; ma questo sole, questo cielo,
sono ornamenti che non avrai trovati fuori d'Italia, e sono pure una
gran parte di questo spettacolo. Del rimanente, io trovo qui un misto
di città grande e di città piccola, di cittadino e di rustico, tanto nelle
cose quanto nelle persone: un misto propriamente romantico.
Xon si direbbe che sia proprio il Leopardi! 11 sole di
Pisa lo ha convertito di classico in romantico; e se ne com-
piace. E piace ascoltare quel che il giorno appresso gli ri-
spondeva il Vieusseux, non potendo consolarsi dell'assenza
dell'amico caramente diletto.
Vi assicuro, e potete credermi imperocché non sono uomo da pa-
role lusinghiere, che il non vedervi più comparire la sera da me mi
cagiona una vera pena; mi manca qualche cosa, e sempre penso a voi.
Voi siete uno di quelli pochissimi uomini, coi quali mi sarei volentieri
adattato a vivere, à faire viénage.
Le quali parole riuscivano benefiche al cuore di Gia-
como come il sole di Pisa alla sua salute. « Voi mi fate in-
superbire con quel che mi dite del desiderio della mia com-
A PISA, l'inverno 1828 109
pagnia;... perche oramai >\ riscriveva il 16, ringraziando, ^^ fo
molto pili conto dell' affetto che della stima degli uomini;
e però avrei maggior concetto di me stesso se mi credessi
capace di farmi amare, che di farmi stimare ».
Tuttavia anche a Pisa sarebbe venuto l'inverno; ma
« colla opinione che a Pisa non si senta freddo », osservava
il povero Giacomo, « mi consolerò di quello che ci sentirò
in fatti, come già ce ne sento più che non bisogna per farmi
smaniare e spasimare, non potendo usar fuoco ». Agli ul-
timi di novembre, cadde anche un po' di neve, « ma per
un sol giorno e senza imbiancare»; poi tornò «un'aria
temperatissima », tale da permettergli, la sera del 4 di-
cembre, d'uscir di casa e passeggiare per un'ora senza pa-
strano. Quel clima, insomma, gli riusciva « un paradiso
per la temperatura dell'aria ». E se il dicembre era stato
un marzo, il gennaio (1828) fu un aprile: « anche l'aria in
certe giornate ha un odore di primavera ». Di giorno egli
faceva « eterne passeggiate », e preferiva « una certa strada
deliziosa, che io chiamo », confidava alla sorella, « Via
delle rimemhranze : là vo a passeggiare quando voglio so-
gnare a occhi aperti. Yi assicuro », soggiungeva, « che in
materia d'immaginazioni, mi pare di esser tornato al mio
buon tempo antico ». E compose allora II Bi sorgi me rito e
A Silvia: l'uno, il canto dell'insperato ritorno della pri-
mavera nel deserto del suo cuore; l'altra, la romantica
canzone delle rimembranze, circonfuse da una dolce ma-
linconia.
A Pisa egli era andato, e rimase, in compagnia del dottor
Gaetano Cloni, che aveva conosciuto in casa del Vieusseux;
e per suo mezzo, avvicinò parecchie persone le quali gli
facevan festa. Tra queste, il Carmignani, insigne professore
di dùitto penale in quella Università. Un giorno, anzi,
Giacomo mostrò il desiderio d'assistere ad una delle fa-
mose sue lezioni. In attesa del poeta, l'aula magna si af-
follò di studenti d'ogni Facoltà. Il Carmignani, prima di
cominciare la lezione, ordinò che si ponessero due sedie
presso la cattedra, e vi fece sedere il Leopardi e il Cloni;
indi li presentò alla scolaresca con parole molto degne.
110 LA VITA DEL POETA
che furono coperte di applausi ^. Un'altra volta, fu invi-
tato ad assistere, in casa di madama Mason, a una recita-
zione che il Guadagnoli vi faceva, all'Accademia de' Lu-
natici, delle sue iDoesie burlesche. Ne rimase scontento e
triste, E qualche mese dopo annotava (Zib. VII, 356-57):
Guadagnoli recitante in mia presenza.... le sue sestine burlesche
sopra la propria vita, accompagnando il ridicolo dello stile e del sog-
getto con quello dei gesti e della recitazione. Sentimento doloroso
che io provo in casi simili, vedendo un uomo giovane, ponendo in burla
sé stesso, la propria gioventù, le proprie sventure, e dandosi come in
ispettacolo e in oggetto di riso, rinunziare ad ogni cara speranza, al
pensiero d'Lspirar qualche cosa nell'animo delle donne, pensiero si
naturale ai giovani, e abbracciare e quasi scegliere in sua parte la vec-
chiezza spontaneamente e in sul fiore degli anni: genere .di dispera-
zione de' più tristi a vedersi, e tanto più tristo quanto è congiunto ad
un riso sincero, e ad una perfetta gaieté de coenr.
Le visite in casa erano forse un po' troppo frequenti,
e, diceva, « qualche volta mi annoiano ». « Anche qui »,
soggiungeva (5 marzo), « tutti mi vogliono bene, e quelli
che parrebbe dovessero guardarmi con ijìù gelosia sono i
miei panegiristi ed introduttori, e mi stanno sempre at-
torno ». Tra questi è presumibile che fosse il professor
Giovanni Eosini; del quale, neUo Zibaldone, tracciò poi
questo scorcio (VII, 428):
Agli uomini paghi in buona fede e pieni di sé, gli altri uomini sono
quasi tutti amabili; li veggono volentieri, ed amano la lor compagnia.
Perocché si credono stimati, ammirati, macarizomènous generalmente
dagli altri: che senza ciò non sarebbero né pieni né paghi di sé. Ora
è naturale che chi è creduto ammiratore, sia amabile agli occhi di
chi si crede ammirato. Perciò questi tali (che parrebbe dovessero
essere sommi egoisti) bene spesso sono benevoli, compagnevoli, ser-
vizievoli molto, buoni amici. Talvolta anche modesti, per la piena
e tranquilla certezza (la certa e riposata credenza) che hanno del loro
merito (o di loro vantaggi qualunque, come nobiltà, ricchezza, po-
tenza e simili). — Ro.^ini. — 26 aprile 1829.
Ai primi di maggio, gli venne una notizia tristissima:
della morte, a soli ventiquattr'anni, del fratello Luigi. 11
suo dolore fu tanto da sentire di non poterlo abbracr-iaro
Cfr, e. Axtoxa-Traversi, Studi su G. L., Napoli 1887, p. 249.
RITORNO A FIRENZE 111
tutto intero. « Ammalai dal dolore )\ narrò qualche giorno
dopo, e e non sono ancora bene ristabilito: dico ristabilito
della malattia, che del dolore non potrò esserlo finché vivo ».
Il 10 giuo-no, "dopo il viaggio d'una notte», tornò a
Firenze. Ora è il caldo che gli dà noia, e smania aspettando
con impazienza dolorosa il freddo. Appena potrà, si met-
terà in via per Recanati, dove lo chiama un amaro dovere
e un dolce desiderio: piangere insieme colla sua fa-miglia
la comune sveiitura. Oh che tristezza Firenze, e che or-
ribile prospettiva il ritiro di Recanati, chi sa quanto lungo^
chi sa se non eterno ! Scrive alla Tommasini :
starò qua finché dureranno i miei pochi danari; poi l'orrenda
notte di Recanati mi aspetta. Non posso più scrivere. (19 giugno).
Quest'ultimo viaggetto da Pisa a Firenze.... ha potuto finire di
persuadermi che io non son più fatto per muovermi. ^li viene una
gran voglia di terminare luia volta tanti malanni, e di rendermi im-
mobile un poco più perfettamente ; perchè in verità la stizza mi monta
di quando in quando: ma non temete, che in somma avrò pazienza
sino alla fine di questa maledetta vita. (24 giugno). — Io non lio bi-
sogno di stima, né di gloria, né d'altre cose simili; ma ho bisogno di
amore. (5 luglio.)
E al padre:
Firenze mi riesce malinconica al solito, e quasi mi pento di aver
lasciata quella bell'aria di Pisa. (24 giugno").
E al Giordani:
Se non fosse stata la mala disposizione della salute, che mi vieta
di viaggiare con questi caldi, avrei lasciata Firenze assai volentieri,
perchè.... questa città.... mi riesce molto malinconica. Questi viottoli,
che si chiamano strade, mi affogano; questo sudiciume universale mi
ammorba; queste donne sciocchissime, ignorantissime e superbe, mi
fanno ira ; io non veggo altri che Vieusseux e la sua compagnia ; e quando
questa mi manca, come accade spesso, mi trovo come in un deserto.
In fine mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa
di ogni bello e di ogni letteratura-: massimamente che non mi entra
poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la po-
litica e la statistica. (24 luglio).
E ancora alla Tommasini:
Ho ripreso le mie passeggiate prima di pranzo, e con gran profitto;
segno che il sistema nervoso aveva non piccola parte nel mio male....
112 LA VITA DEL POETA
Quanto al venire a Bologna quest'antiinno, vedremo quello che si
potrà combinare colla mia salute, e colla necessità che ho di andare a
Recanati. Xon vi ho detto mai la ragione di qiiesta necessità, perchè
non me n'è bastato l'animo. Ora vi dirò in due parole: ho perduto un
fratello nel fior degli anni: la mia famiglia in pianto non aspetta altra
consolazione possibile che il mio ritomo. Io mi vergognerei di vivere,
se altro che una perfetta ed estrema impossibilità m'impedisse di an-
dare a mescere le mie lagrime con quelle de' miei cari. Questa è la
sola consolazione che resta a me. (5 agosto).
E nuovamente al padre :
Già a quest'ora sarei partito, se il partire dipendesse dalla mia
volontà; ma aspetto.... il freddo, perchè l'esperienza mi ha dimostrato
che il caldo è il maggiore e più pericoloso nemico che io abbia nel viag-
gio.... Questa enorme soggezione mi ha impedito in tutto questo tempo
di far de' piccoli viaggetti per queste bellissime città di Toscana,
che mi avrebbero divertito moltissimo. Sono stato immobile a Firenze,
immobile a Pisa, senza neanche veder Livorno né Lucca, città distanti
da Pisa due ore. Ho risoluto di venire a Recanati direttamente (viaggio
di 6 giorni), fermandomi solo un poco a Perugia per riposare. (25 .set-
tembre).
Arrivando a Recanati, avrò meco un giovine sig-nore torinese [Vin-
cenzo Gioberti], mio buon amico. Non potrò a meno di pregarlo a smon-
tare a casa nostra, tanto più ch'egli farà la via delle Marche, come
fa il viaggio di Perugia, principalmente pe^ tenermi compagnia. Spero
che a Lei non rincrescerà questa mia libertà. Egli si tratterrà in Re-
canati una sera, o una giornata al più. (8 novembre).
Il 10 novembre, intraprese il faticoso viaggio ; che durò
non sei ma undici giorni ! e E qui starò non so quanto, forse
sempre», scriveva da Recanati il 28 novembre; (^ f o conto
di aver terminato il corso della mia vita >.
XV.
L'ultima dimora a Recanati, dal novembre 1828 alVainile
1830. — Nuove smanie d'uscirne. — L'interessamento
del Colletta. — Il matrimonio di Carlo. — Il mancato
premio della Crusca. — La sottoscrizione fiorentina.
Difatto, l'aria nativa questa volta gli riiLsciva più che
mai micidiale; ma oramai Giacomo si mostrava rassegnato
A RECANATI, L'iN VERNO 1829 113
al triste suo fato. Scriveva, il 15 dicembre (1828), al Vieus-
frOux :
Finora non ho materia di lodarmi di quest'aria: i miei poveri ocelli
incominciarono a patire il giorno medesimo che arrivai; così sempre
mi accade; e peggiorano di continuo. Nondimeno questa pessima aria
è quella che la sorte mi ha destinata.
E a Pietro Colletta, il gioruo dopo :
Di me non vi curate che io parli: quest'aria mi nuoce, come ha
fatto sempre; gli occhi soprattutto ne patiscono indicibilmente: in
ogni modo questa è l'aria che mi è destinata.
E al conte Antonio Papadòpoli, il 17:
Il soggiorno di Recanati non mi è caro certamente, e la mia sa-
lute ne patisce assai assai ; ma mio padre non ha il potere o la volontà
di mantenermi fuori di casa; fo conto che la mia vita sia terminata....
Quando ci rivedi"emo noi ? anzi, ci vedremo noi più 1 Non so vera-
mente....; e quanto a me, credo essere divenuto immobile.
E rultimo di quell'anno, ad Adelaide Maestri:
Quanto a Recanati.. vi rispondo ch'io ne partirò, ne scapperò, ne
fuggirò subito ch'io possa ; ma quando potrò ? Questo è quello che
non vi saprei dire. Intanto siate certa che la mia intenzione non è
di star qui, dove non veggo altri che i miei di casa, e dove morrei di
rabbia, di noia e di malinconia, se di questi mali si morisse.
Uscire, partire; ma di che vivere fuori di casa ! Lo sti-
pendio dello Stella cessava col dicembre: Giacomo non
aveva piii salute da mantenere i suoi impegni, e volle scio-
gliersi da ogni contratto editoriale. Al generale Colletta,
esule in Toscana fin dal marzo 1823, il quale, con l'interes-
samento affettuoso proprio dei Napoletani ^, gli chiedeva
conto esatto delle sue condizioni e dei suoi bisogni, egli
rispondeva, il 16 gennaio (1829):
Voi siete tanto amorevole e buono, quanto valente. Poiché volete
che io vi racconti lo stato mio, per dimostrarmi grato e per ubbidirvi
non ricuso il pericolo di venirvi a noia. Se io voglio vivere fuori di
casa, bisogna che io viva del mio; voglio dire, non di quel di mio padre;
perchè mio padre non vuol mantenermi fuori, e forse non può, attesa
* Cfr. A. De Gennaro-Ferrigni, L. e Colletta, Napoli 1888..
8 — G. Leopardi.
114 LA VITA DEL POETA
la scarsezza grande di danari che si patisce in questa provincia, dove
non vale il possedere, e i sigmori spendono le loro derrate in essere,
non trovando da convertirle in moneta ; ed atteso ancora che il patri-
monio di casa mia, benché sia de' maggiori di queste parti, è som-
merso nei debiti. Ora, io non posso viver del mio se non lavorando
molto; e lavorar molto con questa salute non potrò più in mia vita.
Perciò m'è convenuto sciormi dagli obblighi ch'io aveva contratti
collo Stella, e perdere quella provvisione che aveva da lui, e che mi
bastava per vivere competentemente.... Se io trovassi un impiego da
faticar poco, dico un impiego jiubblico ed onorevole (e gl'impieghi
pubblici sogliono essere di poca fatica), volentieri l'accetterei: ma non
posso trovarlo qui nello Stato, dove ogni cosa è per li preti e i frati;
e fuori di qui, che speranza d'impieghi può avere un forestiero ? I mici
disegni letterari sono tanto più in numero, quanto è minore la facoltà
che ho di metterli ad esecuzione; perchè, non potendo fare, passo il
tempo a disegnare. I titoli soli delle opere che vorrei scrivere, pigliano
più pagine; e per tutto ho materiali in gran copia, parte in capo, e
parte gittati in carte così alla peggio.
Intanto chiedeva alla sua amica Adelaide Maestri, fi-
gliuola d'Antonietta Tommasini (due donne gentili che
amarono tenerissimamente Giacomo, l'una con l'affetto
immutabile di sorella, l'altra di madre sempre desta e ve-
gliante) ^, la quale viveva in Panica (31 dicembre 1828):
Credereste voi che si potesse trovare costà in Parma un impiego
letterario onorevole, e di non troppa fatica; tale, che si potesse accor-
dare colla mia salute ? Fatemi la grazia d'informarvene, pianamente.
Non c'era disponibile, se non la cattedra di storia natu-
rale presso quella Università. Ohimè, in codesta materia Gia-
como si sentiva, e a dir proprio, un asino »; la salute non
gli consentiva di " impararne quanto bisogna a insegnarla
altrui »; e l'onorario gii sarebbe stato insutficiente: « quattro
luigi al mese, anzi né pur tanto, al merito mio sono troppo,
ma al bisogno son troppo poco ! ». Pure, era tanto vivo il
desiderio di fuggir via e presto, ch'ei non seppe rifiutar
nettamente; anzi si disse disposto a mettersi in viaggio,
e confidando poi negli amici per un miglioramento di con-
dizioni nel futuro ». Sennonché da Livorno il Colletta gli
' Cfr. il bel capitolo che le riguarda nel voi. della Boghen-Coxi-
9LIANI, La donna nella vita e nelle opere di G. L., p. 223 ss.
LE PROFFERTE DEL COLLETTA ll5
faceva balenare un barlume d'una migliore speranza: col
Capponi s'era parlato di lui, e xatto un certo disegno per
tenerlo in Toscana, occupato in cose che non avrebbero
menomata la sua libertà. « Oli voi mi date pure una bella
speranza I », esclamava Giacomo. E il buon Colletta repli-
cava, con amorevolezza e delicatezza veramente grnndi, il
18 aprile (1829):
Nessun e:ioi'no è passato che io nou abbia pelisato a Voi, ed ope-
rato in vostro servizio. Sarebbe lungo a dire quante speranze sono sorte
e niaucate; l'ateneo di Livorno è ancora incerto: parecchie cattedre
da stabilirsi a Firenze per testamento del conte Bardi sono ancora in
speranza, perchè avviluppate colle liti e dubbiezze del pati'iiuonio :
carica di bibliotecario non vaca; e vacando, certo numero di preti fio-
rentini sta vigilante alla portiera. ]Ma permettete che io vi scriva come
fratello a fratello; e per maggiore verisimiglianza. come padre a figlio ' :
Voi rispondete sinceramente, a cuore aperto. Non potreste far Voi
come fece il Botta? Ossia, ricevere un assegnamento mensuale: lavo-
rare a volontà, vendere i lavori; restituire le somme ricevute: tornar
da capo, quando mai la vendita del libro non provvedesse ai bisogni
futuri. Voi non dovreste sforzare volontà o salute a lavorare ; non avreste
obblighi o di tempo o di materia: se non che, dovreste far libro, non
articoli per giornali; ed in questa condizione avrò incontrato anche il
vostro desiderio,
Per agevolare il disegno, io vi propongo di abitare con me; cer-
cherei (e l'ho in mira) una casa che avesse una camera ed uno stan-
zino per Voi: è povera la niia mensa, ma Voi siete discreto; e Voi vi-
vreste nella mia famiglia come tra parenti amorosi. Né del piccolo
dispendio (che perciò farei più del mio proprio) voglio farvi dono; ma
Voi me ne rimborserete, quando che sia, col prodotto delle vostre opere.
Accettando di vivere in mia casa, diminuiscono i vostri bisogni. Voi
ditemi, oltre la casa, il vitto, la servitù, qual somma per mese sarebbe
da Voi desiderata ; e permettete che io la trovi, a quelle condizioni
che Voi medesimo vorrete prescrivere. Io sarei procurator vostro,
delicato come se trattassi per me ; e di ogni cosa vi avviserei prima delle
vostre mosse da Recanati: mi abl)occherei (se vi piace) col Giordani:
farei che la vostr? dignità non fosse adombrata, essendomi a cuore
quanto la mia propria.
Il Leopardi trascinava la vita a soffocato da una malin-
conia che era oramai poco men clic pazzia ». E scriveva
agli amici: >< Se ci sono Santi che impetrino la morte a chi
Il Colletta era di ventitré anni più vecchio di Giacomo.
116 LA VITA DEL POETA
la desidera, raccomaudatemi a quelli,..; io vivo qui mezzo
disperato, anzi nou vivo, ma scoppio dL rabbia e di uoia
ogui giorno ». Tutta\àa, trovò in sé la forza per allontanare,
con uno scatto d'alterigia, la mano soccorritrice. E al ge-
neroso Colletta rispose (2G aprile):
Il rimedio che voi rai proponete, d'imitare il Botta, ha moltissimi
vantaggi; ma vi confesso ch'io non mi so risolvere a pubblicare in quel
modo la mia mendicità. Il Botta ha dovuto farlo per mangiare: io
non ho questa necessità per ora; e quando l'avessi, dubito se eleggerei
prima il limosinare o il morir di fame. E non crediate che questa mìa
ripugnanza nasca da superbia; ma primieramente quella cosa mi fa-
rebbe vile a me stesso, e così mi priverebbe di tutte le facoltà dell'a-
nimo ; poi non mi condurrebbe al mio fine, perchè stando in città grande
non ardirei comparire in nessuna compagnia, non godrei nulla, guardato
e additato da tutti con misericordia. Io desidero poi sommamente di
vivere vicino a voi o con voi, ma viver del mio, non altrimenti.... Con
un dugento o pochi più scudi l'anno, potrei pur vivere.... Rileggendo
la vostra lettera, m'intenerisco a veder tanta vostra sollecitudine e
tanto affetto.
Bei sentimenti e bel gesto; ma intanto il vivere a Re
canati diventava sempre più inl^ollerabile. Dopo molte
lotte, Carlo, in barba ai divieti e alle ire di Monaldo e di
Adelaide, aveva sposato, senza il loro consenso, il 12 marzo,
la cugina Paolina Mazzagalli, non abbastanza ricca; ed era
andato a vivere in casa della sposa. E il povero Giacomo,
rimasto privo perfino di quell'unico amico, scriveva al
Puccinotti, che si ritrovava a Macerata, il 19 maggio:
Trova un momento da venire; che, dopo sei mesi, io oda per la
prima volta una voce d'uomo e d'amico. Non so se mi conoscerai più:
non mi riconosco io stesso: non son più io: la mala salute e la tristezza
di questo soggiorho orrendo mi hanno finito.
E all'Adelaide Maestri, nel luglio:
La mia salute è poco buona; ma non vi mettete in pena per questo:
il mio male non è mortale, né di quelli clie danno speranza di rendersi
tali in breve. T mali secondari.... sono, si può dir, cessati; ma il prin-
cipale, che consiste in uno sfìancaniento e una risoluzione de' nervi
(e che era cominciato qui), con quest'aria, coll'eccesso dell'ipocondria,
coUa mancanza d'ogni varietà e d'ogni esercizio, è cresciuto in maniera,
che non solo non posso far nulla..., ma non ho più requie né giorno né
notte. Dell'animo però sono tranquillissimo sempre, non per filosofia,
LE PROFFERTE DEL COLLETTA 117
ma perchè non ho più che perdere né che sperare. Qxtante cose vorrei
dirvi ! ma in due giorni non sono potuto andar più oltre di queste poche
righe. Vi raccomando caldamente la salute vostra, e l'allegria.
E in. fili deiragcsto. allo Stella:
La mia salute è in un misero stato, e la mia vita è un purgatorio.
In quest'orrido e detestato soggiorno, non ho più altra consolazione
che il ricordarmi degli amici passati.
E al Bunsen. il 5 settembre:
Non, solo i miei occhi, n>a tutto il mio fisico, sono in istato peg-
giore che fosse mai. Non posso né scrivere, né leggere, né dettare, né
pensare. Questa lettera sinché non l'avrò terminata, sarà la mia sola
occupazione, e con tutto ciò non potrò finirla se non fra tre o quattro
giorni. Condannato per mancanza di mezzi a quest'orribile e detestata
dimora, e già. morto ad ogni godimento e ad ogni speranza, non vivo
che per patire, e non invoco che il riposo del sepolcro.
Coll'ottobre, peggiorò ancora: non gli fu più possibile
punto punto di scrivere, e iieppur di dettare alla Paolina,
anzi nemmen di discorrere. 11 Colletta, cui il Giordani
mostrò una desolata lettera sua, lo tornò a tentare (31 ot-
tobre):
Oh povero il nostro amico infermo e afflitto ! e poveri ancora noi
che non possiamo da vicino soccorrerlo della nostra assistenza, e della
pietà che ne sentiamo ! L'aria di Toscana è meno malvagia per voi, e
se voi poteste immaginare il modo di respirarla, e sol mancasse qual-
cosa per l'adempimento, confidate i vostri pensieri a me, amico vo-
stro tenero e discreto. Questo é il motivo del presente foglio; e il foglio
é secreto: io non dirò a veruno di averlo scritto.... Il 3 novembre andrò
a Livorno, in una villa che ha un buon quartiere a mezzogiorno. Le
camere soperchiano a' modesti bisogni della mia piccola famiglia;
vi sarebbe dunque stanza per voi senza mio incomodo.
Giacomo questa volta è lì lì per cedere. Risponde (22 no-
vembre):
Vi giuro che io non veggo né possibilità né speranza di lasciare
questo esecrato soggiorno : sebbene oramai l'orrore e la disperazione del
mio stato mi condurrebbero, per uscire di questo Tartaro, a deporre
l'antica alterezza, ed abbracciare qualunque partito, accettare qua-
limque offerta: ma, fuorché morire, non veggo compenso possibile,
non essendo buono a far nulla. Intanto dell'invito amoroso che voi
mi fate, vi ringrazio teneramente, e quasi con lagrime, infinite volte.
118 LA VITA DEL POETA
Il Colletta se Jo tenne per detto. < Facciamo di vivere
questi mesi che corrono infernali », riscrisse gli 1 1 gennaio
1830: «nel marzo tornerò in Firenze, e di là vi scriverò;
Voi vorrete abbandonarvi al consiglio di chi vi ama e vi
considera qual suo figliuolo ». Ma le cose andavano in
lungo, e anzi volgevano al peggio. Giacomo aveva concorso
con le Operette morali al premio quinquennale di mille scudi,
che nel 1830 doveva conferirsi dalla I. e R. Accademia
della Crusca. Egli aveva temuto per un momento che si
pensasse di assegnarlo, fuori concorso, ai Promessi Sposi;
invece, alla fine del febbraio, ricevette questa brutta notizia
dal Yieusseux:
Mio buon amico, nulla di molto consolante abbiamo da dirvi in-
torno all'affare del premio: il Botta l'ha ottenuto, e voi avete Vaccessif;
ma VaccessU non è che un complimento sterile, che ad ogni modo non
vi poteva essere negato; e la giustizia voleva almeno che si dividesse
il premio, dandone la metà allo storico piemontese per l'importanza
dell'argomento e la mole dell'opera [Sfnria d'Italia dal 1789 al 1814,
Parigi, 1824, in 4 volumi in 4°], ed^a voi l'altra metà per i pregi della
lingua e dello stile, principal cosa che dovrebbe contemplare l'Acca-
demia, istituto della quale è la lingua e non le scienze storiche. La vostra
causa è stata difesa dal Capponi e dal Niccolini, ed anche lo Zannoni
s'è mostrato giusto a vostro riguardo ; ma cosa sperare da tutti quei
Canonici che formano il resto di quel consesso ?
Desolato il Leopardi, e sempre piìi impaziente, rispose
il 21 marzo al Vieusseux:
Son risoluto, con quei pochi danari ohe mi avanzarono quando io
potea lavorare, di pormi in viaggio per cercar salute o morire, e a Re-
canati non ritornare mai più. Non farò distinzion di mestieri; ogni
condizione conciliabile colla mia salute mi converrà ; non guarderò ad
umiliazioni; perchè non si dà umiliazione o avvilimento maggiore di
quello ch'io soffro vivendo in questo centro dell'inciviltà e dell'igne-
ranza europea. Io non ho più che perdere; e ponendo anche a rischio
questa mia vita, non rischio che di guadagnare. Ditemi con tutta sin-
cerità se credete che costì potrei trovar da campare dando lezioni o
trattenimenti letterarii in casa: e se troverei presto; perchè poco tempo
mi ba'-teranno i danari per mantenermi del mio. Dico lezioni letterarie
di qualunque genere; anche infimo; di lingua, di grammatica, e simili.
E vorrei che mi rispondeste subito che potrete, perch'io partirò presto,
e secondo la vostra risposta determinerò se debbo voltarmi a Firenze,
o cercare altri barlumi di speranza in altri luoghi.... Vi fo questa do-
manda circa il dar lezioni, perchè comporre, scrivere, leggere, io non
posso. Potrei dar lezioni, o sia tenere scuola, facendo leggere ad altri.
LE PROFFERTE DEL COLLETTA 119
Fortunatamente questa lettera disperata s'incontrò per
via con una del Colletta, apportatrice della sentenza di li-
berazione. L'illustre e operoso generale aveva potuto met-
tere insieme, mercè una sottoscrizione tra gli amici più
intimi, un certo peculio; clie egli avrebbe versato in dodici
rate- mensili all'amico infelice. Gli proponeva (23 marzo):
sta poi a Voi,... venire a viver tra noi, provvedere alla vostra
salute, compiacere i vostri amici. ^li diceste una volta che 18 francesconi
al mese bastavano al vostro vivere: ebbene 18 francescoui al mese Voi
avrete per un anno, a cominciare, se vi piace, dal prossimo aprile. Io
passerò in vostre mani, con anticipazione da mese a mese, la somma
suddetta; ma non avrò altro peso ed ufficio che passarla: nulla uscirà
di mia borsa: chi dà, non sa a chi dà; e Voi che ricevete, non sapete
da quali. Sarà prestito, qualora vi piaccia di rendere le ricevute somme;
e sarà meno di prestito, se la occasione di restituire mancherà : nes-
suno saprebbe a chi chiedere; Voi non sapreste a chi rendere. Nessuna
legge vi è imposta. Voglia il buon destino d'Italia che Voi, ripigliando
salute, possiate scrivere opere degne del vostro ingegno; ma questa
mia speranza non è obbligo vostro.
Il Leopardi accettò il pudico e liberale benefìzio, e
rimettendo i ringraziamenti a pochi giorni, « per ora vi
dirò solo », soggiunge (2 aprile), « che la vostra lettela,
dopo sedici mesi di notte orribile, do]3o un vivere dal quale
Iddio scampi i miei maggiori nemici, è stata a me come un
raggio di luce, piìi benedetto che non è il primo barlume
del crepuscolo nelle regioni polari », E il 29 aprile si mise
in via. A Recanati non sarebbe tornato mai piti.
XVI.
Il ritorno a Firenze {maggio 1830). — L'edizìoìie fiorentina
dei a Canti )K — Il De Sinner. — Giacomo deputato di
Recanati. — A Roma, autunno 1831 e inverno 1832. —
Nuovamente a Firenze, primavera 1832.
Dopo una breve sosta a Bologna, e « dopo aver passata
la iourmente sugli Appennini », il 10 maggio 1830 il poeta
era di nuovo a Firenze.
120 LA VITA DEL POETA
Vi fu accolto come un caro redivivo. « Mi trovo affol-
lato di visite », scrive il 12 al padre, « e tutti mi fauno com-
plimenti sulla mia buona ciera ». E il 18, alla Paolina:
« Pochi mesi fa," corse voce in Italia che io fossi morto, e
questa nuova destò qui un dolore tanto generale, tanto
sincero, che tutti me ne parlano ancora con tenerezza, e
mi dipingono quei giorni come pieni d'agitazione e di lutto ».
Soggiungeva: « Giudicate quanto io debba apprezzare l'a-
micizia di tali persone... Scriverò presto a mamma ». E
scri«;se difatto, il 28. questa lettera, che gli mancò poi forse
r animo di spedire. Essa rimase tra le sue carte, donde solo
ora è tornata alla luce ^.
Cara Mamma. Sono stato ammalato del rexima che ho portato
m.eco, né più né meno di quel ch'io fossi costì in quei brutti assalti
ch'io ne pativa. Ora sto meglio, e ieri fui a pranzo in villa dal ministro
Corsini, che manda ogrui giorno a informarsi della mia salute. Ricevo
la cara loro dei 18. Godo assaissimo che le febrette del Papà siano ces-
sate. Volesse Iddio che i miei mali fossero di sola fantasia perchè la
mia ciera è buona. Pare impossibile che si accusi d'immaginaria una
cosi terribile incapacità d'ogni minima applicazione d'occhi e di mente,
una così completa infelicità di vita, come la mia. Spero che la morte,
che sempre invoco, ' fra gli altri infiniti beni che ne aspetto, mi farà
ancor questo, di convincer gli altri della verità delle mie pene. Mi rac-
comandi alla Madonna, e Le bacio la mano con tutta l'anima.
Per consiglio degli amici, mandò in giro, con la data
del luglio, un manifesto per raccogliere sottoscrizioni alla
ristampa delle prime sue poesie con aggiuntevi le nuove '.
a Laconicamente », dichiarava al Pòpoli: «ho un bisogno
grandissimo di denari, se voglio star fuori di casa: Materia
da coturni e non da socchi! )\ Alla metà di dicembre, mercè
il concorso e i buoni uffici di quanti l'amavano, raccolse
settecento nomi, e vendette yjer cento e otto zecchini il
suo manoscritto all'editore Piatti. Ai Canti premise la
tristissima lettera dedicatoria, che ha la data del 15 de-
* Scritti vari inediti, p. 429.
» Si ripensi alle Ricordanze, dell'ultima estate: «E quando pur que-
sta invocata morte Sarammi allato... ».
» Scritti letterari di O. L., a cura di G. Mestica, II, 375-76.
A FIRENZE, NEL 1830 E 1831 121
cembro, e a questa lettera i due versi del Petrarca: " La mia
favola breve è già compita, E fornito il mio tempo a mezzo
gli anni ».
AoLi AiNnci SUOI DI Toscana.
Amici miei c^iri, sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava,
come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col
quale al presente (né posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato
dalle lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero so-
stentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri
piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere
acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse
tolto. Ma io non aveva appena vent'anni, quando da quella infermità
di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà spe-
ranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a
mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e
credo oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non
ho potute leggere, e per emendarle m'è convenuto servirmi degli occhi
e della mano d'altri. Non mi so più. dolere, miei cari amici; e la co-
scienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l'uso
delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se
non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra, che
m'è in luogo degli studi, e in luogo d'ogni diletto e di ogni speranza,
quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse
lecito di goderla quant'io vorrei, e s'io non conoscessi che la mia fortuna
assai tosto mi priverà di questa ancora, costringendomi a consumar gli
anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà,
in un luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L'amor
vostro mi rimarrà tuttavia, é mi durerà forse ancor dopo che il mio
corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio. Il vostro
Leopardi.
Cedette anche al filologo svizzero Luigi de Sinner,
ch'era venuto a conoscerlo in Firenze, tutti i suoi mano-
scritti filologici, perchè trovasse il modo di coordinarli, com-
pletarli e farli pubblicare in Germania: quel valentuomo,
narrava Giacomo alla sua cara Pilla (15 novembre 1830),
lo aveva « trombettato in Firenze per tesoro nascosto, per
filologo superiore a tutti i filologi francesi », e prometteva
« di così trombettarlo per tutta l'Europa». Dalla stampa di
quelle schede, che gli eran costate « lavori immensi », a
Giacomo si lasciavano sperare a danari e un gran nome ».
122 LA VITA DEL POETA
Ma al De Sinuer non fu possibile mettere insieme con quegli
appunti se non un fascicoletto di Excerpta ex schedis crìticis
Jacobi Leopardi, clie fu edito a Bonn nel Museo Renano,
e poi a parte, il 1834, con piccolo e tardivo vantaggio fi-
nanziario. Comunque, del proemio pieno di benevolenza,
e dei criterii onde la scelta fu fatta, il Leopardi si mostrò
molto grato al suo < eccellBnte e carissimo e prezioso e ottimo
amico » 1, Il Saggio sugli errori popolari degli antichi Gia-
como avrebbe desiderato <( venderlo tal qual è in anima e in
corpo, cioè anche per il nome •>, convinto com'era che da
quel libro non gli potesse oramai venire onore alcuno ^.
Intanto, nel marzo del 1831, la piccola patria aborrita
gli dava una solenne testimonianza di stima. Radunato,
ad invito del Governo provvisorio di Macerata e provincia,
il Consiglio comunale, il 19 di quel mese (presente anche il
conte Monaldo, membro del Comitato), per eleggere il de-
putato distrettuale da spedire all'Assemblea Nazionale di
Bologna, ^ sentito il desiderio unanime dei signori consi-
glieri », il Gonfaloniere proponeva il conte Giacomo ; e
« non ostante la ripetuta generale acclamazione », portata
la scelta allo scrutinio segreto « per la completa sua lega-
lità », essa « ottenne ventuno voti favorevoli, nessun voto
contrario ». Ma Giacomo rimase deputato, com'a dire, in
* Cfr. le lettere di Giacomo al De Sinner, da Napoli, 3 ottobre
1835, 25 gennaio e 6 aprile 1836. Anche: D'Ovidio, Saggi critici, pa-
gine 652-53; e ZuMBixi, Saggi critici, Napoli 1876, p. 46-8.
* Scriveva al De Sinner, da Firenze, il 17 febbraio 1831: « Pour
ce qui est de l'Essai sur les erreurs populaires, je consentirais à le vendre
méme pour le nom, c'est-à-dire à ce qu'il fùt publié sous le nom d'un
autre; car, croyez-moi, sans le réfondre entièrement, il est impossible
de le rendre capable de nous faire honneur ». Più tardi, nel maggio,
insisteva ancora: «Non ostante l'indulgenza colla quale voi giudicate
del Saggio su gli errori popolari, io sinceramente persisto a credere
che il venderlo tal qual è in anima e in corpo, cioè anche per il nome,
sia il migliore, e forse il solo uso che possa farsene. E se ciò si potesse
presentemente far con profitto, io ve ne pregherei. V'assicuro ch'io
sono intimamente convinto che da quel libro non possa venirmi onore
alcuno; e però la questione è di trarne la maggior somma possibile
di danaro ».
A ROMA, l'autunno 1831 123
partibus; giacché TAssemblea era convocata pel 20, e il
21 in Bologna entrarono gli Austriaci I ^
Il 19 maggio, « il suo tenero Giacomo » poteva vantarsi
col padre di stare « straordinariamente bene per la straor-
dinaria bontà della stagione, che a Firenze da tre mesi e mezzo
era perfetta e non interrotta primavera ». Ma, ripigliava,
« né occhi né testa non hanno ricuperato un solo menomis-
simo atomo delle loro facoltà, perdute certamente per
sempre ». L'estate gli giovò non poco, così che tutti gli
dicevano ch'egli era « diventato come un altro ». Tuttavia
l'impossibilità di applicare rimaneva sempre la stessa, cosi
che riuscivano inutili tutti i tentativi, ch'ei pur faceva
« ostinatamente ogni giorno, per leggere o scrivere ».
11 lo d'ottobre, ecco che Girfcomo parte improvvisamente,
in compagnia del Eanieri, per Roma. Le ragioni di quella
quasi fuga rimasero un mistero per tutti, a Firenze come a
Recanati. (Vi torneremo sii, a proposito del Consalvo). Vi
giunse, K dopo un noioso e faticoso viaggio », il 5. « Mi trovo
come straniero in questo paese », scriveva al Vieusseux,
« dopo aver lungamente considerata la Toscana quasi mia
patria, e questi costumi mi riescono piti assurdi ch'io non
credeva ». E al fratello: « Non é il minor dei dolori che provo
in Roma, il vedermi quasi ripatriato: tanta parte di ca-
naglia recanatese, ignota in tutto il resto del globo, si trova
in questa città ». Nel novembre, vi si ammalò. Riavutosi,
si dà a inveire contro il « pavimento infame, infernale »,
delle vie di Roma, e contro le enormi distanze. Il 22 di-
cembre, scrive al padre: «Assolutamente colle mie gambe
sempre deboli, in questa città che non finisce mai...., io
^ Cfr. Carducci, G. L. deputato, nelle Prose, Bologna 1906, p. 1327
ss. — Tra gli Scritti vari inediti, p. 453-55, sono state pubblicate due
earatteristiehe lettere di Monaldo, del 19 e 21 marzo, per persuadere
Giacomo a schermirsi e non accettare l'onorevole ufRcio. « Non ho po-
tuto impedire tale elezione », ?:li dice. « sulla quale non si volle che aprissi
bocca ; e in fondo non mi è dispiaciuto che la Città vi abbia dimostrata
la sua fiducia. Sarei però molto dolente se vi vedessi accettare l'inca-
rico, in questi momenti di somma incertezza nei quali ogni uomo saggio
pensa a non compromettere sé stesso e la sua famiglia ».
124 LA VITA DEL POETA
non riesco a far nulla né per il dovere né per il piacere. Ed
Ilo già rinunziato alla speranza di goder mille infinite belle
cose di Roma, perchè queste distanze non fanno per, me,
e le carrozze o i fiacres molto meno ». Sospirava, ohimè,
di tornare a Firenze; ma e dopo? Il pauroso fantasma di
Recanati si riaffacciava alla fantasia sgomenta. Scrive al
De Sinner. il 24:
Io tornerò certamente a Firenze alla fine deirinverno, per restarvi
tanto quanto mi permetteranno i miei piccoli mezzi, già vicini ad esau-
rirsi: mancati* quali, l'abborrito e inabitabile Piecanati mi aspetta, se
io non avrò il coraggio (che spero avere) di prendere il solo partito
ragionevole e virile che mi rimane.
L"8 marzo 1832, si vede costretto «da estrema neces-
sità » a chiedere, per la prima volta, danari al padre. « Se
trovassi qui danari in prestito », soggiunge, « volentieris-
simo farei un debito piuttosto che molestarla; ma chi vor-
rebbe prestare a me, conoscìutissimo per quel clje sono ^ ».
E il 17 replicava:
Oggi parto per Firenze. Torno a raccomandarmi a Lei, trovan-
domi propriamente coll'acqua alla gola, perchè non ho potuto ritardar
neppur di un giorno di più la mia partenza ; e dall'altra parte, arriverò
a Firenze con tanto danaro quanto mi potrà bastare a vivere una set-
timana. Ella vede l'urgenza della mia situazione, e L'assicuro che
nemmeno in termine di morte aprirei bocca per dimandare in prestito
a chicchessia, essendo più che certissimo che vedrei impallidire la per-
sona a cui domandassi, perchè tutti sanno ch'io non ho nulla.
Monaldo, il crudele Monaldo, si affrettò a soccorrerlo.
Il 22, Giacomo, neUa fida compagnia del Ranieri ^, rimise
^ Sull'amicizia del Ranieri pel Leopardi, che ha dato negli ultim
tempi a molti da dire, da pensare e da scrivere, cfr. F. Ribella, Una
sventura postuma di G. L., Torino 1897; F. D'Ovidio, L. e Ranieri
nella «Nuova Antologia» dej^ 1° marzo '97; G. TAORinxA, Ranieri
e L., Palermo 1899; F. P. Luise, Ranieri e L., storia di una edizione,
Firenze 1899; L. A. Villari, L. e Ranieri, nel « Fortunio » del 25 gen
naio '98; A prop. di un opusc. leopardiano, nella « Biblioteca Italiana »
a. IV, n. 4 ; e Ancora un opusc. leopard. « A conti fatti », conclude il
D'Ovidio, «resta sempre al Ranieri il merito d'essersi volto al L. con
un impeto di fraterna simpatia, di averlo rimorchiato qui dov'ebbe
A FIRENZE, LA PRIMAVERA 1832 125
piede a Firenze: oramai avrebbero abitato insieme, sempre
e dovunque. Ma com'eran mutate, e come rapidamente
mutavano, pur le condizioni e la vita della metropoli to-
scana! Al Segretario dell'Accademia della Crusca che gli
aveva partecipata la nomina di Socio corrispondente, egli,
il 27, rispondeva, ringraziando, di non riconoscere in sé
alcun merito a quell'onore, « se non si volesse chiamar
merito l'amore immenso e indicibile ch'io porto », scriveva,
« a questa cara e beata e benedetta Toscana, patria d'ogni
eleganza e d'ogni bel costume, e sede eterna di civiltà; la
quale ardentemente desidero che mi sia conceduto di chia-
mare mia seconda patria, e dove piaccia al cielo che mi
sia lecito di consumare il resto della mia vita, e di render
l'ultimo respiro». Ohimè! I moti del '30 e del '31 avean
reso sospettoso e tirannico il governo granducale. Degli
amici più cari, il Colletta era morto l'il novembre, poche
ore avanti che gli fosse intimato lo sfratto dalla Toscana;
già prima, il Giordani era stato bandito; altri avevan pre-
venute codeste misure poliziesche e s'erano allontanati
spontaneamente. Lt' Antologia del Yieusseux era in sospetto.
Al Ranieri, mortagli la madre, era stato sospeso ogci as-
segno; tanto piti che, con l'avvenimento al trono di Fer-
qualche anno di buona salute, d'averlo circondato di cure e d'assistenza,
d'aver attirato su lui le pronte premure e le facili simpatie meridionali
di tutto un parentado e d'una frotta di amici. Ci sarà stata della va-
nità anche in tutto questo, come pur della spensieratezza giovanile;
ma certo che il L. si senti felice di quell'amicizia, e non è poco.... Vi
.son degli uomini assai imperfetti, il cui carattere merita molte censure,
ma che pure a conviverci ti danno conforto, per una certa premura
bonaria, per l'animo espansivo, perchè sanno vivere e t'aiutano a ben
vivere. Par proprio indubitabile che tal fosse il Ranieri per il L., e
almeno questo non gli dovrà esser tolto ». — Il Ranieri era nato in
Napoli nel settembre del 1806; fu amico di Carlo Troya; conobbe il
Leopardi a Firenze, nel Gabinetto Yieusseux, il 29 giugno 1827; vi-
sitò, oltre l'Italia, la Svizzera, la Francia, l'Inghilterra; scrisse due
romanzi, Ginevra e Frate Rocco, e una Storia d'Italia dal V al JX secolo;
fu deputato della città nativa al primo Parlamento italiano, poi se-
natore dal novembre del 1883; e morì a Portici il 4 gennaio 1888. Cfr.
F. S, Arabia, San Vitale alla tomba di G. Leopardi, nel voi. di L. A.
.ViLLAKi, / tempista vita ecc. di F. S, Arabia, Firenze 1903, p. 614 «s.
126 LA VITA DEL POETA
dinaudo II, agii esuli napoletani era stata concessa la fa-
coltà di rimpatriare, e 1" amico di Giacomo invece si mo-
strava « risoluto di perire piuttosto che seppellirsi in un
paese dove tutto il mondo sa come si viva » ^. Per non morir
di fame, i due sodali immaginarono di fondare una rivista
settimanale, che avrebbe avuto per titolo Lo Spettatore
fiorentino. Trovarono anche l'editore, che fece loro ottime
condizioni; stesero il manifesto (che è una bella pagina
d'umorismo schietto, scoppiettante dun riso che è «una
sorta di pianto ») ^; ma all'ultima ora il Consiglio dei Mi-
nistri ne vietò la pubblicazione.
11 3 luglio, ridotto agii estremi, Giacomo espose piìi
chiaramente al padre il vero stato delle sue condizioni eco-
nomiche, fisiche, morali. Questa è forse, fra le tante tri-
stissime, la lettera piìi desolata dell'Epistolario.
Io credo ch'Elia sia persuasa degli estremi sforzi ch'io ho fatti per
flette armi affine di procurarmi 1 mezzi di sussistere da me stesso. Ella
sa che l'ultima distruzione della mia salute venne dalle fatiche soste-
nute quattro anni fa, per lo Stella, al detto fine. Ridotto a non poter
più né leggere né scrivere né pensare (e per più di un anno né anche
parlare), non mi perdetti di coraggio, e quantunque non potessi più
fare, pur solamente col già fatto, aiutandomi gli amici, tentai di con-
tinuare a trovar qualche mezzo. E forse l'avrei trovato parte in Italia,
parte fuori, se l'infelicità straordinària de' tempi non fosse venuta
a congiurare colle altre difficoltà, ed a renderle finalmente vincitrici....
Mi trovo dunque, com'Ella può ben pensare, senza i mezzi di andare
innanzi. — Se mai persona desiderò la mòrte così sinceramente e vi-
vamente come la desidero io da gran tempo, certamente nessuna in
ciò mi fu superiore. Chiamo Iddio in testimonio della verità di queste
mie parole. Egli sa... come ad ogni leggera speranza di pericolo vi-
cino o lontano, mi brilli il cuore dall'allegrezza. Se la morte fosse in
mia mano, chiamo di nuovo Iddio in testimonio ch'io non Le avrei
mai fatto questo discorso; perché la vita in qualunque luogo mi è ab-
bominevole e tormentosa. Ma non piacendo ancora a Dio d'esaudirmi,
io tornerei costà a finire i miei giorni, se il vivere in Recanati, soprat-
tutto nella mia attuale impossibilità di occuparmi, non superasse le
gigantesche forze ch'io ho di soffrire... Io sono invariabilmente risoluto
di non tornare stabihnente costà se non morto. Io ho un estremo de-
* « Dove voi sapete e sa tutto il mondo.... ■, scrivevi! il Lfoi)ar.li
Hunsen, da Roma, il IG marzo 1832.
* Ristampato dal Mestica negli Scritti letterari di fi. L., II, 379 ss.
A FIRENZE, l'estate 1832 127
siderio di riabbracciarla, e solo la mancanza de' mezzi di viaggiare
ha potuto e potrà nelle stagioni propizie impedirmelo ; ma tornar costà
senza la materiale certezza di avere il modo di riuscirne dopo uno o
due mesi, questo è ciò sopra di cui il mio partito è preso, e spero che
Ella mi perdonerà se le mie forze e il mio coraggio non si estendono
fino a tollerare una vita impossibile a tollerarsi. — Non so se le cir-
costanze della famiglia permetteranno a Lei di farmi un piccolo as-
segnamento di dodici scudi il mese. Con dodici scudi non si vive uma-
namente neppure in Firenze, che è la città d'Italia dove il' vivere è
pili economico. Ma io non cerco di vivere umanamente. Farò tali pri-
vazioni che, a calcolo fatto, dodici scudi mi basteranno. Meglio var-
rebbe la morte^. ma la morte bisogna aspettarla da Dio.... — Se le cir-
costanze, mio caro papà, non Le consentiranno di soddisfare a questa
mia domanda, La prego con ogni possibile sincerità e calore a non
farsi una minima difficoltà di rigettarla. Io mi appiglierò ad un altro
partito, e forse a questo avrei dovuto appigliarmi senza altrimenti
annoiar Lei con questo discorso: ma come il partito ch'io dico, è tale,
che stante la mia salute, non è verisimile che io in breve tempo non vi
soccomba, ho temuto che Ella avesse a fare un rimprovero alla mia
naemoria, dell'averlo abbracciato senza prima confidarmi con Lei
sopra le cose che Le ho esposte.... Ho perfino desiderato, ed ancora
desidererei, che mi fosse tolta la possibilità di ogni ricorso alla mia
famiglia, acciocché non potendo io mantenermi da me, e molto meno
essendomi possibile il mendicare, io mi trovassi nella materiale, pre-
cisa e rigorosa necessità di morir di fame.
Nonostante i mai conjoìii di qualche troppo zelante
congiunto, il quale consigliava di resistere così che il liberale
figliuolo fosse costretto a capitolare per fame ^, il reazio-
nario Monaldo capitolò lui: di che il figlio gii si mostrò gra-
tissimo. Ma l'assegno quel padre interdetto non poteva né
prometterlo né corrisponderlo senza il consenso dell'avara
tesoriera; ond'ei sollecitò Giacomo a scriverle direttamente.
Si capisce come la ripugnanza a far quest'ultimo passo fosse,
nel figlio, enorme; pure, nel novembre, il bisogno ve lo
obbligò, e Creda, mia cara mamma », egli scrisse il 17,
« che il darle questa noia é mille volte più penoso a me che
a Lei ». Non domandava per sé, ch'era fuori di casa, « se
non l'assegnamento accordato a Carlo », eh" era sempre a
Recanati. La Contessa rispose con « poche righe », ma tali
che pur valsero a commuovere quell' infelicissimo.
^ Cfr. Xuovi documenti ecc., p. xxrsT.
128 LA VITA DEL POETA
XYII.
Il Leopardi va a Napoli (2 settembre 1833). — Clemenza del
clima e inclennenza degli abitanti. — La cultura filosofica
a Napoli e la satira « I nuovi credenti ». — La rivista
« Il Progresso ». — La visita del Leopardi alla Scuola
del Puoti. — La visita del Platen al Leopardi.
Il quale, dall'agosto (1832), viveva più che mai solo a
Firenze, infermiccio e triste. L'amico napoletano, con da-
naro procuratogli da lui, era tornato a casa, per regolarvi
i suoi affari. E Giacomo, Jn principio del 1833, si ammalò
così seriamente da destare viva apprensione negli amici e
nei parenti. Ai quali, il 6 maggio, scrive per confortarli:
Care mie anime, vede Iddio ch'io non posso, non posso scrivere;
ma siate tranquillissimi, io non posso morire: la mia macchina (cosi
dice anche il mio eccellente medico) non ha vita bastante a concepire
una malattia mortale.
Il Ranieri era finalmente tornato, la sera del 20 aprile;
e Giacomo pareva alquanto rimesso della nuova, lunga,
« brutta e minacciosa malattia intorno agli ocelli, uno de'
quali era già semichiuso ». Il 1° settembre, egli détta al-
l'amico pel padre, solo di sua mano aggiungendo i saluti:
Alla mia salute, che non fu mai così rovinata come ora, avendomi
i medici consigliato come sommo rimedio l'aria di Napoli, un mio
amicissimo che parte a quella volta ha tanto insistito per condurmi
seco nel suo legno, ch'io non ho saputo resistere, e parto con lui do-
mani.... Sono costretto a servirmi della mano altrui, perchè quelle
poche ore della mattina, nelle quali con grandissimo stento potrei
pure scrivere qualche riga, le spendo necessariamente a medicarmi
gli occhi. Mi benedica.... Le bacio la mano con tutta l'anima.
Dopo una breve sosta a Roma, il 30 si rimisero in cam-
mino, e la sera del 2 ottobre i due amici arrivarono a Na-
poli. Il 5, Giacomo riscriveva di lì al padre:
A NAPOLI, LA PRIMAVERA 1834 129
Givmsi qua felicemente, cioè senza danno e senza disgrazie. La
mia salute, del resto, non è gran cosa, e gli occhi sono sempre nel me-
desimo stato. Pure la dolcezza del clima, la bellezza della città e l'in-
dole amabile e benevola degli abitanti mi riescono assai piacevoli.
Ma nel marzo successivo (1834), sentendo anclie laggiù
riaggravarsi i suoi mali, pensa nientemeno che di -andare,
col Kanieri, a Parigi, dove già si trovavano da qualche
tempo Gioberti e Alessandro Poerio ^. Domanda consiglio
al De Sinner, che pur vi risiedeva.
10 per molte e fortissime ragioni sono desiderosissimo di venire
a terminare i miei giorni a Parigi. La mia salute non mi spaventa più,
A Napoli mi sono convinto che il nord e il mezzogiorno sono per lo
meno indifferenti ai miei mali. Le difficoltà stanno nei mezzi; e più
nei mezzi di giungere costà che di viverci; perchè, giunto una volta,
spero che non sarebbe difficile di trovar costà da vivere così econo-
micamente come sapete ch'io vivo in Italia,
Si proponeva di dirigervi una nuova collezione di Clas-
sici italiani. Ma l'amico s'affrettò a rispondergli che codesta
impresa non era neanche da tentare, che a Parigi bisognava
andare preparati a tornarsene dopo qualche mese, e che
l'unica maniera fruttuosa di lavorare colà sarebbe stata
di scrivere in qualche Rivista. Oh si ! E anche l'idea di quel
viaggio sfumò. Per fortuna, un certo miglioramento nella
salute rendeva quel poveretto meno impaziente di fare
schermo al dolore mutando dimora. 11 5 aprile, scrive al
padre:
11 giovamento che mi ha prodotto questo clima è appena sensi-
bile: anche dopo che io sono passato a godere la migliore aria di Napoli
abitando in un'altura a vista di tutto il Golfo, di Portici e del Vesuvio,
del quale contemplo ogni giorno il fumo ed ogni notte la lava ardente.,.
La mia impazienza di rivederla è sempre maggiore, ed io partirò da
Napoli il più presto ch'io possa, non ostante che i medici dicano che
l'utilità di quest'aria non si può sperimentare che nella buona sta-
gione.
^ Pei rapporti tra il Recanatese e codesto gentile ed eroico poeta
napoletano, che, di quattro anni più giovane di lui, lasciò nobilmente la
vita, il 3 novembre 1848, a Venezia, in conseguenza delle ferite toc-
categli il 27 ottobre a Mestre, cfr, A. de Gennaro ^Ferrigni, Leopardi
e Poerio, Napoli 1898.
9. — G. Leopardi.
130 LA VITA DEL POETA
E all'Adelaide Maestri, lo stesso giorno:
L'aria di Napoli mi è di qualche utilità; ma nelle altre cose questo
soggiorno non mi conviene molto.... Spero che partiremo di qua in
breve, il mio amico ed io. Non so aneora per qual luogo.
Il 2 settembre, al padre:
La cura de' miei occhi, grazie a Dio, è andata assai bene, e sono,
si può dir, guariti del male esterno: l'interno non è curabile.
E il 21 ottobre:
Io sto, grazie a Dio, assai benino, e spero di non farle paura al mio
arrivo [a Recanati], come -avrei fatto qualche mese addietro.
E ancora il 27 novembre :
Risolvendosi, come pare, il mio amico Ranieri a partire per Roma
nel mese entrante, io sono risolutissimo di mettermi in viaggio mal-
grado il freddo; perchè oltre l'impazienza di rivederla, non posso più
sopportare questo paese semibarbaro e semiaffricano, nel quale io
vivo in un perfettissimo isolamento da tutti.... La mia salute, grazie
a Dio, è molto tollerabile, e perfino io leggo un pochino e scrivo, attesa,
credo, la benignità non ordinaria della stagione passata e presente.
Nel dipingere con tinte così fosche lo stato intellettuale
di Napoli e la cortesia dei Napoletani, il Leopardi metteva
la sua solita esagerazione. Nei primi anni del regno di Fer-
dinando II, invece, un notevole risorgimento in tutte le
parti delle cultura aveva avuto principio laggiù. « Ciò che
di meglio produsse qui la filosofia », osserva lo Zumbini ^,
«è rappresentato dalle opere del Galluppi; e quant'altro
fuori di quelle fu scritto coll'intendimento di combattere
l'empirismo francese e il razionalismo tedesco allora do-
minanti, non pare essere stato tale da lasciar traccia dure-
vole. Unico pensator vero, dunque, il filosofo di Tropea.
Al tempo cui si riferisce il presente discorso, egli aveva già
dato alla luce la maggior parte delle opere che di lui ab-
biamo; nelle quali sono ammirevoli e le speculazioni sue
* Il Leopardi a Napoli, Napoli 1898, p. 7 ss.; ora negli Studi sul
Leopardi, II, 235 sa.
I NUOVI CREDENTI 131
proprie e le interpretazioni dei maggiori sistemi filosofici
moderni, studiati anche nelle origini e messi in relazione
fra loro ». Il De Vincenzi e Luigi Blanch si mostravano
« piuttosto atti a interpretare il pensiero altrui, che ricchi
di pensiero proprio ». Ma in generale il carattere comune a
tutti quei nostri cultori di filosofia era « un'aperta predile-
zione per l'idealismo e per le dottrine spiritualistiche av-
verse a quel sensismo che fino a poco tempo innanzi aveva
tenuto il campo ». Codesto nuovo moto d'idee, del quale
uno dei più insigni campioni fu il padre Ventura, e codesto
fervore di animi, « eran venuti sempre crescendo sino al
tempo che il Leopardi giunse a Napoli. Anche qui dunque
il sentimento cristiano ricominciava a informar di sé tutta
la cultura; e coll'idealismo filosofico si congiungeva un tal
quale guelfismo nella storia e nell'arte »: il che soprattutto
dava noia al solitario pessimista, e acuiva in lui l'antica
avversione, ereditata dai filosofi francesi del secolo prece-
dente, al secolo suo. Gli pareva una universale viltà codesta
dei degeneri figliuoli di Rousseau e di Voltaire, plaudenti
ora alla nuova democrazia cristiana; e aborriva e derideva
perciò cordialmente « le scuole teologiche tutte : così quelle
che dai dommi cristiani inferivano la necessità del governo
assoluto, come quelle che li interpretavano in maniera op-
posta: le une e le altre, fondandosi sulla cieca fede e sugli
stessi falsi principii, riuscivano a privar gli uomini d'ogni
fierezza, cioè del solo bene che potessero avere in tanta mi-
seria di destini ». Xel sermone I nuovi credenti, scoperto
tra le carte napoletane, il Leopardi schernì e flagellò co-
storo; e ricordò ad essi che in fin dei conti nelle sue opere
egli non aveva espresso concetti molto diversi da quelli
di Giobbe e di Salomone I Scritto tutto di mano del Ranieri,
tra il 1835 e il '37, il sermone comincia:
Ranieri mio, le carte ore l'umana
Vita esprimer tentai, con Salomone
Lei chiamando, qual soglio, acerba e vana,
Spiaccion dal Lavinaio al Chiatamone,
Da Tarsia, da Sant'Elmo insino al Molo,
E spiaccion per Toledo alle persone.
132 LA VITA DEL POETA
Di Ghiaia la Riviera, e quei che il suolo
Impinguali del Mercato, e quei che vanno
Per l'erte vie di San Martino a volo;
Capodimonte, e quei che passan l'anno
In sul Caffè d'Italia, e in breve accesa
D'un concorde voler tutta in mio danno
S'arma Napoli a gara alla difesa
De' maccheroni suoi; ch'ai maccheroni
Anteposto il morir, troppo le pesa.
E comprender non sa, quando son buoni.
Come per virtù lor non sien felici
Borghi, terre, Provincie e nazioni.
Che dirò delle triglie e delle alici?
Qual puoi bramar felicità più vera
Che far d'ostriche scempio infra gli amici?
Sallo Santa Lucia, quando la sera.
Poste le mense, al lume delle stelle.
Vede accorrer le genti a schiera a schiera,
E di frutta di mare empier la pelle.
Ma di tutte maggior, piena d'affanno,
Alla vendetta delle cose belle
Sorge la voce di color che sanno,
E che insegnano altrui dentro ai confini
Che il Liri e un doppio mar battendo vanno ^
Tuttavia, è innegabile che di quei tempi pur a Napoli
c'era come un promettente rifiorire d'una nuova cultura.
Insigne documento ne rimane nella rivista II progresso,
che si cominciò a pubblicare nel '32. Vi collaboravano il
Galluppi, il botanico Michele Tenore, Carlo Troya, il geo-
logo Leopoldo Pilla da Yenafro, morto poi a Curtatone,
l'archeologo Francesco M. Avellino, il Pisanelli, Michele
Ruggiero. « È facile argomentare qual alto posto ci avesse
in ispecie la storia, mercè l'opera di quel Troya, che, come
altri sommi preparatori del nostro risorgimento scientifico
e nazionale, oggi par quasi generalmente dimenticato; ma
che, anche come quelli, risplende più vivo che mai alla
vista di quanti sanno volgersi al passato con tutto l'amore
e la riverenza che sempre gli sono dovuti ». Con codesta
Rivista si tentava di compiere anche nel Mezzogiorno quanto
Scritti vari inediti, p. 3-4.
IL MARCHESE PUOTI 133
era stato già fatto in altre regioni d'Italia, mavssime in To-
scana con V Antologia: « affratellare gl'ingegni e gli animi,
affinchè (sono parole del proemio stesso) colla maggiore
efficacia potessero adoperarsi a prò della patria nostra, a
prò della patria italiana » ^.
Di quegli anni poi a Napoli prosperava lo Studio del
marchese Puoti; e al maestro e ai discepoli tornava gradito
dimostrare al prodigioso ospite la maggiore stima e sim-
patia. Un di quei giovani, che di lì a poco sarebbe stato il
più eloquente è affascinante apostolo della grandezza del
nuovo poeta, Francesco de Sanctis, narra nelle sue Me-
morie 2 :
Una sera il Marchese ci annunziò una visita di Giacomo Leopardi;
lodò brevemente la sua lingua e i suoi versi. Quando venne il dì, grande
era l'aspettazione. Il Marchese faceva la correzione di un brano di
Cornelio Nipote da noi volgarizzato; ma s'era distratti, si guardava
all'uscio. Ecco entrare il conte Giacomo Leopardi. Tutti ci levammo
in pie, mentre il Marchese gli andava incontro. Il Conte ci ringraziò,
ci pregò a voler continuare i nostri studi. Tutti gli occhi erano sopra
di lui. Quel colosso della nostra immaginazione ci sembrò, a primo
sguardo, una meschinità. Non solo pareva un uomo come gli altri,
ma al disotto degli altri. In quella faccia emaciata e senza espressione,
tutta la vita s'era concentrata nella dolcezza del suo sorriso. Uno degli
Anziani di Santa Zita [così scherzosamente il Puoti chiamava i disce-
poli più segnalati e più antichi] prese a leggere un suo lavoro. Il Mar-
chese interrogò parecchi, e ciascuno diceva la sua. Poi si volse improv-
viso a me: — E voi cosa ne dite, De Sanctis ? — C'era un modo con-
venzionale in questi giudizi... Parlai una buona mezz'ora, e il Conte
mi udiva attentamente, a gran sodisfazione del Marchese, che mi vo-
leva bene. Notai, tra parecchi errori di lingua, un onde con l'infinito.
Il Marchese faceva .si col capo. Quando ebbi finito, il Conte mi volle
a sé vicino, e si rallegrò meco, e disse che io aveva molta disposizione
alla critica. Notò che nel parlare e nello scrivere si vuol porre mente
più alla proprietà de' vocaboli che all'eleganza: una osservazione acuta,
che più tardi mi venne alla memoria. Disse pure che quell'onde coll'in-
flnito non gli pareva un peccato mortale, a gran maraviglia e scandalo
di tutti noi. Il Marchese era affermativo, imperatorio, non pativa
* Zu>iBiNi, Studi sul Leopardi, II, 242.
* La giovinezza di Francesco de Sanctis, frammento autobiografico
pubblicato da Pasquale Villari, Napoli 1894, p. 99-102; e Prose
scelte di F. de Sanctis, a cura di M. Scherillo, Napoli 1916, I, 62-5.
134 LA VITA DEL POETA
con tradizioni. Se alcuno di noi giovani si fosse arrischiato a dir cosa
simile, sarebbe andato in tempesta; ma il Conte parlava così dolce
e modesto, ch'egli non disse verbo. — Nelle cose della lingua, disse,
si vuole andare molto a rilento; e citava in prova II torio e il diritto
del padre BartoJi. Dire con certezza che di questa o quella parola o
costrutto non è alcuno esempio negli scrittori, gli è cosa poco facile. —
Il Marchese, che, quando voleva, sapeva essere gentiluomo, usò ogni
maniera di cortesia e di ossequio al Leopardi, che parve contento quando
andò via. La compagnia dei giovani fa sempre bene agli spiriti solitari.
Parecchi cercarono di rivederlo presso Antonio Ranieri, nome vene-
rato e caro; ma la mia natura casalinga e solitaria mi teneva lontano
da ogni conoscenza, e non vidi più quell'uomo che aveva lasciato un
così profondo solco nell'anima mia '.
Nei primi giorni dell" aprile 1834, il Leopardi fu ancke
couosciuto, nella Napoli adorata, da Augusto Platen (nato
ad Ansbach in Franconia il 24 ottobre 1796; morto a
Siracusa il 5 dicembre 1835): il raffinato ed elegantissimo
artefice del verso, a cui mancò per esser poeta quella fa-
coltà che soprabbondava nel nostro, l'amore. Nel suo
Diario, sotto la data del 5 settembre 1834, egli annotò:
Il primo aspetto del Leopardi, presso il quale il Ranieri mi con-
dusse il giorno stesso che ci conoscemmo, ha qualche cosa di assolu-
tamente orribile, quando vmo se l'è venuto rappresentando secondo
le sue poesie. Leopardi è piccolo e gobbo, il viso ha pallido e sofferente,
ed egli peggiora le sue cattive condizioni col suo modo di vivere, poiché
fa del giorno notte e viceversa. Senza potersi muovere e senza po-
tersi applicare, per lo stato dei suoi nervi, egli conduce una delle più
miserevoli vite che si possano immaginare. Tuttavia, conoscendolo
più da vicino, scompare quanto v'è di disaggradevole nel suo este-
riore, e la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo
fare dispongon l'animo in suo favore. Io lo visitai spesso..... Il Leopardi
è ancora in peggiori rapporti [che non il Ranieri], se questo è possi-
bile, col proprio padre, il quale, essendo anch'egli scrittore, vede con
invidia suo figlio, ed è conosciuto in Italia come il più gran sostenitore
' Un altro degli scolari del Puoti, Cesare Dalbono, narra (Scritti
vari, Firenze 1890, p. 256): « Mi ricordo che una sera eravamo in casa
Ferrigni, dove avevamo condotto con non poca fatica il conte Leo-
pardi. Leopardi a un divano e Carlo Troya vicino a lui su di una sedia.
Parlavano di geografia antica ». — Il carissimo Dalbono, che fu lucido
scrittore, e narratore garbato, e critico arguto di arte e di letteratura,
mori nel 1889 in Napoli, dov'era nato nel 1814.
IL PLATEN 135
del papato e dell'assolutismo. A quel che pare, ep:li lascia il figliuolo
privo di qualsiasi sostegno. Peggiore ancora dev'essere sua madre '.
E in ima lettera da Firenze air amico Fugger, del 25
novembre, il Platen soggiungeva: •
Il Leopardi è un eccellente poeta lirico, e probàbilmente tu avrai
letto qualche cosa di lui. È di Recanati; è malamente cresciuto e mal
ridotto in salute, e ne deriva che anche l'immaginazione contribuisce
a fare in modo ch'egli non possa per niente applicarsi. Infatti egli
siede tutto il giorno nella sua stanza da letto, si spaventa a ogni mi-
nimo colpo d'aria, e non piglia nemmeno un libro in mano. La sua
conversazione è altamente erudita e piacevole. Per il modo in cui vive
non esisterebbe più, se non avesse trovato un amico che si sacrifica
per lui e tutto fa per lui ^.
XVIIL
Il Leopardi a Napoli in compagnia del Ranieri. — Il disegno
d\indare a Palermo. — La ristampa napoletana dei
« Canti », e il rigore della Censura. — L'epidemia, cole-
rica. — Le ultime lettere. — La morte.
Il Platen, forse esagerando con buone intenzioni le
confidenze indiscrete e già esagerate avute dal Ranieri,
asseriva che il poeta vivesse in casa dell'amico « probabil-
mente del tutto a spese di lui ». Il che non era e non fu mai.
I due sodali contribuirono presso che ugualmente alle spese
della casa e del mantenimento comune; e tutfal più, in
qualche momento, codesto dispendio potè sembrare, come
^ Cfr. C. DE LoLLis, Augusto Plateri-Hallermunde, Roma 1897,
dalla « Nuova Antologia », p. 64-5. — Il 18 gennaio 1861, il Ranieri
lesse alla R. Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti di Napoli
una sua Notizia sul Platen « scritta nel 1836, poco dopo la morte del-
l'illustre poeta ».
* Questo, e altri brani di lettere e di poesie, tradusse e illustrò Eu-
genio Mele, A. von Platen in Najìoli e la sua amicizia col Leopardi,
nel te Corriere di Napoli ', del 2 ottobre 1898. — Sulle odi di A. von
Platen cfr. anche il Saggio di G. Surra, Civitanova, Natahicci, 1898.
136 LA VITA DEL POETA
con l'usata arguzia ebbe a dire il D'Ovidio, «un distico in
cui Giacomo tacesse la parte del pentametro ». Certo, a
Napoli, le condizioni finanziarie del povero ammalato, inetto
oramai a qualunque applicazione, non potevano esser flo-
ride; ed egli si vedeva costretto a far continue tratte sul
2)adre. I facili denigratori del Kanieri non mi pare che ten-
gano nel debito conto la schietta dichiarazione che questi
ebbe a fare al conte Monaldo appena dodici giorni dopo la
morte di Giacomo. « Ora m'avanza a dirle un'altra parola
per Sua tranquillità », scrisse, « e questa m'esce dal più
profondo della mia sviscerata amicizia ; ed io La scongiuro
di accettarla con quel sentimento affettuoso di consola-
zione al cuore d'un padre che me la detta. Questa parola
è, che Giacomo non è vissuto in grande strettezza » ^.
Umiliato e rattristato, Giacomo prometteva prossimo
il ritorno a casa; ma un tal passo gli riusciva troppo amaro:
tanto amaro, che poco è più morte. Il dolce clima parte-
nopeo gli era cortese di vita ; come decidersi a incamminarsi
verso l'inamabile Recanati? Facilis descensus Averno, sed
revocare gradum, hoc opus! 11 2 maggio '35, scriveva alla
Tommasini:
La mia salute, o per benefizio di questo clima, o del luogo salubre
ohe abito, o per altra ragione, è migliorata straordinariamente; e
quest'inverno ho anche potuto un poco leggere, pensare e scrivere.
E al De Sinner, il 3 ottobre, mandandogli l'edizione
napoletana dei Canti, soggiungeva:
Io, dopo quasi un anno di soggiorno in Napoli, cominciai final-
mente a sentire gli effetti benefici di quest'aria veramente salutifera:
ed è cosa incontrastabile ch'io ho ricuperato qui più di quello che forse
avrei osato sperare. Nell'inverno passato potei leggere, comporre e
scrivere qualche cosa; nella state ho potuto attendere (benché con
poco successo quanto alia correzione tipografica) alla stampa del vo-
lumetto che vi spedisco; ed ora spero di riprendere ancora in qualche
parte gli studi, e condurre ancora innanzi qualche cosa durante l'in-
verno.... Io sono a Napoli sempre, come io era a Firenze, in un modo
precario, ma sempre senza alcuna veduta né alcun disegno positivo
di cambiamento.
Nuovi documenti intorno a O. L., p. 249.
IL COLERA DEL 1836 137
Pare che in quel tempo egli vagheggiasse auche una
gita a Palermo. « Sapete », scriveva il 21 luglio '35 Tom-
maso Gargallo a un. amico di laggiù, « che anche il conte
Leopardi verrebbe volentieri a trattenersi un sei mesi
costì, per un corso di eloquenza [nell'Università], come si
suol fare da vari professori in Parigi ? » ^. Perchè poi non
andasse, non sappiamo. Ma a Palermo, nel '34, erano stati
ristampati i Canti di sull'edizione fiorentina; e l'editore
G. B. Ferrari s'era messo a trattare, presentato dal Gar-
gallo, col poeta, per un'edizione siciliana di tutte le sue
Opere, in versi e in prosa.
Con la primavera del '36, il miglioramento diventò an-
cora più sensibile ; così che Giacomo potè scrivere il 5 marzo
alla sua amica di Parma:
Io da un anno e mezzo non posso altro che lodarmi della mia sa-
lute, ma soprattutto da che, circa un mese fa, sono venuto ad abitare
in un luogo di questa città quasi campestre, molto alto, e d'aria asciut-
tissima, e veramente salubre. Vengo scrivacchiando, non quanto, per
raio passatempo, vorrei; perchè debbo assistere ad una raccolta che
si fa qui delle mie bagatteUe.
Ma ben presto la Censura — per « mal fondati scrupoli »,
assicurava il Ranieri a Monaldo nel luglio del '37 — proibì
che la ristampa delle Opere proseguisse, dopo il secondo
volume; anzi neanche questo lasciò vendere. «La mia filo-
sofìa », osservava amaramente Giacomo, « è dispiaciuta ai
preti, i quali e qui ed in tutto il mondo, sotto un nome o
sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente
tutto ».
Intanto, nell'autunno, scoppiò terribile in Xapoli l'epi-
demia colerica; e il poeta della Ginestra si rifugiò, con l'a-
mico Eanieri, in una villetta ch'è accoccolata sulla costa del
«formidabil monte». Di lassù, il 30 ottobre (1836), Giacomo
scrisse al padre:
^ G. TAORinxA, Il L. e la Sicilia, Palermo 1885,p. ll;eG. CuKCio
BuFAKDECi, Su le poesie giovanili di T. Gargallo, Modica 1910, p. 45-6.
Il Gargallo è il notissimo traduttore di Orazio.
138 LA VITA DEL POETA
.... ma qui nessuno pensa più all'estero, stante la confusione che
produce il cholera in una città così immensa e popolosa come Napoli.
Io fortunatamente aveva potuto prima dello scoppio ritirarmi in cam-
pagna, dove vivo in un'aria eccellente, e in buona compagnia, distante
da Napoli quasi 12 miglia. Sicché Ella stia riposatissima sul conto mio,
perch'io uso tali cautele in qualunque genere, che, secondo ogni di-
scorso umano, prima di me dovranno morire tutti gli altri. Ma do-
vendo in tali circostanze tutto farsi a forza di danari, essendo smisu-
ratamente accresciuti i prezzi d'ogni cosa, ognuno tenendo il suo da-
naro chiuso, e parendo imminente una stretta, in cui non sia neppur
possibile di trarre più sopra l'estero, fui costretto ai 25 di questo, contro
ogni mia precedente aspettativa e disposizione, di valermi straordi-
nariamente sopra lo zio Carlo [Antici] per la somma di 41 colonnati,
con una tratta che solo per favore singolarissimo potei negoziare. M'in-
ginocchio innanzi a Lei ed alla Mamma per pregarli di condonare al
frangente, nel quale si trova insieme con me un mezzo milione d'uo-
mini, quest'incomodo che con estremissima ripugnanza io reco loro.
Un sussidio straordinario di qiiarantuno colonnati!...^
Lo zio li mandò subito, con la dichiarazione che, ove Mo-
naldo non lo avesse voluto concedere, ei li avrebbe messi in
conto degli assegni futuri. Ma Monaldo concesse, o meglio
riuscì a indurre la moglie a concedere. Il pietoso editore
dell'Epistolario aveva bensì ritrovato la lettera di Giacomo
allo zio, del 25 ottobre, e quelle dello zio alla sorella e al
cognato, del 1°, 8 e 15 novembre, ma non quella di Gia-
como al padre ora riferita, né la risposta di Monaldo ! Anzi,
pur della nuova lettera ^el figlio al padre, scritta tra gli
11 e il 15 dicembre, egli non pubblica se non una parte.
Essa getta ancora uno sprazzo di luce sinistra su quella
donna senza cuore, a cui la fortuna, piìi che mai cieca, diede
un figliuolo tanto bisognoso di una madre amorevole.
Io non sapeva come interpretare l'assoluta mancanza di ogni ri-
econtro di costà, in cui sono vissuto fino a oggi che dalla posta mi ven-
gono 7 lettere, tra le quali le Sue care dei 22 oU. e dei 10 nov., e che
* Il Colonnato, così detto perchè l'arme del principe vi si vedeva
scolpita in mezzo a due colonne, era lo Scudo spagnuolo, equivalente
a 5 delle nostre lire. Si chiamava anche Piastra di Spagna o Pezzo
duro.
LE ULTIME LETTERE 139
coi miei infelicissimi ocelli incomincio la presente. La confusione cau-
sata dal cholera, e la morte di 3 impiegati alla posta, potranno forse
spiegarle questo ritardo. Rendo grazie senza fine a Lei ed alla Mamma
della carità usatami dei 41 colonnati. Il tuono delle Sue lettere al-
quanto secco, è giustissimo in chi fatalmente non può conoscere il
vero mio stato, perch'io non ho avuto mai occhi da scrivere una let-
tera che non si può dettare, e che non può non essere infinita ; e perchè
certe cose non si debbono scrivere ma dire solo a voce. Ella crede certo
che io abbia passati fra le rose questi 7 anni ch'io ho passati fra i giunchi
marini. * Quando la Mamma conoscerà che il trarre per una sovven-
zione straordinaria non può accadermi e non mi è accaduto se non
quando il bisogno è arrivato all'articolo pane; quando saprà che nes-
suno di loro si è mai trovato in sua vita, né, grazie a Dio, si troverà
in angustie della terribile natura di quelle in cui mi sono trovato io
molte volte senza nessuna mia colpa; quando vedrà in che panni io le
tornerò davanti, e saprà ancora che il rifiuto di una cambiale significa
protesto, e il protesto di una mia cambiale, non potendo io ripagare
l'equivalente somma, significa pronto arresto mio personale; forse
proverà qualche dispiacere dell'ostUe divieto che lo zio Antìci mi an-
nimzia in una dei 6 nov. che mi giunge insieme colle due Sue \
Auclie questa lettera dello zio Alitici Teditore cavalle-
resco o non seppe ritrovare o uou reputò couveniente pub-
blicare. Giacomo soggiungeva al padre:
Mi è stato di gran consolazione vedere che la peste, chiamata per
la gentilezza del secolo cholera, ha fatto poca impressione costì. Qui,
lasciando il rimanente della triste storia, che gli occhi non mi consen-
tono di narrare, dopo piti di 50 giorni (dico a Napoli) la malattia pa-
reva quasi cessata; ma in questi ultimi giorni la mortalità è rialzata
di nuovo. Io ho notabilmente sofferto nella salute dall'umidità di questo
casino nella cattiva stagione; né posso tornare a Napoli, perché chiunque
v'arriva dopo una lunga assenza, è immancabilmente vittima della
peste; la quale del rimanente ha guadagnato anche la campagna, e
nelle mie vicinanze ne sono morte più persone.
Mio caro papà, se Iddio mi concede di rivederla. Ella e la Mamma
e i fratelli conosceranno, che in qiiesti sette anni io non ho demeritata
una menoma particella del bene che mi hanno voluto innanzi, salvo
se le infelicità non iscemano l'amore nei genitori e nei fratelli, come
l'estinguono in tutti gli altri uomini. Se morrò prima, la mia giustifi-
^ Il brano soppresso dal Piergili comincia dall'asterisco. Questa
lettera, e la precedente del 30 ottobre, sono state rinvenute e pubblicate
ora integralmente da Giuuo Coggiola, Nuovo contributo all'Epistolario
leopardiano, nella « Rassegna Bibliografica della letteratura italiana »,
a. XVI, 1908, p. 317 ss.
140 LA VITA DEL POETA
cazione sarà affidata alla Provvidenza. — Iddio conceda a tutti loro
nelle prossime feste quell'allegrezza che io difficilmente proverò. La
prego di cuore a benedire il Suo afC.mo figlio Giacomo.
Dalla villa non tornarono se non aUa fine del successivo
febbraio (1837), il Leopardi febbricitante. 11 9 marzo,
egli narrava al padre:
Io, grazie a Dio, sono salvo dal cholera, ma a gran costo. Dopo
aver passato in campagna più mesi tra incredibili agonie, correndo
ciascun giorno sei pericoli di vita ben contati, immiaenti e realizza-
bili d'ora in ora; e dopo aver sofferto un freddo tale, che mai nessun
altro inverno, se non quello di Bologna, io aveva provato il simile;
la mia povera macchina, con dieci anni di più che a Bologna, non potè
resistere, e fino dal principio di decembre, quando la peste cominciava
a declinare, il ginocchio colla gamba diritta mi diventò grosso il dop-
pio dell'altro, facendosi di un colore spaventevole. Né si potevano
consultar medici, perchè una Visita di medico in quella campagna lon-
tana non poteva costar meno di 15 ducati. Così mi portai questo male
fino alla metà di febbraio, nel qual tempo, per l'eccessivo rigore della
stagione, benché non uscissi punto di casa, amm^alaidiun attacco di
petto con febbre, pure senza potere consultar nessuno. Passata la
febbre da sé, tornai in città, dove subito mi riposi in letto, come con-
valescente, quale sono, si può dire, ancora, non avendo da quel giorno,
a causa dell'orrenda stagione, potuto mai uscir di casa per ricuperare
le forze con l'aria e col moto. Nondimeno la bontà e il tepore dell'abi-
tazione mi fanno sempre più riavere; e il ginocchio e la gamba, sì per
la stessa ragione, sì per il letto, e sì per lo sfogo che l'umore ha avuto
da altra parte, sono disenfiate in modo che me ne trovo quasi guarito.
11 27 maggio (ed egli quasi presentiva che quella sa-
rebbe stata la sua ultima Ietterai), dà nuovi particolari.
Sono stato assalito per la prima volta nella mia vita da un vero
e legittimo asma che m'impedisce il camminare, il giacere e il dor-
mire, e mi trovo costretto a risponderle di mano altrui a causa del mio
occhio diritto minacciato di amaurosi o di cateratta.... Il cholera, ri-
cominciato qui, come si era previsto, il 13 di aprile, è d'allora in qua
cresciuto sempre, benché il Governo si sforzi di tenerlo celato... Se
scamperò dal cholera, e subito che la mia salute lo permetterà, io farò
ogni possibile per rivederla in qualunque stagione; perché ancor io
mi do fretta, persuaso oramai dai fatti di quello che sempre ho preve-
duto, che il termine prescritto da Dio alla mia vita non sia molto lon-
tano. I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con
l'età ad un grado tale, che non po.ssono più crescere; spero che superata
finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio
corpo, mi condurranno all'eterno riposo, che invoco caldamente ogni
giorno, non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo. — Rin-
LA MORTE 141
grazio teneramente Lei e la Mamma del dono dei dieci scudi, bacio
le mani ad ambedue lord, abbraccio i fratelli, e prego loro tutti a
raccomandarmi a Dio, acciocché, dopo ch'io gli avrò riveduti, una
buona e pronta morte ponga fine ai miei mali fisici che non possono
giiarire altrimenti.
Il 13 giugno, al conte Monaldo che lo aveva pregato
d'unirsi a lui nell'esortare e sollecitar Giacomo a tornare
all'ovile, il Ranieri narrava:
Il dì quindici di maggio egli si levò smanioso dal letto con un fiero,
affanno, che gl'impedi per più notti di giacere, e lo gettò in una gran-
dissima prostrazione di forze. Io non mancai di chiamar subito il dot-
tor Mannella, medico di Corte, professore e clinico di rara sapienza
ed esperienza, e che ha un particolare conoscimento della complessione
di lui, perchè lo cura oramai da quattro anni. Il Mannella mi dichiarò,
benché in segreto, che quell'affanno era una minaccia d'idropisia, o
per parlare più esattamente, d'idropericardia, gli ordinò assai medi-
cine, dalle quali ha già ritratto qualche utilità, ma mi aggiunse esser
quella una malattia derivante in sostanza da ragioni di struttura, e
forse gentilizia, ragioni accresciute dal lungo studio e dall'età; nella
qual malattia l'arte aveva poco che fare, ma molto potea fare la na-
tura; che l'aria dei dintorni del Vesuvio, massime quella di Torre del
Greco, famosa per simile sorta di malori, poteva solo salvarlo.... Dopo
ciò, dimane io lo condurrò alla villetta d'un mio parente [Ferrigni]
sulla falda proprio del Vesuvio, comperata dai suoi maggiori asse-
gnatamente come il più miracoloso rimedio all'idropisia. Ecco, signor
conte, descrittale francamente la natura di quel male, di cui Gia-
como nell'ultima sua Le parlava in un modo assai vago, parte per
non affliggerla, parte perché io ho creduto utile di lasciare ignorare
a lui stesso una parte del vero.... Ella può esser certo, che tutto quello
che é possibile ai mortali, tutto è stato, é, e sarà fatto in prò del Suo
figliuolo, e dell'unico amico che la Provvidenza mi ha conceduto, al quale
sopravvivere sarebbe per me un problema di non facile risoluzione ^.
Il domani,. 14 giugno '37, un mercoledì, la carrozza che
doveva trasportarli alla villa Ferrigni '^ era già sulla soglia
^ L'autografo di questa lettera si conserva nella Marciana: cfr.
CoGGiOLA, Nuovo contributo ecc., 319-20. Fu stampata, di su ama co-
pia che si conserva nella Vittorio Emanuele di Roma tra le carte di
Salvator Betti, da Gennaro Buoxanno, per nozze Martini-Ruspoli,
a Roma, il 20 agosto 1899.
* Si può vederla rafiìgurata in un acquerello, che é stato egregia-
mente riprodotto nella Geschichte der Italienischen Litterotur di
B. WiESE ed E. PÈRCOPO, Leipzig und Wien 1899, p. 549; e male,
in una scialba fotografia ch'é messa avanti al voi. VI dei Pensieri.
142 LA VITA DEL POETA
(i due amici abitavano ora ima casa che ha Tentrata al vico
Pero, e le finestre danno sull'ampia ed amena strada che
dalla piazza del Museo sale a Capodimonte) i, quando C^ia-
como, fino a qiiel momento « più gaio del solito », nelF ac-
costarsi alla measa per rifocillarsi con qualche cucchiaiata
di minestra, « Mi sento un pochino crescere l'asma », disse
al Ranieri: «si potrebbe riavere il dottore?». L'amico
corse di persona a chiamarlo : « era uno dei più memorabili
giorni della mortalità choleiica », e non parve prudente
fidarsi a messi. L'infermo rimase affidato alla sorella del-
l'amico, «sua consueta astante ed infermiera; la quale
egli troppo largamente rimeritò quando usò dirle che solo
la sua Paolina di Napoli gli rendeva possibile la lunga
lontananza dalla sua Paolina di Recanati ». Tornando, tro-
varono Tinfermo appoggiato alla sponda del letto, sostenuto
da alcuni guanciali posti di traverso. Egli sorrise mesta-
mente, e " con voce alquanto più fioca e interrotta del-
l'usato, disputò dolcemente del suo mal di nervi, della
certezza di mitigarlo col cibo, della noia del latte d'asina,
de' miracoli delle gite e del voler di presente levarsi per
andarne in villa ». Ma a poco a poco fu « soprappreso da
un certo infausto e tenebroso stupore », e « aperti più del-
l'usato gli occhi, guardò più fiso che mai » l'amico, e come
sospirando gli mormorò: « Io non ti veggo più ». E cessò di
respirare. L"n frate, mandato a chiamare in fretta nel vicino
convento degli Agostiniani scalzi, giunse solo a benedirne
la salma ^.
Il Leopardi « fu di statura mediocre, chinata ed esile,
di colore bianco che volgeva al pallido, di testa gro.ssa,
di fronte quadra e larga, d' occhi cilestri e languidi, di
naso profilato, di lineamenti delicatissimi, di pronunzia-
zione modesta e alquanto fioca, e d'un sorriso ineffabile
e quasi celeste» ^
^ -Cfr. Geschichte ecc., p. 548; F. Mariotti, T ritraiti di O. L., nella
«Nuova Antologia» del 16 gennaio 1898; e voi. IV dei Pensieri.
' Ranieri, Sette anni di sodalizio con G. L., Napoli 1880, p. 119 ss.;
e cfr. le lettere a Monaldo e al De Sinner, nei Nuovi documenti ecc.,
p. 237 83., 267 83.
» Ranieri, Sette anni, p. 108.
LA SEPOLTURA 143
XIX.
lì seppellimento della salma. — Il dolore, V interessamento
e l'epicedio di Alessandro Poerio. — La tomba nel por-
tico di San Vitale. — - La scuola del De Sanctis. — ■ Il
pellegrinaggio alla tomba. — Il monumento nazionale.
Infuriando il colèra, ogni morte era sospetta: unica
sepoltura permessa, il cimitero colerico. Ma l'operoso af-
fetto del Ranieri valse a salvare la preziosa salma dalla
fossa comune. Giovandosi del certificato dei medici, atte-
stanti aver il Leopardi ceduto alla idropericardia, e di
quello del frate che dichiarava avergli « prestato l'ultime
preci de' morti », egli ottenne dal parroco della chiesetta
suburbana di Fuorigrotta l'assenso a seppellire colà il ca-
davere dell'amico ^. Il Ministro degl'Interni, informato,
chiuse un occhio. Il trasporto si fece di notte. Verso le
dieci p. m. del giovedì, una carrozza, seguita da altre due,
trasportò il feretro fino a Piedigrotta. Ma qui le guardie
daziarie l'arrestarono, richiedendo un ordine per iscritto
del Ministro di Polizia. Questi era il famigerato Del Car-
retto. A quell'ora tarda, il fratello del Ranieri e un dottore
* Nei Paralipomeni (III, 4) il Leopardi aveva, in ima similitudine
(ove par di sentir l'eco d'un verso del napoletano Stazio, Silv. IV, 4
79: « Fractas ubi Vesbius erigit iras »), così descritta la Grotta famosa:
O se a Napoli presso, ove la tomba
Pon di Virgilio un'amorosa fede,
Vedeste il varco che del tuon rimbomba
Spesso che dal Vesuvio intorno flede.
Colà dove all'entrar subito piomba
Notte in sul capo al passegger, che vede
Quasi un punto lontan d'un lume incerto
L'altra bocca onde poi riede all'aperto.
Questa ottava fu, nel 1902, incisa su una lastra di marmo, collo-
cata all'ingresso del traforo, dalla parte di Piedigrotta, quasi a indi-
care che di là dal varco è il sepolcro del poeta.
144 LA VITA DEL POETA
che r accompagnava riuscii'ouo a strappargli T ordine ne-
cessario, e a far proseguire il lugubre convoglio. Ma giun-
sero alla chiesetta di San Vitale che la mezzanotte era già
trascorsa, e il parroco rincasato. Dovettero ricercarlo e
condurlo alla chiesa. Così, prima dell'alba di venerdì, la
cassa contenente i resti del sommo poeta fu deposta in una
cella sotterranea, destinata a sepoltura degli ecclesiastici,
a mano destra dell'altare maggiore ^.
Alessandro Poerio, ch'era in villa col padre (il celebre
avvocato barone Giuseppe, il quale aveva egli pure, nel
lungo esilio, conosciuto Giacomo a Firenze), rispose, da
Castiglione in provincia di Salerno, il 25 giugno, al Ranieri
che gli aveva comunicata la luttuosa notizia:
Ho avuto la tua dolorosa ietterà, e saputo come il nostro Giacomo
sparì dalla terra. Io non so darmi pace della sua morte, eppur la pre-
vedeva; ma avvezzo ad osservare in lui quel malaticcio languore, mi
parea che il morbo che lo travagliava dovesse consumarlo lentamente.
Io solo posso comprendere il tuo dolore, perchè parecchi anni fa com-
presi ed amai il Leopardi; discordi in molte opinioni, eravamo di cuore
fratelli, e gli feci conoscere te come degnissimo di lui, e tu gli hai chiusi
gli occhi, ed io non era teco ! — Mi duole quel che mi dici dei debiti
che hai contratti. Lascia che io venga costà. Per la spesa del monu-
mento tu ti finiresti di rovinare, senza poter fare quel che si conviene
alla memoria del nostro amico: ho in mente una soscrizione. Mio padre,
al quale le sue occupazioni toglievano di onorare il Leopardi ester-
namente come avrebbe voluto, ma che lo stimava grandemente, con-
correrà con molto zelo a quest'opera. Angelini * poi è un bravissimo
giovane, che non vorrà certamente star sul guadagno in questa dolo-
rosa occasione.... Addio. La prima volta che visiterai il luogo dove
il nostro amico riposa, pregagli pace anche per me. Io che credo allo
spirito, prego e spero che Dio l'abbia accolto.
Il barone Giuseppe volle aggiungere, a questa del suo
Sandrino, una sua propria letterina al Ranieri:
* A. DE Gennaro -Ferrigni, Nella commemorazione di O. L. in
Fuorigrotta, Napoli 1896. E cfr. Nuovi documenti ecc., p. 237-39.-
* Tito Angelini, lo scultore che divenne di li a poco famoso. Per
invito del Ranieri, aveva gettata la maschera di gesso sul viso del
Leopardi morto, e ritrattene a matita le fattezze. Cfr. Nuovi docum.,
p. 238-39. La maschera è ora posseduta dal municipio di Recanati.
LA SEPOLUTRA 145
Mio figlio Sandrino mi ha parlato deg'li ultimi m.omenti del chiaro
e disgraziato conte Leopardi, e della vostra fraterna assistenza sino
all'ultimo suo respiro. Mi ha pure comunicato il vostro bel pensiero di
fargli erigere un monumento. Mi sembra questo un debito di chiunque
abbia in onore la virtù, l'ingegno e le buone lettere. E permettete che
io mi assodi a voi per promuovere e secondare il vostro onorevole e
patriottico progetto.
Qualche anno dopo, il Poerio compose, in memoria del
grande estinto, una delle sue liriche più ispirate. Già a
Parigi, nel 1834, aveva abbozzate alcune strofe d'una can-
zone diretta a lui; e tra esse memorabili queste:
Ma come il raggio che dovunque offende
Si torce in alto ed alla patria torna.
Tale il tuo verso ascende;
Ed il tuo disperar cosi si adorna
E trasfigura di beata luce.
Che al Ver, cui chiami errore, altrui conduce;
E manda a' tuoi lamenti innamorati
L'eterno verdeggiar dell'altra sponda
I suoi spirti odorati.
Spesso l'anima mia si fé' profonda
Di gioia nel tuo carme, e sol mi dolsi
Che dall'affanno tuo pace raccolsi.
Ora egli ripiglia, e rifoggia con piti squisita maestria codesto
concetto medesimo, e tocca di quel sentimento patriottico
che tanta rispondenza trovava nel nobilissimo suo cuore.
Se per deserto strano
Il dubbio ti traea senza riposo,
Morìa tremulo e lento
In arcana mestizia il tuo lamento.
Per precìpite via
Se più del sacro Ver givi lontano,
Non fu bestemmia il disperato accento,
E l'affetto il volgeva in armonia
Che al cielo risalia.
Ed oh che santa carità ti prese
De la nativa terra !
E oh come irato il carme
Con impeto di guerra
Suonò vendetta ed arme !
Pietosamente a noi per fermo il Cielo
Te concedeva, quando
(Spettacol miserando),
10. — G. Leopardi.
146 LA VITA DEL POETA
D'oziosa sventura Italia bruna.
Più non parea nessuna
Sentir vergogna di sofferte offese,
Incitator d'imprese
Che faccian forza a così rea fortuna.
Faranno ; e allor che in libertà riscossa
L'altera donna fia che in basso è volta,
E a cui sacrasti ingegno
E duolo e speme e sdegno.
Te certo ella porrà splendido segno
Fra i gloriosi che le infuser possa.
Se, fatta ignava e stolta.
Servitù non l'aspetti un'altra volta '.
Della sottoscrizione pubblica non si fece jdììi uuUa. Sette
anni dopo la morte dell'amico, il non immemore Ranieri
tentò di trasferirne le ceneri dalla cella sotterranea in un
modesto monumento, ch'ei si proponeva d'elevargli entro
la medesima chiesetta di San Vitale. Ma nella chiesa non
gli fu possibile di tumulare « il Job insieme e il Lucrezio
del pensiero italiano » (la frase è del Carducci). Ben altre
difficoltà che le igieniche s'ergevano ora, formidabili, in-
nanzi aj generoso suo zelo. Pure in Napoli, dove i libri e i
giornali francesi avevano una tal quale diffusione, era stato
letto e commentato 1' articolo del Sainte - Beuve nella
Bevile des deiix mondes del 15 settembre 1844, ove le opi-
nioni filosofiche del Leopardi erano spiattellate, ed era tra-
scritta la lettera del poeta al De Sinner del 24 maggio
1832, « che è, come tutti ricordano, una esplicita professione
di fede, cioè di non fede, e il Bruto Ilinore v'è citato come
la formula poetica di una tal professione ». Nacque, dunque,
com'era naturale, « il sospetto di un'infezione anche più
terribile, l'infezione dell'anima; e la gente timorata, o
quella che teneva a passar per timorata, non poteva veder
di buon occhio che in una chiesa si seppellisse un miscre-
dente. Così, per poco il Sainte-Beuve, col suo bellissimo
saggio critico, non fece che le ossa del povero Leopardi
avessero la sorte delle ossa di Manfredi! Si finì col mezzo
Dk Gexnabo-Fkrrigni, Leopardi e Poerìo, Napoli 1S9».
LA SEPOLTURA 147
termine di allogare le staiiche ceneri nel piccolo portico
che fa da vestibolo alla chiesetta. Colà il poeta sta non
sai dire se come chi non sia riuscito a entrar nella chiesa
o come chi sia invece riuscito a venirne fuori; e certo ri-
sparmia così, ai suoi ammiratori miscredenti o intolleranti,
il fastidio di penetrar nel tempio per adorare il dio » ^.
11 piccolo monumento fu disegnato e diretto dall'ar-
chitetto Michele Ruggiero-; l'epigrafe è del Giordani, e
suona così:
AL CONTE GIACOMO LEOPARDI RECANATESE
FILOLOGO AMNHRATO FUORI D'ITALIA
SCRITTORE DI FILOSOFIA E DI POESIE ALTISSIMO
DA PARAGONARE SOLA3IENTE COI GRECI
CHE»FINÌ DI XXXIX ANNI LA ^^TA
PER CONTINUE MALATTIE AHSERISSIMA
FECE ANTO^^O RANIERI
PER SETTE ANNI FINO ALLA ESTREMA ORA CONGIUNTO
all'amico ADORATO. MDCCCXXXVII.
Francesco de Sanctis, il quale, per campar dall'epidemia,
s'era rifugiato nel suo paesello nativo (Morra, presso Avel-
lino), e ora, annoiatovisi, tornava alla città, narra ancora
nelle sue Memorie:
Trovai in Napoli il colera un po' rimesso. Gli studenti tornavano,
le scuole si riaprivano. La novità era l'edizione fatta di fresco delle
poesie di Giacomo Leopardi. Io ne andavo pazzo, sempre con quel
libro in mano. Conoscevo gm la canzone sull'Italia. Allora tutto il
mio entusiasmo era per Consalvo e per Aspasia.... Consalvo mi fece
dimenticare Ugolino. Lo andavo declamando anche per via, e parevo
un ebbro, come Colombo per le vie di Madrid, quando pensava al nuovo
mondo. Lo declamavo in tutte le occasioni, e mi c'intenerivo.... E mi
ricordo che, per un delicato riguardo alle signorine, dove il poeta di-
ceva bacio, io mettevo guardo. Poco poi seppi che il gran poeta era
morto. Come, quando, dove, non si sapeva. Pareva che un'ombra
oscura lo avvolgesse e ce lo rubasse alla vista. Le immaginazioni, per-
cosse da tante morti, poco rimasero impressionate da quella morte
misteriosa.
* D'Ovidio, Un curioso documento concernente il Leopardi, nel
«Corriere della Sera» del 21 gennaio 1S9S.
^ Cfr. Alcuni monumenti sepolcrali fatti in Napoli da Michele Rug-
giero, Napoli 1S51; e Ranieri, Sette anni, p. 76-S.
148 LA VITA DEL POETA
Eiferendosi pòi a un di quegli anni che precedettero di
poco il Quarantotto, il De Sanctis medesimo, che oramai,
sotto l'alto patrocinio del Puoti, aveva aperto un proprio
Studio, dove dallinsegnamento della grammatica e della
rettorica era salito sii sii fino alle vette più eccelse della
critica letteraria, racconta ^ :
Venendo ai nostri tempi, toccato del Parini e del Foscolo, mi fer-
mai sopra il Manzoni e il Leopardi.... Leopardi era il nostro beniamino.
Avevo acceso di lui tale ammirazione, che l'edizione dello Starita fu
spacciata in pochi giorni. Quasi non v'era dì che, per un verso o per
l'altro, non si parlasse di lui. Si recitavano i suoi Canti, tutti con uguale
ammirazione; non c'era ancora un gusto cosi squisito da fare distin-
zioni; e poi, ci sarebbe parsa una irriverenza. Eravamo non critici,
ma idolatri. Le canzoni patriottiche ci parevano miracoli di genio,
ci aggiungevamo i nostri sottintesi. Quelle Silvie e quelle Nerine ci
rapivano nei cieli; quel Canto del pastore errante ci percoteva di stu-
pore. Una sola poesia non fu potuta digerire; né io né alcuno la po-
temmo leggere dall'un capo all'altro: / Paralipoìneni *. Anche la Ba-
tracomiomachia ci pesava. Vennero molti di fuori a sentire le mie le-
zioni sopra Leopardi, nome popolare in Napoli. Io lo chiamai il primo
poeta d'Italia dopo Dante. Trovavo in lui una profondità di concepire
e ima verità di sentimento, di cui troppo scarso vestigio è nei nostri
^ La giovinezza di F. de Sanctis, p. 117-18 e 277 ss.; Prose scelte,
p. 75-6 e 173-7.
* Qui pare che il De Sanctis, tradito dalla memoria, confonda
tempi diversi ; che i Paralipomeni, lasciati inediti e senza le ultime cure
dal poeta — « un poemetto satirico in otto canti e in ottava rima,
non però riveduto dall'autore, avendomene dettato l'ultimo canto la
sera innanzi la sua morte », lo designava, il 28 giugno 1837, il Ranieri ai
De Sinner {Nuovi documenti, p. 268), ■ — eran tal cosa « che mai nessuna
Censura italiana potrebbe essere indotta a permettere », asseriva il
Ranieri stesso (p. 281). Il quale provvide perciò che fossero stampati
a Parigi dal Baudry, nel 1842. Solo più tardi, nel '45, furon ristampati
in Italia dal Le Mounier, simulando tuttavia l'edizione parigina (cfr.
Mestica, nella prefazione alle Poesie di O. L., Firenze, Barbèra, 1897,
p. XIX; e F. P. Luise, Ranieri e L., storia di una edizione, Firenze 1899).
Or com'è presumibile che un libro così pericoloso, da consigliare il
Ranieri a non nominarlo altrimenti che Volgarizzamento di Giovenale
per paura delle poste (Lnso, p. 57), penetrasse in Napoli e andasise
cosi francamente per le mani del maestro e degli scolari? Contrab-
bandi se ne facevano, e molti; ma qui il De Sanctis non accenna me-
nomamente a nulla del genere.
LA SCUOLA DEL DE-SANCTIS 149
poeti. Lo giudicai voce dei secolo più che interprete del sentimento
nazionale; una di quelle voci eterne che segnano a grandi intervalli
la storia del mondo.... Nei nostri tempi il critico e il filosofo coesistono
nella mente, accanto al poeta; onde nasce una poesia riflessa. L'intel-
letto come tarlo penetra nella fantasia; raa nei grandi poeti la fantasia
sommerge e sperde in sé il concetto, e lo profonda in modo nella forma,
che solo più tardi un'acuta riflessione può ritrovarlo.... Leopardi ha
dovuto conquistarsi lui il suo concetto, e si vede il lavorìo della mente
dalle sue fluttuazioni. Ma quel concetto diventò sua passione e sua
immagine, e qui è l'eccellenza della sua poesia. Il suo concetto è una
faccia del secolo decimottavo e decimonono, lui incosciente, che lo
attinse nella vigorìa e originalità del suo pensiero. Ma è poeta, perchè
quel concetto è lui, è la sua carne e il suo sangue, il suo tiranno e il
suo carnefice, ed è insieme il germe che, fecondato nella fantasia, ge-
nera le più amabili creature poetiche. Le sue più belle poesie sono quelle
in cui la forma è vera persona poetica, di modo che il concetto vi ap-
parisce come immedesimato ed obbliato nell'individuo, con appena
un barlume della coscienza di sé. Così é nell'Infinito, nella Saffo, nel
Bruto, nella Silvia, nella N crina [Le ricordanze], nel Consalvo, nell'A-
spasia. Quando il concetto non sia persona poetica, è necessario che
sia almeno non una intellezione, ma uno stato appassionato dell'anima,
o una visione della fantasia, com'è nei Salmi e nelle Profezie e negl'Inni,
e come nel canto Alla Luna, in Amore e Morte, nel Pensiero dominante.
Al contrario, malgrado i fulmini di Pietro Giordani, tenni poesia me-
diocre la Ginestra, dove la base poetica è occasionale, il concetto ri-
mane nella sua astrattezza filosofica, e si esprime per via di argomen-
tazioni e di ragionamenti. Dissi che, appunto presso al nostro Vul-
cano, s'era spento quel vulcano poetico.... Accompagnavo le teorie
con frequenti letture di quelle poesie, dove avevo modo di scendere
nei più fini particolari della composizione e dello stile.
Coronammo quelle lezioni con un pio pellegrinaggio alla tomba di
Giacomo Leopardi. Divisi in piccoli gruppi, ci demmo la posta al di
là della Grotta di Pozzuoli. Quei paesani ci guardavano con gli occhi
grandi, e ci presero forse per una processione di devoti, che anda-
vano in chiesa a sciogliere non so qual voto. Noi ci fermammo con
religioso raccoglimento innanzi alla lapide.
Nel giugno del 1897, avvicinandosi il primo centenario
della nascita del sommo poeta, per iniziativa del senatore
Filippo Marietti, marchigiano, il Senato del Kegno prima
e la Camera dei Deputati dopo (e qui fu relatore il povero
Mestica, marchigiano anche lui), consenziente il ministro
per l'istruzione Emanuele Gianturco (e anch'egli, l'amico
diletto, non è più che una mesta e gloriosa memoria I),
provvidero con una legge alla conservazione e custodia di
150 LA VITA DEL POETA
quella tomba. La quale, con decreto del 4 luglio, firmato
dal re buono e compianto, Umberto T, fu dichiarata mo-
numento nazionale ^.
Auspice la reale Accademia napoletana di Archeologia,
Lettere e Belle Arti, Tarchitetto Nicola Breglia trasformò
r antico portichetto davanti alla rustica chiesetta in un
severo ed elegante prònao ; il quale « ricorda nelle sue linee
armoniche e nobili quell'architettura che arricchì di copiose
sue testimonianze T Italia nel bel cinquecento, e che si può
considerare come un riflesso di quell'arte greca e romana che
proprio in quel tempo era resuscitata in ogni città nostra
più cospicua » -. L'illustre Domenico Morelli e Paolo Vetri
ne adornarono le tre cupolette di gentili e simboliche pit-
ture, trascrivendovi intorno alcuni versetti deW Ecclesiaste
assai rispondenti alla poesia sconsolata del grande che lì
sotto rijDosava, stanco, « per sempre ». E sull" imbrunire
della domenica 29 giugno 1902, il modesto ma decoroso
monumento sepolcrale venne finalmente scoperto e inau-
gurato. Pronunziarono acconce parole il sindaco di Napoli,
senatore Luigi Miraglia (e pur lui non è piìi, l'arguto pro-
fessore, tanto benemerito della rinnovazione morale e ma-
teriale della bella metropoli del Mezzogiorno!), il marchese
Antìci rappresentante di Kecanati, il senatore Mariotti;
e lessero due nobilissimi discorsi Michele Kerbaker e Bo-
naventura Zumbini. Il Kerbaker rifece la inscresciosa
storia degli ostacoli frapposti alla esecuzione del disegno,
ora tutti superati; e soggiunse:
Un caso dei più singolari e, come dissi, nn destino, aveva voluto
che il Leopardi venisse seppellito in questa chiesetta suburbana. Poco
strato di terra e di pietre separa la spoglia del pensatore che ad ogni
fede in un ordine sovrannaturale, alla credenza in Dio insomma, op-
pose la negazione più espressa, più insistente, più convinta e risoluta,
dall'asilo consacrato alla preghiera, dove la gente più semplice a Dio
si prostra e salmeggia, e con esso comunica mediante i riti della chiesa
cattolica. In qualunque senso si prenda la cosa, il contrasto è forte
e penoso!....
• La legge per la tomba di Giacomo Leopardi, Roma 1897.
' Così lo descrisse Salvatore di Giacomo, nel « Corriere di Na-
poli ' del 30 giugno 1902.
IL MONUMENTO NAZIONALE 151
Lo Ziimbini, quasi a dissipare la pena appunto di co-
desto contrasto, riprese con un battito d"ali:
Certo, anche le sue ceueri avrebbero avuto degno ricetto in Santa
Croce, e sarebbe stato bello che anche di lui si dicesse: Con questi grandi
abita eterno. Ma non è men degno del suo nome ch'egli riposi per sempre
qui, sulla soglia di questa chiesetta, accanto alla città e alle campagne
e sotto il ciclo che, più di qualsiasi altra parte d'Italia, più della stessa
Recanati, si rispecchiano nella sua poesia. E sì, che di nessun'altra
contrada italiana egli si piacque cosi come di questa; in nessun'altra,
dalle bellezze del paesaggio e dal solitario riso dei campi si senti ve-
nire eguali dolcezze nell'anima, eguale compenso agli oltraggi della
fortuna. La sua stessa avversione alle idee religiose e politiche domi-
nanti allora in Napoli anche piti che in Firenze, rimovendolo dal com-
mercio degli nomini, gli fece ancor più care e, direi, ancor più neces-
sarie queste delizie di terre e di acque. E poi, in qual altra contrada
italiana, per quanto ricca di tradizioni gloriose, trovò mai cosi larga
corrispondenza fra i luoghi stessi e quella poesia dei tempi antichi,
che fu sempre come la luce del suo spirito?... Per tanti nuovi
e inaspettati godimenti dei sensi e del cuore, per queste aure pregne
di vita, egli ebbe in Napoli un tal nuovo risorgimento, che gli consenti
di porre mano a lavori che accogliessero insieme tutti i tesori d'idee e
d'immagini adunati sin allora nella sua mente... Su queste nostre
rive egli diede le ultime battaglie del suo pensiero; su queste, collo
sguardo al formidabil monte e al mare, proferì le estreme parole di
quel dolore, i cui primi accenti aveva proferiti mirando dal paterno
ostello il mare opposto e i monti che di là si scoprono.
E a me pure, non oblioso figliuolo di quella terra dove
la ginestra manda si soavi fragranze e gli alti pini proteg-
gono con r ampia ombrella l'eterno sonno del poeta, a me
pure sia lecito chiudere questi cenni con V augurio e il
saluto clie rinsigne maestro esprimeva in queir ora' solenne:
Dorma egli dunque sotto questo fulgidissimo cielo, da cui bevve
tanta luce, e al quale pur morendo chiedeva ancor luce ! Dorma sotto
questa terra,- congiunta, piti che qualsiasi altra terra italiana, alla
sua arte, al suo spirito, a tutta l'ultima parte di sua vita '. Congiunta
a lui, pur dopo la sua morte, per quell'amore che gli ebbero i padri
nostri e che gli abbiamo noi, già vecchi ed incalzati dalla nuova gene-
razione, così diversa da noi in tante cose, eppure così fortunatamente
simile a noi in tal sublime amore. Dove più forte è l'affetto dei super-
stiti, dove più si è amati, quivi anche la terra piti amorosamente che
altrove ci raccoglie nel suo grembo matt.'ruo \
* Il discorso è ripubblicato in appendice agli Studi sul Leopardi,
II, 363 ss.
152 LA V[TA DEL POETA
Ah SÌ, riposi in, pace, « addormentato il volto » n,el
« virgineo seno » della Morte, laggiìi, il cantore di Aspasia,
della Ginestra, del Tramonto della luna: in quella terra che
Virgilio e Stazio, Petrarca e Boccaccio, Sannazaro e
Tasso, amarono e celebrarono; che sospira con inestin-
guibile nostalgia chi vi ha sepolta ogni cosa piìi santa
e più caramente diletta; in quella terra iridescente d'inef-
fabUe poesia a chi, per esservi nato, vi rivolge pur ora il
memore pensiero!
ìf3f3fJfSf.lfìf-ìfìflfìf]fif:f.if.ìf3(.3fìf
APPENDICE ALLA "VITA DEL POETA
Il Leopardi fu davvero sepolto a Fuorigrotta?
Negli ultimi giorni dell'estate del 1909, un valentuomo
autentico, il cui nome di necessità qui non si registra, mi
scrisse: « Ho letto or ora, con molto gaudio dello spirito, la
Sua Vita del Poeta precedente i Canti di G. Leopardi; ed
ho visto che EUa non dubita della tumulazione del povero
corpo del Poeta, là, a Fuorigrotta. Or io, che ormai ho una
convinzione del tutto contraria, io che ben conobbi alla
Camera il Ranieri e di lui serbo non bella memoria, oso
chiederle: — Ripubblicherebbe tal quale, in una terza edi-
zione, il XIX capitolo dell'efficacissimo Suo scritto?... ».
Il Ranieri l'ho conosciuto anch'io, ma negli ultimi suoi
anni, e punto punto da vicino o nell'intimità. Xe conservo
anzi un gruzzoletto di lettere e di bigliettini, che ho tro-
vato neUe carte d'un mio povero zio, il quale fu anche ora-
tore sacro di molto grido, e morì in Napoli nel febbraio del
1877. Erano colleghi e all'Università, dove il Ranieri non
insegnò mai Storia moderna ^ e mio zio per alcuni anni
^ Ma, a scanso d'equivoci, non prese nemmeno, anzi rifiutò, lo
stipendio. Curioso uomo anche in questo, che la sua vanità manife-
stava specialmente coi rifiuti, come se scontento di tutto e di tutti.
Nel 1843 egli aveva desiderato di salire la cattedra di Storia nell'Uni-
versità di Pisa, lasciata vuota dal Roselliui; ma gli era stato preferito,
per i buoni uffici del Giorgiui, Michele Ferrucci. Vide in ciò una ven-
154 LA VITA DEL POETA
Letteratura Latina; e nella R. Accademia di Archeologia
Lettere e Belle Arti, dove il Ranieri lesse le sue interpreta-
zioni di alcuni luoghi della Commedia e mio zio le sue dot-
tissime Memorie sull" Anfiteatro Puteolano e sulle Cata-
combe napoletane; e neir Accademia Pontaniana. Una volta,
dopo d'avergli chiesto urgentemente un certo volume, gli
scrive : « Voi che avete scritte tante auree e pietose cose
sopra la gran Vergine soccorritrice, soccorrete anche pie-
tosamente l'affezionatissimo vostro.... », È una frase gar-
bata e scherzosa, che anche in bocca a un mangiapreti e
a un ateo, quale a lui piaceva, all'occasione, di farsi credere,
non isconviene; tanto piti se diretta a tale, cui un ben altro
mangiapreti, mandando un opuscolo, vi scriveva sulla
copertina: < Al prof. can. Giovanni Scherillo, tanto buono
quanto dotto, il suo amico L, Settembrini '.
detta dei ueoguelfi, per avere egli osato difendere, nella sua Storia
dal V al TX secolo, l'italianità dei Longobardi contro il Manzoni. Ri-
mase in disparte durante gli avvenimenti politici del 1848; e nel 1860,
proclamata in Napoli la Costituzione il 25 giugno, rifiutò al vecchio
liberale Antonio Spinelli d'entrare nel Ministero da questi presieduto.
Rifiutò pure al dittatore Garibaldi l'oflertagli sovrintendenza del
Reale Albergo dei Poveri; al luogotenente Farini, l'ufficio di Consigliere
di Stato; al presidente del Consiglio dei Ministri Rattazzi, nel 1862, la
nomina di Senatore. Nel 1868 rinunziò anche alla cattedra universi-
taria. — Dalle Lettere del Conte di Cavour si apprende che, nell'agosto
del 1860, il Ranieri aveva chiesto di venir traslocato a Firenze. All'am-
miraglio Persane, che si trovava in Napoli, il Cavour scriveva il 17:
« I desiderii del signor Ranieri erano già appagati. Credo però che mu-
tandosi in meglio le condizioni di Napoli, sarà bene ch'egli rimanga
ivi, giacché so che esso esercita molta influenza sopra i suoi concitta-
dini ». E il giorno stesso, al barone Nisco: « La traslocazione a B''irenze
dell'illustre p." Ranieri è già ordinata. Spero però che potrà rendere
maggiori servigi alla patria rimanendo a Napoli ». Alcuni mesi dopo,
il suo nome torna sotto alla penna del Conte, a proposito della forma-
zione del primo Ministero nazionale. Ci voleva un lombardo e due
napoletani, e non si trovavano. « Quale è a Napoli ed a Palermo la
riputazione rimasta intatta ? », scriveva Cavour al Peruzzi, il 9 feb-
braio 1861. « Pocrio, quantunque mezzo demolito, ha ancora una fama
italiana, ma non vuole a patto alcuno accettare il ministero. Gl'Im-
briani, i Ranieri ecc. sono professori più o meno distinti, ma forza
politica non ne hanno di sorta. Portati dalla Camera, forse potranno
far bene. Scelti cosi a caso, avrebbero prodotto cattiva impressione ».
APPENDICE 155
Seunoucliè, nel!' agosto del 1909, io avevo bensì letto
sui giornali parecchi degli articoli e delle -noterei] e poleniiche
suscitate da una Memoria del padre Taglialatela dell'Ora-
torio, recitata ai colleglli delF Accademia Pontaniana; ma
non questa, né le altre che le erano seguite o le seguirono,
né la voluminosa conhitazione del professor Cocchia, forse
non peranco pubblicata. Mi limitai dunque a rispondere
al cortesissimo Innominato ch'io non potevo dirgli nulla
di preciso circa la delicata questione audacemente sollevata;
e intanto gli formulavo qualche obiezione circa la verosimi-
glianza di quelle congetture ch"eran valse a creare in lui
una così grave convinzione. — Il valentuomo replicò:
« Capisco perfettamente che Ella ondeggi dubbioso, perché,
senza dubbio, la questione è gravissima; e, a parer mio,
va posta così: può la nuova Italia tollerare il fondato dubbio
intorno alla verità della sepoltura del Leopardi ? ». J^ dopo
parecchie notizie per me preziose, soggiungeva: «( Del Ra-
nieri io non sono mai stato né sono uno de' tanti denigra-
tori, circa i suoi Sette anni di sodalizio col Leopardi. A
questo proposito io penso non solo come Lei e come il
D'Ovidio, ma, forse, sarei anche indotto a maggiore bene-
volenza verso di lui. Il Ranieri fu assai buono col Leopardi.
Ma mi consta che egli non aborriva, no, dal simulare;
no, tutf altro I E quindi, neUa verità e ingenuità del suo
racconto, in quanto al trasporto funebre e alla sepoltura,
assolutamente non credo. Sissignore, fu una simulazione
bella e buona, pia fin che si vuole, romantica, o forse meglio
letteraria (oh la ottava de' Paralipomeni, da Lei citata!),
ma non altro se non una simulazione; purtroppo,^ tutta una
commediai Ma Le par serio, possibile, che mentre in Xapoli
morivano cinquecento persone di colera al giorno, e lo
stesso ministro della guerra, un gran nobile di Palermo,
venne interrato nel camposanto colerico; Le par possibile
che un privato trafugasse via — in una carrozza delle nostre
solite I — una bara, e questa conducesse per via Toledo (al-
lora il Corso Vittorio Emanuele non esisteva), e tirasse
innanzi allegramente .fino di là dalla Grotta? No, nessun
fantoccio fu posto invece del cadavere, per la semplice
156 LA VITA DEL POETA
ragione che la bara non esistette mai. Invece della bara,
andò a San Vitale una certa cassa con pochi indumenti,
che sono, ora, dissepolti, al Museo di San Martino, Se non
la tomba, resa impossibile dalla dura ferrea legge della ne-
cessità, il Ranieri concepì subito l'idea del cenotafìo; e
questo volle subito mascherare sotto le parvenze di quella,
illudendo o no per il primo il povero parroco. — 11 Ministro
dell'Interno, informato, chiuse un occhio.... — Ma che!
Tutto il racconto è opera del povero De Gennaro -Ferrigni....
Dove e quando Tordine per iscritto del Ministro di Polizia!
Ma Le pare che il Del Carretto si sarebbe tanto commosso
per il Leopardi e per il Ranieri, quando punto non si lasciò
commuovere per il collega ]\Iinistro della Guerra ? ».
Devo interrompere la vigorosa requisitoria dell'Innomi-
nato, per un opportuno chiarimento e una suggestiva in-
formazione. In una Strenna per la commemorazione dei morti
consacrata da C. de Sterlich dei Marchesi di Cermignano
aUe « vittime illustri del cholera di Napoli », ed ivi pubbli-
cata il 2 novembre 1837, è affermato (p. 14 ss.) che Giovan
Battista Fardella dei Duchi di Cumia da Trapani, ministro
della guerra, morto il 9 novembre 1836, fu in realtà ima
delle prime vittime del terribile morbo, ma non si volle
spaventare la città col darne l'annunzio. Si tenne perciò
celata la causa della morte, ma non si sottrasse (e anche
questo esempio di rigore sarebbe stato salutare) la povera
salma alle prescrizioni della legge, che fosse sepolta nel
cimitero preparato per tutti quanti morivano durante
l'epidemia. Ma dalla Strenna medesima si apprende come
allora, anche a Napoli, si facesse sul serio neU' applicare
le norme sanitarie. A proposito di Ambrogio Caracciolo
principe di Torchiarolo, morto di colera il 19 giugno del
"37, lo Sterlich esclama (p. 65): «Non cercate di Ambrogio
nella cappella dei Caracciolo: il genere della sua morte
non solo gli rifiutò gli onori militari dovuti ai suoi pari,
ma finanche un pezzo di terra tra i sepolcri degli avi ! ».
Tult'al pili si permetteva, in qualche caso, una sepoltura,
distinta. D'un suo parente, ad esempio, lo Sterlich (p. 98)
ricorda che, morto il 7 luglio '37, « per opera del conte
APPENDICE 157
Caracciolo di Melissaiio, ebbe in luogo appartato una di-
stinta e modesta sepoltura ». E ricorda ancora di Giovanni
di Sangro principe di Fondi, che, spento dal morbo mentre
villeggiava a San Giorgio presso Portici, « gli addolorati
figli pensarono tosto a procurargli una sepoltura distinta,
siccome ad un tanto personaggio si spettava»; ma la lon-
tananza dalla capitale, e « le difiìcoltà di ottenere il permesso
di una privata sepoltura », fecero sì che, « ottenutolo ed ogni
cosa accomodata », quando « una turba di operai andò per
addobbare le stanze a modo di funerale », non trovò più
la salma del povero principe. « Essendo trascorso di qualche
ora il tempo conceduto ai cadaveri cholerici di rimanere
insepolti, si pensò che il permesso fosse stato negato, e il
principe di Fondi fu seppellito, ma senza quel fasto che
al suo grado conveniva » (p. 74).
Quanto al De Gennaro -Ferrigni, un po' l'ho conosciuto
anch'io, e non mi sentirei, se messa in dubbio, di garan-
tirne la veridicità. Ed è inoltre da considerare che la sua
Commemorazione leopardiana ei la tenne a Fuorigrotta, e
gli uditori erano, o egli sperava che divenissero, suoi elet-
tori politici; dacché, dopo varii tentativi falliti, egli pur
riuscì a essere deputato al Parlamento pel collegio di Ghiaia,
di cui il villaggio di Fuorigrotta fa parte.
Il mio illustre corrispondente continuava : « Di fronte
al ridicolo racconto, due dati di fatto noi abbiamo sicuri:
il primo, l'affermazione del registro della Parrocchia del-
l'Annunziata di Fonseca, secondo cui il Leopardi patì la
sorte comune del cimitero colerico; il secondo, la esuma-
zione della sua bara a San Vitale, in cui non fu trovato
nidla di umaìiol)).
11 documento parrocchiale, ch'è servito di base e di
spinta a tutte le argomentazioni del Taglialatela, suona:
A 15 detto [giugno 1837] D. Giacomo Leopardi Conte, figlio di D.
Monaldo e Adelaide Andici [sic], di anni 38, munito de' SS. Sag.ti,
morto a 14 d., sepolto idem [nel Camposanto dei colerosi], dom.to Vico
Pero il. 2.
E nella Relazione sui lavori delV Accademia di Archeo-
logia Lettere e Belle Arti nelVanno 1900, che fu fatta il 6 gen-
158 LA VITA DEL POETA
uaio 1901 dal segretario Michele Kerbaker, si legge a propo-
sito della famosa esumazione:
■ Condotto pressoché a compimento il prònao monumentale, che
per iniziativa dell'Accademia, e per la munificenza del Governo, e
sul diseg'no e sotto la direzione del socio Breglia, fu costruito intorno
la tomba di Giacomo Leopardi, sì venne addì 21 luf?lio all'esumazione
dei resti mortali del grande poeta, alla presenza del rappresentante del
Ministro, senatore Mariotti, dei rappresentanti dell'autorità politica
e del Municipio, e del presidente e dei soci dell'Accademia, e del par-
roco di San Vitale a Fuorigrotta. Voi già saprete che quei resti venerati
si trovarono alVuUimo siato, non dico di decomposizione, ma di distru-
zione: un pugno di frantumi ossei e di cenere mescoìati col terriccio pe-
netrato nella cassa, già da tempo infracidila e sfondata; scomparsa af-
fatto ogni traccia dello scheletro umano! Miserande, eppur sacre reliquie,
che furono religiosamente raccolte e riposte in una cassa di piombo,
da collocarsi nella nuova cripta all'uopo edificata. Dell'esumazione e
traslazione delle ossa fu redatto apposito verbale dal segretario del-
l'Accademia, che pxire vi lesse un riassunto storico delle pratiche da
essa iniziate e condotte a termine per. la costruzione del nuovo monu-
mento. Anche per cura del rappresentante del Governo, senatore Ma-
riotti. fu redatto apposito verbale della pietosa funzione.
Ilo fatto ricerclio presso quell'Accademia del verbale
del segretario di cui qui s^i fa cenno; ma esse sono riuscite
infruttuose. Quel verbale, già da altri ricercato prima che
da me, non era stato ancora rinvenuto. Mi sono rivolto
direttamente alla sperimentata cortesia dell'onorando pro-
fessoie Kerbaker, maestro amatissimo ^, perchè a quella
mancanza volesse supplire coi suoi ricordi; e ne lio avute
le seguenti preziose informazioni, che trascrivo da una sua
lettera (Napoli, 18 novembre 1909).
.... Sulla dimanda che Ella mi fa circa lo stato in cui fu trovato il
sarcofago del Leopardi, avrei bisogno di discorrerle a lungo, parlando
anziché scrivendo.... In breve Le dirò che. apertasi la cassa tutta in-
fradiciata, vi si rinvenne non più uno scheletro, ma un ammasso di
ossa e di ossicine mescolate col terriccio penetratovi dal coperchio
' E ora, ohimè, anch'egli rimpianto! Era nato a Torino, di padre
e madre piemontesi, il 10 settembre 1835, Dal 1872 insegnò, con dili-
genza esemplare. Linguistica e Sanscrito nell'Università di Napoli;
e morì sulla breccia, il 20 .settembre del 1914. All'animo nobilissimo
e all'ingegno mirabilmente versatile accoppiò una dottrina sterminata.
APPENDICE 159
sfondato. In parte ci apparivano come un tritume bianchiccio, in parte
erano frammenti di cui il più. grande era uno stinco. La cassa toracica
colle relative costole era pressoché distrutta, e ci volle molta buona
volontà in taluno degli spettatori per iscorgere in non so qual resto
di ossatura il segno della rachitide. Non lo scorse l'anatomista Anto-
nelli!... Pochi resti di abito scolorito, o piuttosto cenci, che taluno
pur disse essere il proprio vestito del Leopardi. La cosa più strana fu
l'assoluta mancanza del teschio, di cui non si poterono nemmanco rintrac-
ciare i resti. E il cranio è ciò che meglio e più a lungo si conserva dei
cadaveri !
Io, come Segretario dell'Accademia, descrissi quello che io vidi,
nella Relazione generale. Non dissimulai la sorpresa e l'orrore dì tal
vista; e mi guardai bene dall'avanzare dubbii o sospetti sulle cause
di sì miserando scempio toccato alla salma del sommo poeta Però
ben mi accorsi che la mia rivelazione, la cui sincerità poteva essere
testimoniata da molte persone presenti, a taluni era dispiaciuta. Tut-
tavia quando l'ebbi letta all'adunanza generale, nessuno vi fece alcima
osservazione. Al postutto io avrei sempre potuto rispondere: — Il
Barcofago è là; scopritelo, e verificate se sia sincera o no la mia rive-
lazione sopra un fatto tanto grave ! — Ciò non si volle fare, e si aspettò
che il Taglialatela scrivesse la sua Memoria, in cui tocca della mia
Relazione, per lanciarsi anche contro di me, come se io avessi stra-
namente esagerato per fare della poesia o della retorica ! Ma perchè
davanti a una affermazione così grave, che cioè la cassa non contenga
lo scheletro del Leopardi, non ricorrete a una nuova verifica dello
stato delle cose, la quale distrugga il dubbio lasciato dalle mie asser-
zioni ? Il dubbio, ripeto, della non esistenza dello scheletro del Leo-
pardi, e quindi (horribile dictul) della sostituzione di un altro..., io
non ho pensato ad accennarlo neppure di lontano. Qitel cranio sottratto
mi rimase un mistero.
E un mistero rimane, anche per chi ha messo tanto del
suo ingegno e tutto il suo impegno a ribattere l'afferma-
zione del Taglialatela. Il Cocchia, ch'è perfino ricorso al-
l'autorità dei becchini deìV Amleto per appurare « quanto
tempo un uomo possa rimanere sotterra prima d'imputri-
dirsi », è costretto a riconoscere che pur quei due becchini
rimettevano in luce, intatto, il cranio di Yorick, dopo ven-
titré anni dalla morte I Sessantatrè, è vero, sono piti di
ventitré; ma né codesti quaranta anni, né un secolo, po-
trebbero giustificare una sparizione così completa e asso-
luta. E il Cocchia medesimo s'appiglia a una macabra
congettura: che il teschio sia stato, prima o dopo la tumu-
lazione del 1844, sottratto; e tanto è convinto della since-
rità del Ranieri, da dichiarare d'aver <> fiducia che possa
160 LA VITA DEL POETA
un giorno [quel teschio] essere ritrovato «. In verità ch'io
non so se sia meglio desiderare che avvenga codesta in-
verosimile riparazione d'una sacrilega e poco verosimile
profanazione del sepolcro, ovvero che vengano in luce
nuove e inoppugnabili prove che ci convincano avere il
Ranieri, anche circa il sepolcro, detta subito a Monaldo,
e propalata poi agli amici e ai posteri, una nuova e più
grossa bugia, sempre tuttavia pietosa anzi generosa ! Non
bisogna dimenticare che, con piccole o grandi bugie, egli
riusci a sottrarre, negli ultimi sette anni, l'amico infelicis-
simo alla tomba recanatese; e dopo, a far degnamente ri-
stampare o stampare tutte le opere di lui, perfino i Parali-
pomeni, e a sottrarre a sicura distruzione, e a conservarci
incolumi, tutti i manoscritti preziosissimi di lui. Non vo-
gliamo impennarci e imbizzire per preconcetta antipatia !
Consideriamo i tempi e gli uomini, e confrontiamo i fini
interessati degli uni e D fine generoso dell'altro. Che cosa
era il Leopardi fino all'edizione fiorentina dei Canti, e che
cosa fu dopo, quando ad essi potè aggiungere II pensiero
dominante, V Amore e Morte, il Consalvo, VA sé stesso, VA-
spasia, le elegie Sopra un basso rilievo antico sepolcrale e
Solerà il ritratto di una bella donna, la Palinodia, Il tramonto
della luna, La ginestra ? E che cosa è ora, che è stata disse-
polta tanta parte ancora del suo pensiero e della sua dot-
trina, con lo Zibaldone ? E — perchè non confessarlo ? —
alla fama del poeta non ha giovato proprio nulla, presso
la grande maggioranza dei cuori teneri e gentUi che non
sanno rassegnarsi a separare l'opera d'arte dall'artista, la
malinconica poesia di quella solitaria sepoltura, cenotafio o
sarcofago, all'opposta estremità di quel varco dove, di qua,
la tomba
Pon di Virgilio un'amorosa fede ? *
* E dove, non molto discosto, a specchio del tranquillo porticciuolo
di Mergellina, è la sontuosa tomba del Sannazaro: « hic ille Maroni Sin-
cerus Musa proximus ut tumulo». Il Leopardi giovinetto aveva cosireso
italiano il distico del Bembo che vi è scolpito come epigrafe:
Spargi qui fiori, ove a Maron vicino
Ha di giacere il vanto
Chi si vicin di già fu a lui nel canto.
APPENDICE 161
Codesta fede amorosa, da chiunque propalata, era forse
nociuta alla fama del cantore di Didone ; o nocque, quando
fu o parve scossa dalle ricerche e dalle elucubrazioni degli
eruditi o dei critici ?
Ho voluto accennare al dubbio, non oso pretendere di
risolverlo. Tuttavia, mi tormenta una suggestiva osserva-
zione del Kerbaker, a Passarono circa sessant'anni », egli
mi scriveva, « senza che il Ranieri mai pensasse a verificare
lo stato della tomba dell'adorato amico, la quale ben sa-
peva collocata, nel sottosuolo dell'atrio di San Vitale, a
pochi metri di distanza dalla strada provinciale di Poz-
zuoli! ». È vero! Or sarebbe stato ciò possibile se.... ? ^
^ Chi voglia assistere al dibattito, che né l'una né l'altra parte ha
.saputo contenere nei giusti limiti, vegga: Gioacchino Tagli alatela.
Ultimi giorni di G. L., negli « Atti dell'Accademia Pontaniana », s. II,
voi. XIII, Napoli 1908; La tomba di G. L. a Fuorigrotta, ib.; G. L.,
la sua morte e il suo riposo, ib., XIV, 1909, e nella <■ Rivista d'Italia »,
aprile 1909; La conversione e la tomba di G. L., con un proemio di O.
Giordano e due autografi del Poeta, Napoli, D'Auria, 1910. — ExBico
Cocchia, La sepoltura e la pretesa conversione di G. L., negli « Atti
dell'Accademia Pontaniana », XIY, 1909. — Angelo Zuccarelli, L'or-
ganismo del Leopardi, nelle « Ricerche e studi di Psichiatria » dedic.
a] prof. E. Morselli nel xxv anniv. del suo insegn., ]\Iilano, F. Val-
lardi, 1906. — Luigi A. Villari, iS't/ofi documenti e nuova Ivce sulla po-
lemica Leopardiana, nel «Giornale d'Italia» del 26 agosto 1910. — Do-
cumenti relativi alla ricognizione dei resti mortali di G. L., negli « Atti
della R. Accad. di ArcheoL Lett. e B. Arti », Napoli 1908, n. b., I,
p. Ito ss.
G. Leopardi.
CANTI
Come prefazione alla ristampa dei Canti, che nel 1836-37, con Ta-
iuto del fido Ranieri, veniva preparando per l'editore parigino Baudry
{Epist. Ili, 39-42; Nuovi documenti, 267-71; Luiso, Ranieri e L., 2-5),
il Leopardi avrebbe messa la seguente
Notizia intorno ajlle edizioni di questi Canti.
I due primi furono pubblicati in Roma nel 1818, con una lettera
a Vincenzo Monti, Il terzo, con una lettera al conte Leonardo Tris-
sino, nel 1820 in Bologna. Dieci Canti, cioè i nove primi e il diciot-
tesimo, in Bologna nel 1824, con ampie Annotazioni, e copia d'esempi
antichi, in difesa di voci e maniere dei medesimi Canti accusate di
novità. Altri Caìiti p\ire in Bologna nel 1826: i quali coi sopraddetti
dieci, e con altri nuovi, in tutto ventitre, furono dati susseguente-
mente dall'autore in Firenze nel 1831. Diverse ristampe di questi
Canti, o tutti o parte, fatte dalle edizioni di Bologna o dalla Fioren-
tina, in diverse città d'Italia, essendo state senza concorso dell'autore,
non hanno nulla di proprio. Undici componimenti non più stampati
furono aggiunti nell'edizione di Napoli del 1835, e gli altri riveduti
dall'autore e ritocchi in più e più luoghi. Dei Frammenti, i due primi
erano già divulgati, gli altri non ancora. Le poche note poste appiè
del volume furono cavate quasi tutte dalle edizioni precedenti. In
questa Parigina sono aggiunti per la prima volta i Canti XXXIII e
XXXIV, finora non istampati.
II Canto XXXIII è II tramonto della Luna; il XXXIV, La ginestra.
(Cfr. Scruti letterari, II, 387).
Le Note ai Canti son quelle dell'autore; anche da noi relegate,
com'egli fece, in fine.
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ALL'ITALIA.
0 patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue ! oh qual ti veggio,
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio.
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparto le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata.
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive.
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive.
Che, rimembrando il tuo passato vanto.
166 CANTI V. 27-64
Non dica: già fu grande, or non è quella ?
Perchè, perchè ? dov'è la forza antica.
Dove Tarmi e il valore e la costanza ?
Chi ti discinse il brando ?
Chi ti tradì ì qual arte o qual fatica
0 qual tanta possanza
Valse a spogliarti il manto e 1" auree bende ?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco ?
Nessun pugna per te ! non ti difende
Nessun de' tuoi? L'armi, qua Tarmi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio.
Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi -
E di carri e di voci e di timballi:
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di spade
Come tra nebbia lampi.
Né ti conforti '? e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento ?
A che pugna in quei campi
L'itala gioventude ? 0 numi, o numi:
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari.
Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia.
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e care e benedette
L'antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre;
E voi sempre onorate e gloriose,
65-102
ALL'ITALIA ^^^
0 tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!
Io credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprir le invitte schiere
De' corpi ch'alia Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto si f uggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide ^ salia.
Guardando l'etra e la marina e il suolo.
E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglieasi in man la lira;
Beatissimi voi.
Ch'offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch'ai Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
Nell'armi e ne' perigli
Qual tanto amor le giovanetto menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse!
Come sì lieta, o figli.
L'ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e duro!
Parca eh' a danza e non a morte andasse
Ciascun de' vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'onda morta;
Ne le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l'aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Ma non senza de' Perbi orrida pena
Ed immortale angoscia.
168 CANTI V. 103-140
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L'ira de' greci petti e la virtute.
Ye' cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr fra' primieri
Pallido 6 scapigliato esso tiranno;
Ve' come infusi e tinti
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,
0 benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle.
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i moribondi lumi
Chiuda prostrato in guerra.
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la vostra duri.
1-31 SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE 169
II.
SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE
CHE SI PREPARAVA IN FIRENZE.
Perchè le nostre genti
Pace sotto le bianche ali raccolga,
Non fìen da' lacci sciolte
Dell'antico sopor l'itale menti
S'ai patrii esempi della prisca etade
Questa terra fatai non si rivolga.
0 Italia, a cor ti stia
Far ai passati onor; che d'altrettali
Oggi vedove son le tue contrade,
Né v'è chi d'onorar ti si convegna.
Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,
Quella schiera infinita d'immortali,
E piangi e di te stessa ti disdegna;
Che senza sdegno omai la doglia è stolta:
Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,
E ti punga una volta
Pensier degli avi nostri e de' nepoti.
D'aria e d'ingegno e di parlar diverso
Per lo toscano suol cercando già
L'ospite desioso
Dove giaccia colui per lo cui verso
Il meonio cantor non è più solo.
Ed, oh vergogna! udia
Che non che il cener freddo e l'ossa nude
Giaccian esuli ancora
Dopo il funereo dì sott' altro suolo,
Ma non sorgea dentro a tue mura un sasso,
Firenze, a quello per la cui virtude
Tutto il mondo t'onora.
Oh voi pietosi, onde sì tristo e basso
Obbrobrio laverà nostro paese!
170 CANTI V. 32-69
Bell'opra hai tolta e di che amor ti rende,
Schiera prode e cortese,
Qualuiaque petto araor d'Italia accende.
Amor d'Italia, o cari,
Amor di questa misera vi sproni,
Vèr cui pietade è morta
In ogni petto omai, perciò che amari
Giorni dopo il seren dato n'ha il cielo,
Spirti v'aggiunga e vostra opra coroni
Misericordia, o figli,
E duolo e sdegno di cotanto affanno
Onde bagna costei le guance e il velo.
Ma voi di quale ornar parola o canto
Si debbe, a cui non pur cure o coasigli.
Ma dell'ingegno e della man daranno
I sensi e le virtudi eterno vanto
Oprate e mostre neUa dolce impresa ?
Quali a voi note invio, sì che nel core.
Sì che nell'alma accesa
Xova favilla indurre abbian valore ?
Voi spirerà l'altissimo subbietto,
Ed acri punte premeravvi al seno.
Chi dirà l'onda e il turbo
Del furor vostro e dellimmenso affetto ?
Chi pingerà l'attonito sembiante f
Chi degli occhi il baleno?
Qual può voce mortai celeste cosa
Agguagliar figurando 'ì
Lungo sia, lungo alma profana. Oh quante
Lacrime al nobil sasso Italia serba!
Come cadrà ? come dal tempo rosa
Fia vostra gloria o quando ?
Voi, di che il nostro mal si disacerba,
Sempre vivete, o care arti divine,
Conforto a nostra sventurata gente.
Fra l'itale ruine
Gl'Itali pregi a celebrare intente.
Ecco voglioso anch'io
V. 70-107 SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE 171
Ad onorar nostra dolente madre
Porto quel che mi lice,
E mesco all'opra vostra il canto mio,
Sedendo u' vostro ferro i marmi avviva.
0 dell'etrusco metro inclito padre,
Se di cosa terrena,
Se. di costei che tanto alto locasti
Qualche novella ai vostri lidi arriva,
Io so ben che per te gioia non senti,
Che saldi men che cera e men ch'arena,
Verso la fama che di te lasciasti,
Son bronzi e marmi; e dalle nostre menti
Se mai cadesti ancor, s'unqua cadrai,
Cresca, se crescer può, nostra sciaura,
E in sempiterni guai
Pianga tua stirpe a tutto il mondo oscura.
Ma non per te; per questa ti rallegri
Povera patria tua, s'unqua l'esempio
Degli avi e de' parenti
Ponga ne' figli sonnacchiosi ed egri
Tanto valor che un tratto alzino il viso.
Ahi, da che lungo scempio
Vedi afflitta costei, che sì meschina
Te salutava allora
Che di novo salisti al paradiso !
Oggi ridotta sì che a quel che vedi,
Fu fortunata allor donna e reina.
Tal miseria l'accora
Qual tu forse mirando a te non credi.
Taccio gli altri nemici e l'altre doglie,
Ma non la più. recente e la più fera,
Per cui presso alle soglie
Vide la patria tua l'ultima sera.
Beato te che il fato
A viver non dannò fra tanto orrore;
Che non vedesti in braccio
L'itala moglie a barbaro soldato;
Non predar, non guastar cittadi e cólti
172 CANTI V. 108-146
L'asta inimica e il peregriu furore;
Non degl'itali ingegni
Tratte l'opre divine a miseranda
Schiavitude oltre l'alpe, e non de' folti
Carri impedita la dolente via;
Non gli aspri cenni ed i superbi regni;
Non udisti gli oltraggi e la nefanda
Voce di libertà che ne schernia
Tra il suon delle catene e de' flagelli.
Chi non si duol ? che non soffrimmo ? intatto
Che lasciaron quei felli !
Qual tempio, quale altare o qual misfatto ?
Perchè venimmo a sì perversi tempi?
Perchè il nascer ne desti o perchè prima
Non ne desti il morire,
Acerbo fato ? onde a stranieri ed empi
Nostra patria vedendo ancella e schiava,
E da mordace lima
Roder la sua virtù, di nuli' aita
E di nullo conforto
Lo spietato dolor che la stracciava
Ammollir ne fu dato in parte alcuna.
Ahi non il sangue nostro e non la vita
Avesti, o cara; e morto
Io non son per la tua cruda fortuna.
Qui l'ira al cor, qui la pietade abbonda:
Pugnò, cadde gran parte anche di noi:
Ma per la moribonda
Italia no; per li tiranni suoi.
Padre, se non ti sdegni.
Mutato sei da quel che fosti in terra.
Morian per le rutene
Squallide piagge, ahi d'altra morte degni.
Gl'itali prodi; e lor fea l'aere e il cielo
E gli uomini e le belve immensa guerra.
Cadeano a squadre a squadre
Semivestiti, maceri e cruenti.
Ed era letto agli egri corpi il gelo.
V. 146-183 SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE 173
Allor, quando traean T ultime peue,
Membrando questa desiata madre,
Diceano: oh uou le. nubi e uon i veuti.
Ma ne spegnesse il ferro, e per tuo bene,
0 patria nostra. Ecco da te rimoti,
Quando più bella a noi l'età sorride,
A tutto il mondo ignoti,
Moriam per quella gente che t'uccide.
Di lor querela il boreal deserto
E conscie fur le sibilanti selve.
Così vennero al passo,
E i negletti cadaveri all'aperto
Su per quello di neve orrido mare
Dilacerar le belve;
E sarà il nome degli egregi e forti
Pari mai sempre ed uno
Con quel de' tardi e vili. Anime care,
Bench'infinità sia vostra sciagura.
Datevi pace; e questo vi conforti
Che conforto nessuno
Avrete in questa o nell'età futura.
In seno al vostro smisurato affanno
Posate, o di costei veraci figli.
Al cui supremo danno
Il vostro solo è tal che s'assomigli.
Di voi già non si lagna
La patria vostra, ma di chi vi spinse
A pugnar centra lei,
Sì ch'eUa sempre amaramente piagna
E il suo col vostro lacrimar confonda.
Oh di costei ch'ogni altra gloria vinse
Pietà nascesse in core
A tal de' suoi ch'affaticata e lenta
Di sì buia vorago e sì profonda
La ritraesse! 0 glorioso spirto,
Dimmi: d'Italia tua morto è l'amore?
Dì: quella fiamma che t'accese, è spenta?
Dì: né più mai rinverdirà quel mirto
74 CANTI V. 184-200- ; 1-10
Ch'alleggiò per gran tempo il nostro male 'l
Nostre corone al suol fìen tutte sparte ?
Xè sorgerà mai tale
Che ti rassembri in qualsivoglia parte ?
In eterno perimmo ? e il nostro scorno
Non ha verun confine ?
Io mentre viva andrò sclamando intorno:
Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio;
Mira queste ruine
E le carte e le tele e i marmi e i templi;
Pensa qual terra premi; e se destarti
Non può la luce di cotanti esempli.
Che stai? levati e parti.
Non si conviene a sì corrotta usanza
Questa d'animi eccelsi altrice e scola:
Se di codardi è stanza.
Meglio l'è rimaner vedova e sola.
III.
AD ANGELO MAI,
quand'ebbe trovato I LIBRI DI CICERONE
DELLA REPUBBLICA.
Italo ardito, a che giammai non posi
Di svegliar dalle tombe
I nostri padri ^ ed a parlar gli meni
A questo secol morto, al quale incombe
Tanta nebbia di tedio ? E come or vieni
Sì forte a' nostri orecchi e sì frequente,
Voce antica de' nostri,
Muta sì lunga etade ? e perchè tanti
Risorgimenti ? In un balen feconde
Venner le carte; alla stagion presente
V. 11-48 AD ANGELO MAI 175
1 polverosi chiostri
Serbaro occulti i generosi e santi
Detti degli avi. E che valor t'infonde,
Italo egregio, il fato ? 0 con Fumano
Valor forse contrasta il fato invano ?
Certo senza de' numi alto consiglio
Non è eh' ove piti lento
E grave è il nostro disperato obblio,
A percoter ne rieda ogni momento
Novo grido de' padri. Ancora è pio
Dunque ali" Italia il cielo; anco si cura
Di noi qualche immortale:
Ch'essendo questa o nessun'altra poi ,
L'ora da ripor mano alla virtude
Rugginosa dell'itala natura,
Veggiam che tanto e tale
È il clamor de' sepolti, e che gii eroi
Dimenticati il suol quasi dischiude,
A ricercar s"a questa età sì tarda
Anco ti giovi, o patria, esser codarda.
Di noi serbate, o gloriosi, ancora
Qualche speranza? in tutto
Non slam periti 'ì A voi forse il futuro
Conoscer non si toglie. Io son distrutto
Né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
M'è l'avvenire, e tutto quanto io scerno
È tal che sogno e fola
Fa parer la speranza. Anime prodi,
Ai tetti vostri inonorata, immonda
Plebe successe; al vostro sangue è scherno
E d'opra e di parola
Ogni valor; di vostre eterne lodi
Né rossor piìi né invidia; ozio circonda
I monumenti vostri; e di viltade
Siam fatti esempio alla futura etade.
Bennato ingegno, or quando altrui non cale
De' nostri alti parenti,
A te ne caglia, a te cui fato aspira
176 CANTI V. 49-86
Beuigno sì che per tua man presenti
Paion que' giorni allor che dalla dira
Obblivione antica ergean la chioma,
Con gli studi sepolti,
I vetusti divini, a cui natura
Parlò senza svelarsi, onde i riposi
Magnanimi allegrar d'Atene e Roma.
Oh tempi, oh tempi avvolti
In sonno eterno I Allora anco immatura
La ruina d'Italia, anco sdegnosi
Eravam d'ozio turpe, e l'aura a volo
Pili faville rapia da questo suolo.
Eran calde le tue ceneri sante,
Non dòmito nemico
Della fortuna, al cui sdegno e dolore
Fu i)iìi Taverno che la terra amico.
L'averno: e qual non è parte migliore
Di questa nostra ? E le tue dolci corde
Susurravano ancora
Dal tocco di tua destra, o sfortunato
Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce
L'italo canto. E pur men grava e morde
II mal che n'addolora
Del tedio che n'affoga. Oh te beato,
A cui fu vita il pianto I A noi le fasce
Cinse il fastidio; a noi presso la culla
Immoto siede, e su la tomba, il nulla.
Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
Ligure ardita prole,
Quand' oltre alle colonne, ed oltre ai liti,
Cui strider l'onda all'attuffar del sole
Parve udir su la sera ^, agl'infiniti
Flutti commesso, ritrovasti il raggio
Del Sol caduto, e il giorno
Che nasce aUor ch'ai nostri è giunto al fondo;
E rotto di natura ogni contrasto,
Ignota immensa terra al tuo viaggio
Fu gloria, e del ritorno
V. 87-12-4 AD ANGELO MAI 177
Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
L'etra sonante e l'alma terra e il maro
Al fanciuUin, che non al saggio, appare.
Nostri sogni leggiadri ove son giti
Dell'ignoto ricetto
D'ignoti abitatori, o del diurno
Degli astri albergo, e del rimoto lotto
Della giovane Aurora, e del notturno
Occulto sonno del maggior pianeta ? ^
Ecco svanirò a un punto,
E figurato è il mondo in breve carta;
Ecco tutto è simile, e discoprendo,
Solo il nulla s'accresce. A noi ti vieta
Il vero appena è giunto,
0 caro immaginar; da te s'apparta
. Nostra mente in eterno; allo stupendo
Poter tuo primo ne sottraggon gii anni;
E il conforto perì de' nostri affanni.
Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo
Sole splendeati in vista,
Cantor vago dell'arme e degli amori.
Che in età della nostra assai men trista
Empier la vita di felici errori:
Nova speme d'Italia. 0 torri, o colle,
O donne, o cavalieri,
0 giardini, o palagi! a voi pensando,
In mille vane amenità si perde
La mente mia. Di vanità, di belle
Fole e strani pensieri
Si componea l'umana vita: in bando
Li cacciammo : or che resta ì or poi che il verde
È*spogliato alle cose*? Il certo e solo
Veder che t.utto è vano altro che il duolo.
0 Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa
Tua mente allora, il pianto
A te, non altro, preparava il cielo.
Oh misero Torquato I il dolce canto
12. — Gr. Leopardi.
178 CANTI V. 125-162
Non valse a consolarti o a sciorre il gelo
Onde l'alma t'avean, ch'era sì calda,
Cinta r odio e l'immondo
Livor privato e de' tiranni. Amore,
Amor, di nostra vita ultimo inganno.
T'abbandonava. Ombra reale e salda
Ti parve il nulla, e il mondo
Inabitata piaggia. Al tardo onore '
Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno.
L'ora estrema ti fu. Morte domanda
Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.
Torna torna fra noi, sorgi dal muto
E sconsolato avello,
Se d'angoscia sei vago, o miserando
Esemplo di sciagura. Assai da quello
Che ti parve si mesto e sì nefando,
È peggiorato il viver nostro. 0 caro.
Chi ti compiangerla,
Se, fuor che di se stesso, altri non cura'?
Chi stolto non direbbe il tuo mortale
Affanno anche oggidì, se il grande e il raro
Ha nome di follia;
Né livor più, ma ben di lui più dura
La noncuranza avviene ai sommi ? o quale,
So più de' carmi, il computar s'ascolta.
Ti appresterebbe il lauro un" altra voltai
Da te fino a quesfora uom non è sorto,
0 sventurato ingegno,
Pari all'italo nome, altro eh" un solo,
Solo di sua codarda etade indegno
AUobrogo feroce, a cui dal polo
Maschia virtù, non già da questa mia
Stanca ed arida terra,
Venne nel petto; onde privato, inerme,
(Memorando ardimento) in su la scena
Mosse guerra a' tiranni: almen si dia
Questa misera guerra
E questo vano campo all'ire inferme
V. 163-180: 1-13 AD ANGELO MAI • 179
Del mondo. Ei primo e sol dentro all'arena
Scese, e nullo il seguì, che l'ozio e il brutto
Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.
Disdegnando e fremendo, immacolata
Trasse la vita intera,
E morte lo scampò dal veder peggio,
Vittorio mio, questa per te non era
Età né suolo. Altri anni ed altro seggio
Conviene agli alti ingegni. Or di riposo
Paghi viviamo, e scorti
Da mediocrità: sceso il sapiente
E salita è la turba a un sol confine,
Che il mondo agguaglia. 0 scopritor famoso.
Segui; risveglia i morti.
Poi che dormono i vivi; arma le spente
Lingue de' prischi eroi; tanto che in fine
Questo secol di fango o vita agogni
E sorga ad atti illustri, o si vergogni.
NELLE NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA.
Poi che del patrio nido
I silenzi lasciando, e le beate
Larve e l'antico error, celeste dono,
Ch'abbella agli occhi tuoi quest'ermo lido.
Te nella polve della vita e il suono
Tragge il destin; l'obbrobriosa etate
Che il duro cielo a noi prescrisse impara,
Sorella mia, che in gravi
E luttuosi tempi
L'infelice famiglia all'infelice
Italia accrescerai. Di forti esempi
Al tuo sangue provvedi. Aure soavi
L'empio fato interdice
180 CANTI V. 14-51
All'umana virtude,
Né pura in gracil petto alma si chiude.
0 miseri o codardi
Figliuoli avrai. Miseri eleggi. Immenso
Tra fortuna e valor dissidio pose
Il corrotto costume. Ahi troppo tardi,
E nella sera dell'umane cose,
Acquista oggi chi nasce il moto e il senso.
Al ciel ne caglia: a te nel petto sieda
Questa sovr'ogni cura,
Che di fortuna amici
Kon crescano i tuoi figli, e non di vile
Timor gioco o di speme: onde telici
Sarete detti nell'età futura: ,
Poiché (nefando stile
Di schiatta ignava e finta)
Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta.
Donne, da voi non poco
La patria aspetta; e non in danno e scorno
Dell'umana progenie al dolce raggio
Delle pupille vostre il ferro e il foco
Domar fu dato. A senno vostro il saggio
E il forte adopra e pensa; e quanto il giorno
Col divo carro accerchia, a voi s'inchina.
Kagion di nostra etate
Io chieggo a voi. La santa
Fiamma di gioventìi dunque si spegno
Per vostra mano ? attenuata e franta
Da voi nostra natura? e le assonnato
Menti, e le voglie indegne,
E di nervi e di polpe
Scemo il valor natio, son vostre colpo?
Ad atti egregi è sprone
Amor, chi ben l'estima, e d'alto affetto
Maestra è la beltà. D'amor digiuna
Siede l'alma di quello a cui nel petto
Non si rallegra il cor quando a tenzono
Scendono i venti, e quando nembi aduna
V. 52-90 ALLA SORELLA PAOLINA 181
L'olimpo, 0 fìede le montagno il rombo
Della procella. 0 spose,
0 vergiuette, a voi
Chi de' perigli è schivo, e quei che iudeguo
È della patria e che sue brame e suoi
Volgari affetti iu basso loco poso,
Odio mova e disdegno;
So nel femmineo core
D'uomini ardea^^ non di fanciulle, amore.
.Madri dimbelle prole
V'incresca esser nomate. I danni e il pianto
Della virtude a tollerar s'avvezzi
La stirpe vostra, e quel che pregia e cole
La vergognosa età, condanni e sprezzi;
Cresca alla patria, e gli alti gesti, e quanto
Agli avi suoi deggia la terra impari.
Qua] de' vetusti eroi
Tra le memorie e il grido
Crescean di Sparta i tìgli al greco nome;
Finché la sposa giovanotta il fido
Brando cingeva al caro lato, e poi
Spandea le negre chiome
Sul corpo esangue e nudo
Quando e' reddìa nel conservato scudo.
Virginia, a te la molle
Gota molcea con le celesti dita
Beltade onnipossente, e degli alteri
Disdegni tuoi si sconsolava il folle
Signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri
Xella stagion ch'ai dolci sogni invita,
Quando il rozzo paterno acciar ti ruppe
Il bianchissimo petto,
E all'Èrebo scendesti
Volenterosa. A me disfiori e scioglia
Vecchiezza i membri, o padre; a me s'appresti,
Dicea, la tomba, anzi che l'empio letto
Del tiranno m'accoglia.
E BO pur vita e lena
Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena.
182 , CANTI V. 91-105; 1-16
0 generosa, ancora
Che più bello a' tuoi dì splendesse il s'ole
Ch'oggi non fa, pur consolata e paga
È quella tomba cui di pianto onora
L'alma terra nativa. Ecco alla vaga
Tua spoglia intorno la romulea prole
Di nova ira sfavilla. Ecco di polve
Lorda il tiranno i crini;
E libertade avvampa
Gli obbliviosi petti; e nella doma
Terra il marte latino arduo s'accampa
Dal buio polo ai torridi confini.
Così l'eterna Roma
In duri ozi sepolta
Femmineo fato avviva un'altra volta.
V.
A UN VINCITORE XEL PALLONE.
Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi.
Magnanimo campion (s'alia veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi, e il core
Movi ad alto desio.. Te F echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illiLstri il popolar favore;
Te rigoglioso dell'età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar i^repara.
Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo.
V. 17-54 A UN VINCITORE NEL PALLONE 183
Che stupido mirò l'ardua palestra,
Né la palma beata e la corona
D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtìi nativa
Le riposte faville ì e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco ferver f Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l'opre de' mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero ? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l'insano
Costume ai forti errori esca non poi-^e,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verr<à eh" alle mine
Delle italiche moli
Insultino gE. armenti, e che l'aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l'atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia
184 CANTI V. 55-65; 1-20
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
Xostra colpa e fatai. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s'onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Xostra vita a che vai? solo a spregiarla:
Beata allor che ne' perigli avvolta,
Se stessa obblia, né delle putrì e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede.
VI.
BRUTO MINORE,
Poi che divelta, nella tracia ^ polve
Giacque mina immensa
L'italica virtute, onde alle valli
D'Esperia verde, e al tiberino lido,
11 calpestio de' barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignuda
Cui l'Orsa algida preme,
A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi;
Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno accusa,
E di feroci note
Invan la sonnolenta aura percote.
Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
Dell'inquiete larve
Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
V. 21-58 BRUTO MINORE 185
0 su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice
A cui temigli chiedeste, e Irodolouta
Legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà! dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,
Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi?
Preme il destino invitto, e la ferrata
Necessità gl'infermi
Schiavi di morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, de' necessarii danni
Si consola il plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,
Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava.
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride,
E maligno alle nere ombre sorride.
Spiace agli Dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fora
Tanto valor ne' molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose ?
Non fra sciagure e colpe,
Ma libera ne' boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,
Reina un tempo e Diva. Or poi eh' a terra
Sparse i regni beati empio costume,
E il viver macro ad altre leggi addisse;
Quando gl'infausti giorni
186 CANTI V. 59-96
Virile alma ricusa,
Kiede natura, e il non suo dardo accusa ?
Di colpa ignare e de' lor proprii danni
Le fortunate belve
Serena adduce al non previsto passo
La tarda età. Ma se spezzar la fronte
Ne' rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra,
Lor suadesse affanno;
Al misero desio nulla contesa
Legge arcana farebbe
0 tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometèo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,
Se il fato ignavo pende.
Soli, o miseri, a voi Giove contende.
E tu dal mar cui nostro sangue irriga.
Candida luna, sorgi,
E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori
Cognati petti il vincitor calpesta, ^
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei ! Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando ne' danni
Del servo italo nome,
Sotto barbaro piede
Rintronerà quella solinga sede.
Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l'augello,
Del consueto obblio gravido il petto.
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre.
V. 97-120; 1-5 bruto minore 187
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella r inferma plebe
Agiterà delle minori belve.
Oh casi I oh gener vano I abbietta parte
Siam delle cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Xè scolorò le stelle umana cura.
Non io d'Olimpo o di Oocito i sordi
Regi, o la terra indegna,
E non la notte moribondo appello;
Non te, dell'atra morte ultimo raggio.
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placar singulti, ornar parole e doni
Di vii caterva? In peggio
Precipitano i tempi; e mal s'affida
A putridi nepoti
L'onor d'egregie menti e la suprema
De' miseri vendetta. A me dintorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo
Tratti l'ignota spoglia;
E l'aura il nome e la memoria accoglia.
VII.
ALLA PRIMAVERA
O DELLE FAVOLE ANTICHE.
Perchè i celesti danni
Ristori il sole, e perchè l'aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
Credano il petto inerme
188 . CANTI V. 6-43
Gli augelli al vento, e la diurna luco
Novo d'amor desio, uova speranza
Ne' penetrati boschi e fra le sciolte
Pruine induca alle commosse belve;
Forse alle stanclie e nel dolor sepolte
Umane menti riede
La bella età, cui la sciagura e l'atra
Face del ver consunse
Innanzi termpo ? Ottenebrati e spenti
Di febo i raggi al misero non sono
In sempiterno ? ed anco.
Primavera odorata, inspiri e tenti
Questo gelido cor, questo ch'amara
Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara ?
Vivi tu, vivi, o santa
Natura ? vivi e il dicsueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie ?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
Placido albergo e specchio
Furo i liquidi fonti. Arcane danze
D 'immortai piede i ruinosi gioghi
Scossero e l'ardue selve (oggi romito
Nido de' venti): e il pastorel ch'all'ombre
Meridiane * incerte, ed al fiorito
Margo adducea de' fiumi
Le sitibonde agnelle, arguto carme
Sonar d'agresti Pani
Udì lungo le ripe; e tremar l'onda
Vide, e stupì, che non palese al guardo
La faretrata Diva
Scendea ne' caldi flutti, e dall'immonda
Polve tergea della sanguigna caccia
Il niveo lato e le verginee braccia.
Vissero i fiori e l'erbe
Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania lampa
Fur dell'umana gente, allor che ignuda
Te per le piagge e i colli.
V. 44-81 ALLA PRIMAVERA 189
Ciprigna luce, alla deserta notte
Con gli occhi intenti il viator seguendo.
Te compagna alla via, te de' mortali
Pensosa immaginò. Che se gl'impuri
Cittadini consorzi e le fatali
Ire fuggendo e l'onte,
Gl'ispidi tronchi al petto altri noli" ime
Selve remoto accolse,
Viva fiamma agitar l'esangui vene,
Spii'ar le foglie, e palpitar segreta
Nel doloroso amplesso
Dafne e la mesta Filli, o di Climene
Pianger credè la sconsolata prole
Quel che sommerse in Eridàno il sole.
Né dell'umano affanno.
Rigide balze, i luttuosi accenti
Voi negletti ferir mentre le vostre
Paurose latebre Eco solinga.
Non vano error de' venti.
Ma di ninfa abitò misero spirto.
Cui grave amor, cui duro fato escluse
Delle tenere membra. EUa per grotte,
Per nudi scogli e desolati alberghi,
Le non ignote ambasce e l'alte e rotte
Nostre querele al curvo
Etra insegnava. E te d'umani eventi
Disse la fama esperto.
Musico augel che tra chiomato bosco
Or vieni il rinascente anno cantando,
E lamentar nell'alto
Ozio de' campi, all'aer muto e fosco,
Antichi danni e scellerato scorno,
E d'ira e di pietà pallido il giorno.
Ma non cognato al nostro
Il gener tuo; quelle tue varie note
Dolor non forma, e te di colpa ignudo,
. •' Men caro assai la bruna valle asconde.
Ahi ahi, poscia cho vote
190 CANTI V. 82-95; 1-15
Son le stanze d'Olimpo, e cieco il tuono
Per l'atre nubi e le montagne errando,
GÌ" iniqui petti e gl'innocenti a paro
In freddo orror dissolve; e poi ch'estrano
Il suol nativo, e di sua prole ignaro
Le meste anime educa;
Tu le cure infelici e i fati indegni
Tu de' mortali ascolta,
Vaga natura, e la favilla antica
Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
E se de' nostri affanni
Cosa veruna in ciel, se nell'aprica
Terra s'alberga o nell'equoreo seno.
Pietosa no, ma spettatrice almeno.
VITI.
INNO AI PATRIAKCHI,
o de' principii del genere umano.
E voi de' figli dolorosi il canto.
Voi dell'umana prole incliti padri,
Lodando ridirà; molto aireterno
Degli astri agitator piìi cari, e molto
Di noi men lacrimabili nell'alma
.Luce prodotti. Immedicati affanni
Al misero mortai, nascere al pianto,
E dell'etereo lume assai piìi dolci
Sortir l'opaca tomba e il fato estremo,
Non la pietà, non la diritta impose
Legge del cielo. E se di vostro antico
Error che l'uman seme alla tiranna
Possa de' morbi e di sciagura offerse,
Grido antico ragiona, altre più dire
Colpe d«' figli, e irrequieto ingegno,
V. 16-53 AI PATRIARCHI
191
i: demenza maggior l'offeso Olimpo
N'armaro incontra, e la negletta mano
DelFaltrice natura; onde la viva
Fiamma n" increbbe, e detestato il parto
Fu del grembo materno, e violento
Emerse il disperato Èrebo in terra.
Tu primo il giorno, e le purpuree faci
Delle rotanti sfere, e la novella
Prole de' campi, o duce antico e padre
Dell'umana famigUa, e tu l'errante
Per li giovani prati aura contempli:
Quando le rupi e le deserte valli
Precipite l'alpina onda feria
D'inudito fragor; quando gii ameni
Futuri seggi di lodate genti
E di cittadi romorose, ignota
Pace regnava; e gl'inarati colli
Solo e muto ascendea l'aprico raggio
Di febo e l'aurea luna. Oh fortunata.
Di colpe ignara e di lugubri eventi.
Erma terrena sede! Oh quanto affanno
Al gener tuo, padre infelice, e quale
D'amarissimi casi ordine immenso
Preparano i destini! Ecco di sangue
Gli avari cólti e di fraterno scempio
Furor novello incesta, e le nefande
Ali di morte il divo etere impara.
Trepido, errante il fratricida, e l'ombre
Solitarie fuggendo e la secreta
Nelle profonde selve ira de' venti.
Primo i civili tetti, albergo e regno
Alle macere cure, innalza ' ; e primo
Il disperato pentimento* i ciechi
Mortali egro, anelante, aduna e stringe
Ne' consorti ricetti: onde negata
L'improba mano al curvo aratro, e vili
Fur gli agresti sudori; ozio le soglie
Scellerate occupò; ne' corpi inerti
192 CANTI T. 54-91
Domo il vigor natio, languide, ignave
Giacquer le menti; e servitù le imbelli
Umane vite, ultimo danno, accolse.
E tu dall'etra infesto e dal mugghiante
Su i nubiferi gioghi equoreo flutto
Scampi l'iniquo germe, o tu cui prima
Dall'aer cieco e da' natanti poggi
Segno arrecò d'instaurata spene
La candida colomba, e delle antiche
Nubi l'occiduo Sol naufrago uscendo,
L'atro polo di vaga iri dipinse.
Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi
Studi rinnova e le seguaci amb .sce
La riparata gente. Agl'inaccessi
Regni del mar vendicatore illude
Profana destra, e la sciagura e il pianto
A novi liti e nove stelle insegna.
Or te, padre de' pii, te giusto e forte,
E di tuo seme i generosi alunni
Medita il petto mio. Dirò siccome
Sedente, oscuro, in sul meriggio all'ombre
Del riposato albergo, appo le molli
Rive del gregge tuo nutrici e sedi,
Te de' celesti peregrini occulte
Bear l'eteree menti; e quale, o figlio
Della saggia Rebecca, in su la sera,
Presso al rustico pozzo e nella dolce
Di pastori e di lieti ozi frequente
Aranitica valle, amor ti punse
Della vezzosa Labanide: invitto
Amor, eh' a lunghi esigli e lunghi affanni
E di servaggio all'odiata soma
Volenteroso il prode animo addisse.
Fu certo, fu (né d'error vano e d'ombra
L'aonio canto e della fama il grido
Pasce l'avida plebe) amica un tempo
Al sangue nostro e dilettosa e cara
Questa misera piaggia, od aurea corse
V. 92-117; 1-7 inno ai patriarchi 193
Nostra caduca età. Non die di latte
Onda rigasse intemerata il fianco
Delle balze materne, o con le greggi
Mista la tigre ai consueti ovili
Né guidasse per gioco i lupi al fonte
Il patterei; ma di suo fato ignara
E degli affanni suoi, vota d'affanno
Visse l'umana stirpe; alle scerete
Leggi del cielo e di natura indutto
Valse l'ameno error, le fraudi, il molle
Pristino velo; e di sperar contenta
Nostra placida nave in porto ascese.
Tal fra le vaste californie selve
Nasce beata prole, a cui non sugge
Pallida cura il petto, a cui le membra
Fera tabe non doma; e vitto il bosco,
Nidi l'intima rupe, onde ministra
L'irrigua valle, inopinato il giorno
Dell'atra morte incombe. Oh centra il nostro
Scellerato ardimento inermi regni
Della saggia natura! I lidi e gii antri
E le quiete selve apre l'invitto
Nostro furor; le violate genti
Al peregrino aff'anno, agi' ignorati
Desiri educa; e la fugace, ignuda
Felicità per l' imo sole incalza ^.
IX.
ULTIMO CANTO DI SAFFO.
Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su le rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
Sembianze agii occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
13. — G. Leopardi.
194 CANTI V. 8-45
Noi l'iusueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de' Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo
Tonando, il tenebroso aere divide,
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra' nembi, e noi la vasta
Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda.
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l'empia
Sorte non fenno. A' tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L'aprico margo, e dall'eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De' colorati augelli, e non de' faggi
Il murmurc saluta: e dove all'ombra
Degrinchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico pie le flessuose linfe
Disdegnando sottraggo,
E preme in fuga l'odorate spiagge.
Qual fallo mai, qua! sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto ?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovinezza, e disfiorato, al fuso
Deirindomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame ? Incaute voci
Spaiade il tuo labbro: i destinati eventi
V. 46-72; 1-G SAFFO 195
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De' celesti si posa. Oh cure, oh speme
De' pili verd"annil Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Die nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto.
Virtìi non luce in disadorno ammanto.
Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de' casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D'implacato desio furor mi strinse.
Vivi felice, se feKce in terra
Visse nato mortai. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gringanni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni piii lieto
Giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori.
Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l'atra notte, e la silente riva.
X.
IL PRIMO AMORE.
Tornami a mente il dì che la battaglia
D'amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!
Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,
Io mirava colei ch'a questo core
Primiera il varco ed innocente aprissi.
196 CANTI V. 7-45
Ahi come mal mi governasti, amore !
Percliè seco dovea sì dolce affetto
Recar tanto desio, tanto dolore?
E non sereno, e non intero e schietto,
Anzi pieu di travaglio e di lamento
Al cor mi discendea tanto diletto ?
Dimmi, tenero core, or che spavento,
Che angoscia era la tua fra quel pensiero
Presso al qual t'era noia ogni contento ?
Quel pensier che nel dì, che lusinghiero
Ti si offeriva nella notte, quando
Tutto queto parea nell'emisfero:
Tu inquieto, e felice e miserando.
M'affaticavi in su le piume il fianco,
Ad ogni or fortemente palpitando.
E dove io tristo ed aft'annato e stanco
Gli occhi al sonno chiudea, come per febre
Rotto e deliro il sonno venia manco.
Oh come viva in mezzo alle tenebre
Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
La contemplavan sotto alle palpebre I
Oh come soavissimi diffusi
Moti per l'ossa mi serpeano ! oh come
Mille nell'alma instabili, confusi
Pensieri si volgean! qual tra le chiome
D'antica selva zefiro scorrendo,
Un lungo, incerto mormorar ne prome.
E mentre io taccio, e mentre io non contendo,
Che dicevi, o mio cor, che si partia
Quella per che penando ivi e battendo ?
Il cuocer non piti tosto io mi sentia
Della vampa d'amor, che il venticello
Che l'aleggiava, volossene via.
Senza sonno io giacea sul dì novello,
E i destrier che dovean farmi deserto,
Battean la zampa sotto al patrio ostello.
Ed io timido e cheto ed inesperto.
Vèr lo balcone al buio protendea
L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,
V. 46-84 IL PRIMO AMORE
197
La voce ad ascoltar, se ne dovea
Di qiieUe labbra uscir, clr ultima fosse;
La voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea.
Quante volte plebea voce percosse
Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
E il core in forse a palpitar si mosse!
E poi che finalmente mi discese
La cara voce al core, e de' cavai
E delle rote il romorio s'intese;
Orbo rimase allor, mi rannicchiai
Palpitando nel letto e, chiusi gii occhi,
Strinsi il cor con la. mano, e sospirai.
Poscia traendo i tremuli ginocchi
Stupidamente per la muta stanza.
Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?
Amarissima allor la ricordanza
Locommisi nel petto, e mi serrava
Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.
E lunga doglia il sen mi ricercava,
Com'è quando a distesa Olimpo piove
Malinconicamente e i campi lava.
Ned io ti conoscea, garzon di nove
E nove Soli, in questo a pianger nato
Quando facevi, amor, le prime prove.
Quando in ispregio ogni piacer, ne grato
M'era degli astri il riso, o dell'aurora
Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.
Anche di gloria amor taceami allora
Nel petto, cui scaldar tanto solea,
Che di beltade amor vi fea dimora.
Né gli occhi ai noti studi io rivolgea,
E quelli m'apparian vani per cui
Vano ogni altro desir creduto avea.
Deh come mai da me sì vario fui.
E tanto amor mi tolse un altro amore?
Deh quanto, in verità, vani siam nui!
Solo il mio cor piaceami, e col mio core
In un perenne ragionar sepolto.
Alla guardia seder del mio dolore.
198 CANTI V. 85-103; 1-13
E l'occhio a terra chino o in sé raccolto,
Di riscontrarsi fuggitivo e vago
Né in leggiadro soffria né in turpe volto:
Che la illibata, la candida imago
Turbare egli temea pinta nel seno,
Come all'aure si turba onda di lago.
E quel di non aver goduto appieno
Pentimento, che l'anima ci grava,
E il piacer che passò cangia in veleno,
Per li fuggiti dì mi stimolava
Tuttora il sen: che la vergogna il duro
Suo morso in questo cor già non oprava.
Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro
Che voglia non m'entrò bassa nel petto.
Ch'arsi di foco intaminato e j^uro.
Vive quel foco ancor, vive l'affetto.
Spira nel pensier mio la bella imago.
Da cui, se non celeste, altro diletto
Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.
XI.
IL PASSERO SOLITARIO.
D'in su la vetta della torre antica.
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l'armonia per ({uesta valle.
Primavera dintorno
Brilla nellaria, e per li campi esulta.
Si eh' a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri.
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli.
V. 14-51 IL PASSERO SOLITARIO 199
Xon ti cai d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio I Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore.
Sospiro acerbo de' provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio.
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno cli'omai cede alla sera.
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla.
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campfigna uscendo.
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augeUin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natui'a è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
200 CANTI V. 52-59; 1-15; 1-4
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia vóto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente piti noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia !
Che di quest'anni miei ? che di me stesso ?-
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
XII.
L'INFINITO.
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mii'ando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
10 nel pensier mi fìngo; ove per poco
11 cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la ijresente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio;
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
XIII.
LA SERA DEL Dì DI FESTA.
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. 0 donna mia.
5-42 LA SERA DEL DÌ DI FESTA 201
Già tace oo^ni sontioro. o pei balconi
Rara trahice la notturna lampa:
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
Nqlle tue chete stanze; o non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nò pensi
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica natura onnipossente,
Che mi fece all'affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da' trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già ch'io speri.
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. 0 giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell' artigian, che riede a tarda notte.
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il di festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
Di que' popoli antichi? or dov'è il grido
De' noatri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
Che n'andò per la terra e l'oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
202 CANTI V. 43-46; 1-16; 1-7
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s' lidia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
XIV.
ALLA LUNA.
0 graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle
10 venia pien d'angor-cia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
11 tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
. 0 mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l' etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso.
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!
XV.
IL SOGNO.
Era il mattino, e tra le chiuse imposte
Per lo balcone insinuava il Sole
Nella mia cieca stanza il primo albore;
Quando in sul tempo che più leve il sonno
E più soave le pupille adombra,
Stettemi allato e riguardommi in viso
Il simulacro di colei che amore
V. 8-45 IL SOGNO 203
Prima inseguommi, e poi lasciommi ia pianto.
Morta non mi parea, ma trista, e quale
Degl'infelici è la sembianza. Al capo
Appressommi la destra, e sospirando,
Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
Serbi di noi! Donde, risposi, e come
Vieni, o cara beltà ? Quanto, deh quanto
Di te mi dolse e duol: né mi credea
Che risaper tu lo dovessi; e questo
Facea più sconsolato il dolor mio.
Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?
Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne ?
Sei tu quella di prima ì E che ti strugge
Internamente ! Obblivione ingombra
I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno;
Disse colei. Son morta, e mi vedesti
L'ultima volta, or son più lune. Immensa
Doglia m'oppresse a queste voci il petto.
Ella seguì: nel fior degli anni estinta,
Quand'è il viver più dolce, e pria che il core
Certo si renda com'è tutta indarno
L'umana speme. A desiar colei
Che d'ogni affanno il traggo, ha poco andare
L'egro mortai; ma sconsolata arriva
La morte ai giovanetti, e duro è il fato
Di quella speme che sotterra è spenta.
Vano è saper quel che natura asconde
Agl'inesperti della vita, e molto
All'immatura sapienza il cieco
Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara.
Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti
Con questi detti il cor. Dunque sei morta,
O mia diletta, ed io son vivo, ed era
Pur fìsso in ciel che quei sudori estremi
Cotesta cara e tenerella salma
Provar dovesse, a me restasse intera
Questa misera spoglia ? Oh quante volte
In ripensar che più non vivi, e mai
204 CANTI V. 46-83
Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
Creder noi posso ! Ahi ahi, che cosa è questa
Che morte s'addimanda? Oggi per prova
Intenderlo potessi, e il capo inerme
Agli atroci del fato odii sottrarre!
Giovane son, ma si consuma e perde
La giovanezza mia come vecchiezza;
La qual pavento, e pur m'è lungo assai.
Ma poco da vecchiezza si discorda
Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,
Disse, ambedue; felicità non rise
Al viver nostro; e dilettossi il cielo
De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio.
Soggiunsi, e di pallor velato il viso
Per la tua dipartita, e se d'angoscia
Porto gravido il cor; dimmi: d'amore
Favilla alcuna, o di pietà, giammai
Verso il misero amante il cor t'assalse
Mentre vivesti? Io disperando allora
E sperando traea le notti e i giorni;
Oggi nel vano dubitar si stanca
La mente mia. Che se una volta sola
Dolor ti strinse di mia negra vita.
Non mei celar, ti prego, e mi soccorra
La rimembranza or che il futuro è tolto
Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
0 sventurato. Io di pietade avara
Non ti fui mentre vissi, ed or non sono.
Che fui misera anch'io. Non far querela
Di questa infelicissima fanciulla.
Per le sventure nostre, e per l'amore
Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
Nome di giovanezza e la perduta
Speme dei nostri dì, concedi, o cara.
Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
Di baci la ricopro, e d'affannosa
Dolcezza palpitando all'anelante
V. 84-100; 1-15 IL SOGNO 205
Seno la stringo, di sudore il volto
Ferveva e il petto, nelle fauci stava
La voce, al guardo traballava il giorno.
Quando colei teneramente atìissi
Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
Disse, che di beltà son fatta ignuda?
E tu d'amore, o sfortunato, indarno
Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere menti e nostre salme
Son disgiunte in eterno. A me non vivi,
E mai più non vivrai: già ruppe il fato
La fé che mi giurasti. Allor d'angoscia
Gridar volendo, e spasimando, e pregne
Di sconsolato pianto le pupille.
Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
Pur mi restava, e nelF incerto raggio
Del Sol vederla io mi credeva ancora.
XYL
LA VITA SOLITARIA.
La mattutina pioggia, allor che l'ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s'affaccia
L'abitator de' campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai fra le cadenti
StiUe saetta,. aUa capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l'aura fresca,
E le ridenti piagge benedico:
Poiché voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, là dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto ! Alcuna
Benché scarsa pietà pur mi dimostra
206 CANTI Y. 16-53
Natura in questi lochi, uu giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gii affanni, alla reina
Felicità servi, o natura. In cielo,
In terra amico agFinfelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m'assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d'un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, né batter penna augello in ramo.
Xè farfalla ronzar, né voce o moto
Da presso né da lungo odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, né spirto o senso
Piti le commova, e lor quiete antica
Co' silenzi del loco si confonda.
Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno.
Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio é vòlto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s'apre
Al guardo giovami questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio
Balza nel petto; e già s'accinge all'opra
Di questa vita come a danza o gioco
Il misero mortai. Ma non si tosto,
Amor, di te m'accorsi, e il viver mio
V. 54-91 LA VITA SOLITARIA 20"
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora o quando al sole -
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso;
0 qualor nella placida quiete
D'estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L'erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all'opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L'arguto canto; a palpitar si move
Questo mio cor di sasso : ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano
Ogni moto soave al petto mio.
cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L'orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia; salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in su l'acciaro
Del pallido ladron eh' a teso orecchio
Il fragor delle rote e de' cavalli
Da lungi osserva o il calpestio de' piedi
Sulla tacita via; poscia improvviso
Col suon dell'armi e con la rauca voce
E col funereo ceiìo il core agghiaccia
Al passegger, cui semivivo e nudo
Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco
Tuo lume al drudo vii, che degli alberghi
Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne e degli aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti.
208 CANTI T. 92-107; 1-16
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste piagge, ove non altro
Che lieti colli e sj^aziosi campi
M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,
Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch'io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell'etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe' boschi e per le verdi rive,
0 seder sovra l'erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m'avanza.
XVII.
CONSALVO.
Presso alla fin di sua dimora in terra,
Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
Del suo destino, or già non piìi, che a mezzo
Il quinto lustro, gli pendea sul capo
Il sospirato obblio, Qual da gran tempo.
Così giacea nel funeral suo giorno
Dai più diletti amici abbandonato:
Ch'amico in terra al lungo andar nessuno
Resta a colui che della terra è schivo.
Pur gli era al fianco, da pietà condotta
A consolare il suo deserto stato,
Quella che sola e sempre eragli a mente.
Per divina beltà famosa Elvira;
Conscia del suo poter, conscia che un guardo
Suo lieto, un detto d'alcun dolce asperso.
Ben mille volte ripetuto e mille
V. 17-54 CONSALVO 209
Nel costante pensier, sostoguo e cibo
Esser solea dell'infelice amante:
Benché nulla d'amor parola udita
Avess'ella da lui. Sempre in quell'alma
Era del gran desio stato più forte
Un sovrano timor. Così l'avea
Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.
Ma ruppe alfìn la morte il nodo antico
AUa sua lingua. Poiché certi i segni
Sentendo di quel dì che l'uom discioglie,
Lei, già mossa a partir, presa per mano,
E quella man bianchissima stringendo,
Disse: tu parti, e l'ora omai ti sforza:
Elvira, addio. Xon ti vedrò, ch'io creda.
Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rendo
Qual maggior grazia mai delle tue cure
Dar possa il labbro mio. Premio daratti
Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.
Impallidia la bella, e il petto anelo
Udendo le si fea: che sempre stringe
All'uomo il cor dogliosamente, ancora
Ch'estranio sia, chi si diparte, e dice
Addio per sempre. E contraddir voleva,
Dissimulando l'appressar del fato.
Al moribondo. Ma il suo dir prevenne
Quegli, e soggiunse: desiata, e molto.
Come sai, ripregata a me discende,
Non temuta, la morte; e lieto appanni
Questo feral mio dì. Pesami, é vero.
Che te perdo per sempre. Oimé per sempre
Parto da te. Mi si divide il core
In questo dir. Più non vedrò quegli occhi.
Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
Non vorrai tu donarmi! un bacio solo
In tutto il viver mio *? Grazia ch'ei chiegga
Non si nega a chi muor. Né già vantarmi
Potrò del dono, io semispento, a cui
14. — G. Leopardi.
210 CANTI V. 55-92
Straniera man le labbra oggi fra poco
Eternamente cliiuderà. Ciò detto
Con un sospiro, all'adorata destra
Le fredde labbra supplicando affisse.
Stette sospesa e pensierosa in atto
La bellissima donna; e fiso il guardo,
Di mille vezzi sfavillante, in quello
Tenea dell'infelice, ove l'estrema
Lacrima rilucea. Né dielle il core
Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio
Rinacerbir col niego; anzi la vinse
Misericordia dei ben noti ardori.
E quel volto celeste, e quella bocca,
Già tanto desiata, e per molt'anni
Argomento di sogno e di sospiro.
Dolcemente appressando al volto afflitto
E scolorato dal mortale affanno,
Più baci e più, tutta benigna e in vista
D'alta pietà, su le convulse labbra
Del trepido, rapito amante impresse.
Che divenisti allor ì quali apparirò
Vita, morte, sventura agli occhi tuoi.
Fuggitivo Consalvo ? Egli la mano,
Ch' ancor tenea, della diletta Elvira
Postasi al cor, che gli ultimi battea
Palpiti della morte e dell'amore.
Oh, disse, Elvira, Elvira miai ben sono
In su la terra ancor; ben quelle labbra
Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!
Ahi vision d'estinto, o sogno, o cosa
Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,
Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
Non ti fu l'amor mio per alcun tempo;
Non a te, non altrui; che non si cela
Vero amore alla terra. Assai palese
Agli atti,, al volto sbigottito, agli occhi,
Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre
Muto sarebbe l'infinito affetto
V. 93-129 CONSALVO 211
Che governa il cor mio, se non l'avesse
Fatto ardito il morir. Morrò contento
Del mio destino ornai, né più mi dolgo
Ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno,
Poscia che quella bocca alla mia bocca
Premer fu dato. Anzi felice estimo
La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
Amore e morte. All'una il ciel mi guida
In sul fior dell'età; nell'altro, assai
Fortunato mi tengo. Ah, se una volta,
Solo una volta il lungo amor quieto
E pago avessi tu, fora la terra
Fatta quindi per sempre un paradiso
Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,
L'abbonita vecchiezza, avrei soiìerto
Con riposato cor: che a sostentarla
Bastato sempre il rimembrar sarebbe
D'un solo istante, e il dir: felice io fui
Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto
Esser beato non consente il cielo
A natura terrena. Amar tant' oltre
Non è dato con gioia. E ben per patto
In poter del carnefice ai flagelli.
Alle ruote, alle faci ito volando
Sarei dalle tue braccia; e ben disceso
Nel paventato sempiterno scempio.
0 Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra
Gl'immortali beato, a cui tu schiuda
Il sorriso d'amori felice appresso
Chi per te sparga con la vita il sangue!
Lice, lice al mortai, non è già sogno
Come stimai gran tempo, ahi lice in terra
Provar felicità. Ciò sepi3Ì il giorno
Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte
Questo m'accadde. E non però quel giorno
Con certo cor giammai, fra tante ambasce.
Quel fiero giorno biasimar sostenni.
212 CANTI V. 130-151; 1-11
Or tu vivi beata, e il mondo abbella,
Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno
Non l'amerà quant'io l'amai. Non nasce
Un altrettale amor. Quanto, deh quanto
Dal misero Consalvo in sì gran tempo
Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!
Come al nome d'Elvira, in cor gelando,
Impallidir; come tremar son uso
All'amaro calcar della tua soglia,
A quella voce angelica, all'aspetto
Di quella fronte, io ch'ai morir non tremo!
Ma la lena e la vita or vengon meno
Agli accenti d'amor. Passato è il tempo,
Né questo dì rimemorar m'è dato.
Elvira, addio. Con la vital favilla
La tua diletta immagine si parte
Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
Non ti fu quest'affetto, al mio feretro
Dimani all'annottar manda un sospiro.
Tacque: né molto andò, che a lui col suono
Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo
Suo dì felice gli f uggia dal guardo.
XVIII.
ALLA SUA DONNA.
Cara beltà che amore
Lungo m'inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
0 ne' campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l'innocente
Secol beasti che dall'oro ha nomo.
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorto avara
Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?
V. 12-49 ALLA SUA DONNA 213
Viva mirarti ornai
Nulla spene m'avanza;
S'allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
10 mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai, men bella.
Fra cotanto dolore
Quanto all'umana età propose il fato.
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg'io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni
L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
11 ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortai vita saria
Siniile a quella che nel cielo india.
Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m'abbandona;
E per li poggi, ov'io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de' giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess'io,
Xel secol tetro e in questo aer nefando.
L'alta specie serbar; che dell'imago.
Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.
Se dell'eterne idee
L'una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l'eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
214 CANTI V. 50-55; 1-27
0 scaltra terra ne' superni giri
Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
E pili vaga del Sol prossima steUa
T'irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d'ignoto amante inno ricevi.
XIX.
AL CONTE CARLO PEPOLL
Questo affannoso e travagliato sonno
Che noi vita nomiam, come sopporti,
Pèpoli mio ? di che speranze il core
Vai sostentando ? in che pensieri, in quanto
0 gioconde o moleste opre dispensi
L'ozio che ti lasciar gli avi remoti.
Grave retaggio e faticoso ? È tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita.
Se queir oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all'intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. La schiera industre
Cui franger glebe o curar piante e greggi
Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,
Se oziosa dirai, da che sua vita
È per campar la vita, e per se sola
La vita all'uom non ha pregio nessuno.
Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni
Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne
Sudar nelle officine, ozio le vegghie
Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;
E il mercatante avaro in ozio vive:
Che non a sé, n.on ad altrui, la bella
Felicità, cui solo agogua e cerca
La natura mortai, veruno acquista
Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
Pur all'aspro desire onde i mortali
V. 28-65 AL PEPOLI 215
Già sempre iufin dal dì che il mondo nacque
D'esser beati sospirar© indarno,
Di medicina in loco apparecchiate
Nella vita infelice avea natura
Necessità diverse, a evi non senza
Opra e pensier si provvedesse, e pieno.
Poi che lieto non può, corresse il giorno
All'umana famiglia; onde agitato
■ E confuso il desio, men loco avesse
Al travagliarne il cor. Così de' bruti
La progenie infinita, a cui pur solo,
Ne men vano che a noi, vive nel petto
Desio d'esser beati; a quello intenta
Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
Condur si scopre e men gravoso il tempo.
Né la lentezza accagionar dell'ore.
Ma noi, che il viver nostro air altrui mano
Provveder commettiamo, una più grave
Necessità, cui provveder non puote
Altri che noi, già senza tedio e pena
Non adempiami necessitate, io dico,
Di consumar la vita: improba, invitta
Necessità, cui non tesoro accolto,
Non di greggi dovizia, o pingui campi,
Non aula puote e non purpureo manto
Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno
I vóti armi prendendo, e la- superna
Luce odiando, l'omicida mano,
I tardi fati a prevenir condotto,
In se stesso non torce; al duro morso
Della brama insanabile che invano
Felicità richiede, esso da tutti
Lati cercando, mille inefficaci
Medicine procaccia, onde queir una
Cui natura apprestò, mal si compensa.
Lui delle vesti e delle chiome il culto
E degli atti e dei passi, .e i vani studi
Di cocchi e di cavaUi, e le frequenti
21G CANTI V. 66-103
Sale, e le piazze romorose, e gli orti,
Lui giochi e cene e invidiate danze
Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,
Xell'imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantina, siede
Xoia immortale, incontro a cui non puote
Vigor di giovanezza, e non la crolla
Dolce parola di rosato labbro,
E non lo sguardo tenero, tremante,
Di due nere pupille, il caro sguardo,
La pili degna del ciel cosa mortale.
Altri, quasi a fuggir vòlto la trista
Umana sorte, in cangiar terre e climi
L'età spendendo, e mari e poggi errando,
Tutto l'orbe trascorre, ogni confine
Degli spazi che all'uom negl'infiniti
Campi del tutto la natura aperse.
Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside
Su l'alte prue la negra cura, e sotto
Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
Felicità, vive tristezza e regna.
Havvi chi le crudeli opre di marte
Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno
Sangue la man tinge per ozio; ed havvi
Chi d'altrui danni si conforta, e pensa
Con far misero altrui far se men tristo,
Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
E chi virtute o sapienza ed arti
Perseguitando; e chi la propria gente
Conculcando e l' estrane, o di remoti
Lidi turbando la quiete antica
Col mercatar, con l'armi, e con le frodi,
La destinata sua vita consuma.
Te piti mite desio, cura più dolce
Regge nel fior di gioventìi, nel bollo
Aprii degli anni, altrui giocondo e primo
Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto
V. 104-141 AL PEPOLI 217
A chi patria non ha. Te punge e move
Studio de' carmi e di ritrar parlando
Il bel che raro e scarso e fuggitivo
Appar nel mondo, e quel che, più benigna
Di natura e del ciel, fecondamente
A noi la vaga fantasia produce,
E il nostro proprio error. Ben mille volte
Fortunato colui che la caduca
Virtù del caro immaginar non perde
Per volger d'anni; a cui serbare eterna
La gioventù del cor diedero i fati;
Che nella ferma e nella stanca et ade,
Così come solea nell'età verde,
In suo chiuso pensier natura abbella,
Morte, deserto avviva. A te conceda
Tanta ventura il ciel ; ti faccia un tempo
La favilla che il petto oggi ti scalda,
Di poesia canuto amante. Io tutti
Della prima stagione i dolci inganni
Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
Le dilettose immagini, che tanto
Amai, che sempre infìno all'ora estrema
Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
Or quando al tutto irrigidito e freddo
Questo petto sarà, né degli aprichi
Campi il sereno e solitario riso,
Xè degli augelli mattutini il canto
Di primavera, né per colli e piagge
Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia
Ogni beltate o di natura o d'arte,
Fatta inanime e muta; ogni alto senso,
Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
Del mio solo conforto allor mendico.
Altri studi men dolci, in ch'io riponga
L'ingrato avanzo della ferrea vita.
Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali
218 CANTI V. 142-158 1-16
E delFeterne cose; a che prodotta,
A che d'affanni e di miserie carca
L'umana stirpe; a quale ultimo intento
Lei spinga il fato e la natura; a cui
Tanto nostro dolor diletti o giovi:
Con quali ordini e leggi a che si volva
Questo arcano universo; il qual di lode
Colmano i saggi, io d'ammirar son pago.
In questo specolar gli ozi traendo
Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,
Ha suoi diletti il vero. E se del vero
Ragionando talor, fieno alle genti
0 mal grati i miei detti o non intesi,
Non mi dorrò, che già del tutto il vago
Desio di gloria antico in me fìa spento:
Vana Diva non pur, ma di fortuna
E del fato e d'amor, Diva più cieca.
XX.
IL RISORGIMENTO.
Credei ch'ai tutto fossero
In me, sul fior degli anni,
Mancati i dolci affanni
Della mia prima età:
I dolci affanni, i teneri
Moti del cor profondo,
Qualunque cosa al mondo
Grato il sentir ci fa.
Quante querele e lacrime
Sparsi nel novo stato,
Quando al mio cor gelato
Prima il dolor mancò!
Mancar gli usati palpiti.
L'amor mi venne meno,
E irrigidito il seno
Di sospirar cessò !
V. 17-52 IL RISORGIMENTO 219
Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la vita;
La terra inaridita,
Chiusa in eterno gel;
Deserto il dì; la tacita
Notte pili sola e bruna;
Spenta per me la luna,
Spente le stelle in ciel.
Pur di quel pianto origine
Era l'antico affetto:
Nell'intimo del petto
Ancor viveva il cor.
Chiedea l'usate immagini
La stanca fantasia;
E la tristezza mia
Era dolore ancor.
Fra poco in me quell'ultimo
Dolore anco fu spento,
E di piti far lamento
Valor non mi restò.
Giacqui: insensato, attonito,
Non dimandai conforto:
Quasi perduto e morto,
Il cor s'abbandonò.
Qual fui! quanto dissimile
Da quel che tanto ardore.
Che sì beato errore
Nutrii nell'alma un dì!
La rondinella vigile.
Alle finestre intorno
Cantando al novo giorno,
Il cor non mi ferì:
Non all'autunno pallido
In solitaria villa.
La vespertina squilla,
Il fuggitivo Sol.
220 CANTI V. 53-88
Invai! brillare il vespero
Vidi per muto calle,
Invali sonò la valle
Del flebile usignol.
E voi, pupille tenere,
Sguardi furtivi, erranti,
Voi de' gentili amanti
Primo, immortale amor,
Ed alla mano offertami
Candida ignuda mano.
Foste voi pure invano
Al duro mio sopor.
D'ogni dolcezza vedovo,
Tristo; ma non turbato,
Ma placido il mio stato.
Il volto era seren.
Desiderato il termine
Avrei del viver mio;
Ma spento era il desio
Nello spossato sen.
Qual dell'età decrepita
L'avanzo ignudo e vile,
10 conducea l'aprile
Degli anni miei così:
Così quegl' ineffabili
Giorni, o mio cor, traevi.
Che sì fugaci e brevi
11 cielo a noi sortì.
Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi ridesta?
Che virtù nova è questa,
-Questa che sento in me?
Moti soavi, immagini,
Palpiti, error beato.
Per sempre a voi negato
Questo mio cor non è?
V. 89-124
IL RISORGIMENTO 221
Siete pur voi quell'unica
Luce de' giorni miei?
Gli affetti ch'io perdei
Nella novella età?
Se al ciel, s'ai verdi margini,
Ovunque il guardo mira,
Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.
Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte;
Parla al mio core il fonte.
Meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
Dopo cotanto obblio !
E come al guardo mio
Cangiato il mondo appar ']
Forse la speme, o povero
Mio cor, ti volse un riso ']
Ahi della speme il viso
10 non vedrò mai più.
Proprii mi diede i palpiti
Natura, e i dolci inganni.
Sopirò in me gli affanni
L'ingenita virtù;
Non l'annullar: non vinsela
11 fato e la sventura;
Non con la vista impura
L'infausta verità.
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch'ella discorda:
So che natura è sorda.
Che miserar non sa.
Che non del ben sollecita
Fu, ma dell'esser solo: ^
Purché ci serbi al duolo,
Or d'altro a lei non cai.
222 CANTI V. 125-160
So che pietà fra gli uomini
Il misero non trova;
Che lui, fuggendo, a prova
Schernisce ogni mortai.
Che ignora il tristo secolo
Gl'ingegni e le virtudi;
Che manca ai degni studi
L'ignuda gloria ancor.
E voi, pupille tremule,
Voi, raggio sovrumano,
So che splendete invano.
Che in voi non brilla amor.
Nessuno ignoto ed intimo
Affetto in voi non brilla:
Non chiude una favilla
Quel bianco petto in sé.
Anzi d'altrui le tenere
Cure suol porre in gioco;
E d'un celeste foco
Disprezzo è la mercè.
Pur sento in me rivivere
Gl'inganni aperti e noti;
E de' suoi proprii moti
Si maraviglia il sen.
Pa te, mio cor, quest'ultimo
Spirto, e r arder natio,
Ogni conforto mio
Solo da te mi vien.
Mancano, il sento, all'anima
Alta, gentile e pura.
La sorte, la natura,
Il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
Se non concedi al fato,
Non chiamerò spietato
Chi lo spirar mi dà.
1-33 A SILVIA 223
XXI.
A SILVIA.
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi ?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che air opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte.
Din su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortai non dice
Quel ch'io sentiva in éeno.
Che pensieri soavi.
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale aUor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme.
Un affetto mi preme
224 CANTI V. 34-63; 1-4
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
0 natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor ? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta.
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Né teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore.
Anche perla fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negare i fati
La giovanezza. Ahi come.
Come passata sei.
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo ? questi
1 diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte delle umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
XXII.
LE RICORDANZE.
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,^
E ragionar con voi dalle finestre
5-42 LE RICORDANZE 225
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi. la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre de' servi. E che pensieri immensi.
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri.
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fìngendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
Xè mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vii; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge.
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perchè tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de' malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
15. — G. Leopardi.
226 CANTI V. 43-80
Per la greggia ch"lio appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
. Che la fama e l'allòr, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
0 dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell'ora
-Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, vòlta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura.
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombare i sollazzi e le festoso
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
0 speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando.
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
81-118 LE RICORDANZE 22'
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio ; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vóti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortai, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E si dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'ai tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi ; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatai tempererà d'affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio.
Morte chiamai piii volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
De' miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
AUa fioca lucerna poetando.
Lamentai co' silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
228 CANTI V. 119-156
Cki rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortai primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maravigliai) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gii errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni I a somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta ?
0 Nerinal e di te forse non odo
Questi luoghi parlar ì caduta forse
Dal mio pensier sei tu ì Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia ? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
' Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, eh' a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
11 passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato.
V. 157-173; 1-14 le ricordanze 229
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi.
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
XXIII.
CANTO NOTTUENO
DI UN PASTORE ERRANTE DELL' ASIA. *
Che fai tu, luna, in ciel'? dimmi, che fai,
Silenziosa luna!
Sorgi la sera, e vai.
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore,
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
230 CANTI V. 15-52
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale ?
Vecchierel bianco, infermo.
Mezzo vestito e scalzo.
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela.
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e piìi e più s'affretta.
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale -
È la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene.
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole.
V. 53-90 CANTO NOTTURNO 231
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga!
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
È lo stato mortale.
Ma tu mortai non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir daUa terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, deUa sera.
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano.
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante f acelle ?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa ? ed io che sono ì
Così meco ragiono: e della stanza
232 CANTI V. 91-128
Smisurata e superba,
E dell' innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa.
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo.
Giovinetta immortai, conopei il tutto.
Questo io conosco e sento.
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
0 greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto !
Non sol perchè d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno.
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe.
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Si che, sedendo, più che mai son lungo
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
0 greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
V. 129-143; 1-1" CANTO NOTTURNO 233
Dimmi: perchè giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale t ^^
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
0 come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia.
Più felice sarei, candida luna.
0 forse erra dal vero.
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
XXIV.
LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA.
Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio.
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
Yien fuor la femminetta a cor dell'acqua
Della novella piova;
E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
234 CANTI V. 18-54
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazze e logge la famiglia:
E, daUa via corrente, odi lontano
Tintinnìo di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo a' suoi studi intende ?
0 torna all'opre? o cosa nova- imprendo'?
Quando de' mali suoi men si ricorda ì
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, eh' è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte.
Sudar le genti e palpitar, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.
0 natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
È diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor; beata
Se te d'ogni dolor morto risana.
1-33 IL SABATO DEL VILLAGGIO
23Ì
XXV.
IL SABATO DEL VILLAGGIO.
La donzelletta vien dalla campagna,
In sili calar del sole,
Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la veccMerella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo.
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e sneUa
Solea danzar la sera intra di quei
Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
Giù da' colli e da' tetti,
Al biancbeggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede aUa sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al di del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l'altro tace.
Odi il martel picchiare, odi la sega
236 CANTI V. 34-51; 1-14
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s' affretta, e s'adopra
Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Eecheran l'ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
È come un giorno d'allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo' ; ma la tua festa
Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
XXVI.
IL PENSIERO DOMINANTE.
Dolcissimo, possente
Dominator di mia profonda mente;
Terribile, ma caro
Dono del ciel; consorte
Ai liigubri miei giorni,
Pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Di tua natura arcana
Chi non favella? il suo poter fra noi
Chi non sentì ? Pur sempre
Che in dir gli effetti suoi
Le umane lingue il sentir proprio sprona.
Par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.
Come solinga è fatta
La mente mia d'allora
15-52 IL PEIJSIERO DOMINANTE 237
Che tu quivi prendesti a far dimora!
Ratto d'intorno intorno al par del lampo
Gli altri pensieri miei
Tutti si dileguar. Siccome torre
In solitario campo,
Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.
Che divenute son, fuor di te solo,
Tutte l'opre terrene,
Tutta intera la vita al guardo mio !
Che intoUerabil noia
Gli ozi, i commerci usati,
E di vano piacer la vana spene,
Allato a quella gioia.
Gioia celeste che da te mi viene !
Come da' nudi sassi
Dello scabro Apennino
A un campo verde che lontan sorrida
Volge gii occhi bramoso il pellegrino;
Tal io dal secco ed aspro
Mondano conversar vogliosamente,
Quasi in lieto giardino, a te ritorno,
E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.
Quasi incredibil parmi
Che la vita infelice e il mondo sciocco
Già per gran tempo assai
Senza te sopportai;
Quasi intender non posso
Come d'altri desiri,
Fuor eh' a te somiglianti, altri sospiri.
Giammai d'allor che in pria
Questa vita che sia per prova intesi,
Timor di morte non mi strinse il petto.
Oggi mi pare un gioco
Quella che il mondo inetto,
Talor lodando, ognora abborre e trema,
Necessitade estrema;
E se periglio appar, con un sorriso
Le sue minacce a contemplar m'affiso.
238 CANTI V. 53-90
Sempre i codardi, e Talme
Ingenerose, abbiette
Ebbi in dispregio. Or pungo ogni atto indegno
Subito i sensi miei;
Move l'alma ogni esempio
Dell'umana viltà subito a sdegno.
Di questa età superba,
Che di vote speranze si nutrica,
Vaga di ciance, e di virtù nemica;
Stolta, che l'util chiede,
E inutile la vita
Quindi più sempre divenir non vede;
Maggior mi sento, A scherno
Ho gli umani giudizi; e il vario volgo
A' bei pensieri infesto,
E degno tuo disprezzator, calpesto,
A quello onde tu movi,
Quale affetto non cede^
Anzi qual altro affetto
Se non quell'uno intra i mortali ha sede!
Avarizia, superbia, odio, disdegno,
Studio d'onor, di regno,
Che sono altro che voglie
Al paragon di lui? Solo un affetto
Vive tra noi: quest'uno.
Prepotente signore,
Dieder l'eterne leggi all'uman core.
Pregio non ha, non ha ragion la vita
Se non per lui, per lui eh' all'uomo è tutto;
Sola discolpa al fato.
Che noi mortali in terra
Pose a tanto patir senz'altro frutto;
Solo por cui talvolta,
Non alla gente stolta, al cor non vile
La vita della morte è più gentile.
Per cor le gioie tue, dolce pensiero,
Provar gli umani affanni,
E sostener molt'anni
V. 91-123 IL PENSIERO DOMINANTE 239
Questa vita mortai, fu non indeguo;
Ed ancor tornerei,
Così qual son de' nostri mali esperto,
Verso un tal segno a incominciare il corso:
Che tra le sabbie e tra il vipereo morso,
Giammai fìnor si stanco
Per lo mortai deserto
Non venni a te, che queste nostre pene
Vincer non mi paresse un tanto bene.
Che mondo mai, che nova
Immensità, che paradiso è quello
Là dove spesso il tuo stupendo incanto
Farmi innalzar! dov'io,
Sott'altra luce che l'usata errando,
Il mio terreno stato
E tutto quanto il ver pongo in obblio !
Tali son, credo, i sogni
Degrimmortcìli. Ahi finalmente un sogno
In molta parte onde s'abbella il vero
Sei tu, dolce pensiero;
Sogno e palese error. Ma di natura,
Infra i leggiadri errori.
Divina sei; perchè sì viva e forte,
Che incontro al ver tenacemente dura,
E spesso al ver s'adegua.
Né si dilegua pria, che in grembo a morte.
E tu per certo, o mio pensier, tu solo
Vitale ai giorni miei,
Cagion diletta d'infiniti affanni,
Meco sarai per morte a un tempo spento:
Ch' a vivi segni dentro l'alma io sento
Che in perpetuo signor dato mi sei.
Altri gentili inganni
Soleami il vero aspetto
Più sempre infievolir. Quanto più torno
A riveder colei
Della qual teco ragionando io vivo.
Cresce quel gran diletto.
240 CANTI V. 129-147; 1-10
Cresce quel gran delirio, ond'io respiro.
Angelica beltadel
Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
Quasi una finta imago
Il tuo volto imitar. Tu sola fonte
D'ogni altra leggiadria.
Sola vera beltà parmi che sia.
Da che ti vidi pria,
Di qual mia seria cura ultimo obbietto
Non fosti tu? quanto del giorno è scorso.
Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei
La tua sovrana imago
Quante volte mancò ì Bella qual sogno.
Angelica sembianza.
Nella terrena stanza.
Nell'alte vie dell'universo intero.
Che chiedo io mai, che spero
Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
Altro più dolce aver che il tuo pensiero !
XXVII.
AMORE E MORTE.
°0v &l ^soi (pO.O'lC'.V, àTToàv'ncJXìi vé&c.
Muor giovane colui ch'ai elei è caro.
Menandro.
Fratelli, a un tempo stesso. Amore e Morte
Ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
Altre il mondo non ha, non han lo stelle.
Nasce dall'uno il bene,
Nasce il piacer maggiore
Che per lo mar dell'essere si trova;
L'altra ogni gran dolore.
Ogni gran male annulla.
Bellissima fanciulla,
V. 11-48 AMORE E MORTE 241
Dolce a veder, non quale
La si dipinge la codarda gente,
Gode il fanciullo Amore
Accompagnar sovente;
E sorvolano insiem la via mortale,
Primi conforti d'ogni saggio core.
Né cor fu mai più saggio
Che percosso d'amor, né mai più forte
Sprezzò l'infausta vita,
Né per altro signore
Come per questo a perigliar fu pronto:
Ch'ove tu porgi aita,
Amor, nasce il coraggio,
0 si ridesta; e sapiente in opre.
Non in pensiero invan, siccome suole,
Divien l'umana prole.
Quando novellamente
Nasce nel cor profondo
Un amoroso affetto,
Languido e stanco insiem con esso in petto
Un desiderio di morir si sente:
Come, non so: ma tale
D'amor vero e possente é il primo effetto.
Forse gli occhi spaura
Allor questo deserto: a sé la terra
Forse il mortale inabitabil fatta
Vede omai senza quella
Nova, sola, infinita
Felicità che il suo pensier figura:
Ma per cagion di lei grave procella
Presentendo in suo cor, brama quiete.
Brama raccorsi in porto
Dinanzi al fier disio,
Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.
Poi, quando tutto avvolge
La formidabil possa,
E fulmina nel cor l'invitta cura.
Quante volte implorata
16. — G. Leopardi.
242 CANTI V. 49-8^
Con desiderio intenso,
Morte, sei tu dall'affannoso amante!
Quante la sera, e quante
Abbandonando all'alba il corpo stanco.
Sé beato chiamò s'indi giammai
Non rilevasse il fianco,
Ne tornasse a veder l'amara luce!
E spesso al suon della funebre squilla,
Al canto che conduce
La gente morta al sempiterno obblio,
Con piti sospiri ardenti
Dall'imo petto invidiò colui
Che tra gli spenti ad abitar sen giva.
Fin la negletta plebe,
L'uom della villa, ignaro
D'ogni virtù che da saper deriva,
Fin la donzella timidetta e schiva.
Che già di morte al nome
Sentì rizzar le chiome,
Osa alla tomba, alle funeree bende
Fermar lo sguardo di costanza pieno.
Osa ferro e veleno
Meditar lungamente,
E nell'indotta mente
La gentilezza del morir comprende.
Tanto alla morte inclina
D'amor, la disciplina. Anco sovente,
A tal venuto il gran travaglio interno
Che sostener noi può forza mortale,
0 cede il corpo frale
Ai terribili moti, e in questa forma
Pel fraterno poter Morte prevale;
0 così sprona Amor là nel profondo,
Che da se stessi il villanello ignaro,
La tenera donzella
Con la man violenta
Pongon le membra giovanili in terra.
Ride ai lor ca.si il mondo,
A cui paco e vecchiezza il ciel consenta.
124 AMORE E MORTE 243
Ai fervidi, ai felici,
Agli animosi ingegni
L'uno o l'altro di voi conceda il fato,
Dolci signori, amici
AU' umana famiglia.
Al cui poter nessun poter somiglia
Nell'immenso universo, e non l'avanza,
Se non quella del fato, altra possanza.
E tu, cui già dal cominciar degli anni
Sempre onorata invoco,
Bella Morte, pietosa
Tu sola al mondo dei terreni affanni,
Se celebrata mai
Fosti da me, s'al tuo divino stato
L'onte del volgo ingrato
Ricompensar tentai.
Non tardar più, t'inchina
A disusati preghi.
Chiudi alla luce omai
Questi occhi tristi, o dell'età reina.
Me certo troverai, qua! si sia l'ora
Che tu le penne al mio pregar dispieghi.
Erta la fronte, armato,
E renitente al fato.
La man che flagellando si colora
Nel mio sangue innocente
Non ricolmar di lode.
Non benedir, com'usa
Per antica viltà l'umana gente;
Ogni vana speranza onde consola
Sé coi fanciulli il mondo.
Ogni conforto stolto
Gittar da me; nuli' altro in alcun tempo
Sperar, se non te sola;
Solo aspettar sereno
Quel di ch'io pieghi addormentato il volto
Nel tuo virgineo seno.
244 CANTI V. 1-16; 1-12
XXVIII. '
A SE STESSO.
Or poserai per sempre.
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch' eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non vai cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il lato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.
XXIX.
ASPASIA.
Torna dinanzi al mio pensier talora
Il tuo sembiante, Aspasia. 0 fuggitivo
Per abitati lochi a me lampeggia
In altri volti; o per deserti campi,
Al dì sereno, alle tacenti stelle,
Da soave armonia quasi ridesta,
Nell'alma a sgomentarsi ancor vicina
Quella superba vision risorge.
Quanto adorata, o numi, e quale un giorno
Mia delizia ed erinni! E mai non sento
Mover profumo di fiorita piaggia,
Né di fiori olezzar vie cittadine.
V. 13-50 ASPASIA ^
Ch'io non ti vegga aucor qual eri il giorno
Che ne' vezzosi appartamenti accolta,
Tutti odorati de' novelli fiori
Di primavera, del color vestita
Della bruna viola, a me si offerse
L'angelica tua forma, inchino il fianco
Sovra nitide pelli, e circonfusa
D'arcana voluttà; quando tu, dotta
Allettatrice, fervidi, sonanti
Baci scoccavi nelle curve labbra
De' tuoi bambini, il niveo collo intanto
Porgendo, e lor di tue cagioni ignari
Con la man leggiadrissima stringevi
Al seno ascoso e desiato. Apparve
Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio
Divino al pensier mio. Così nel fianco
Non punto inerme a viva forza impresse
Il tuo braccio lo strai, che poscia fitto
Ululaudo portai finch'a quel giorno
Si fu due volte ricondotto il sole.
Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà. Simile effetto
Fan la bellezza e i musicali accordi,
Ch'alto mistero d'ignorati Elisi
Paion sovente rivelar. Vagheggia
Il piagato mortai quindi la figlia
Della sua mente, l'amorosa idea.
Che gran parte d'Olimpo in sé racchiude.
Tutta al volto, ai costumi, alla favella,
Pari alla donna che il rapito amante
Vagheggiare ed amar confuso estima.
Or questa egli non già, ma quella, ancora
Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
Alfin l'errore e gli scambiati oggetti
Conoscendo, s'adira; e spesso incolpa
La donna a torto. A quella eccelsa imago
Sorge di rado il femminile ingegno;
E ciò che inspira ai generosi amanti
240 CANTI V. 51-88
La sua stessa beltà, donna non pensa,
Né comprender potria. Xon capo in quelle
Anguste fronti ugual concetto. E male
Al vivo sfolgorar di quegli sguardi
Spera l'uomo ingannato, e mal richiede
Scn?i profondi, sconosciuti, e molto
Pili che virili, in chi delFuomo al tutto
Da natura è minor. Che se più molli
E più tenui le membra, essa la mente
Men capace e men forte anco riceve.
Né tu fin or giammai quel che tu stessa
Inspirasti alcun tempo al mio pensiero,
Potesti, Asi)asia, immaginar. Non sai
Che smisurato amor, che affanni intensi,
Che indicibili moti e che deliri
Movesti in me; né verrà tempo alcuno
Che tu l'intenda. In simil guisa ignora
Esecutor di musici concenti
Quel ch'ei con mano e con la voce adopra
In chi l'ascolta. Or quell'Aspasia é morta
Che tanto amai. Giace -per sempre, oggetto
Della mia vita un dì: se non se quanto,
Pur come cara larva, ad ora ad ora
Tornar costuma e disparir. Tu vivi,
BeUa non solo ancor, ma bella tanto,
Al parer mio, che tutte l'altre avanzi.
Pur quell'ardor che da te nacque è spento:
Perch'io te non amai, ma quella Diva
Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.
Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque
Sua celeste beltà, ch'io, per insino
Già dal princiiHO conoscente e chiaro
Dell'esser tuo, dell'arti e delle frodi.
Pur ne' tuoi contemplando i suoi begli occhi,
Cupido ti seguii finch'ella visse,
Ingannato non già, ma dal piacere
Di quella dolce somiglianza un lungo
Servaggio ed aspro a tollerar condotto.
V. 89-112; 1-7 ASPASIA 247
Or ti vanta, clie il puoi. Xarra che sola
Sei del tuo sesso a cui piegar sostenni
L'altero capo, a cui spontaneo porsi
L'indomito mio cor. Xarra che x^rima,
E spero ultima certo, il ciglio mio
Supplichevol vedesti, a te dinanzi
Me timido, tremante (ardo in ridirlo
Di sdegno e di rossor), me di me privo.
Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto
Spiar sommessamente, a' tuoi superbi
Fastidi impallidir, brillare in volto
Ad un segno cortese, ad ogni sguardo
Mutar forma e color. Cadde l'incanto,
E spezzato con esso, a terra sparso
Il giogo: onde m'allegro. E sebben pieni
Di tedio, alfìn dopo il servire e dopo
Un lungo vaneggiar, contento abbraccio
Senno con libertà. Che se d'affetti
Orba la vita, e di gentili errori,
È notte senza stelle a mezzo il verno,
Già del fato mortale a me bastante
E conforto e vendetta è che su l'erba
Qui neghittoso immobile giacendo.
Il mar la terra e il ciel miro e sorrido,
XXX.
SOPRA UX BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE,
DOVE UNA GIOVANE MORTA
È RAPPRESENTATA IN ATTO DI PARTIRE,
ACCOMIATANDOSI DAI SUOI.
Dove vai ? chi ti chiama
Lunge dai cari tuoi,
Bellissima donzella?
Sola, peregrinando, il patrio tetto
Sì per tempo abbandoni ì a queste soglie
Tornerai tu? farai tu lieti nn giorno
Questi ch'oggi ti son piangendo intorno ?
248 CANTI V. 8-45
Asciutto il ciglio ed animosa iu atto,
Ma pur mesta sei tu. Grata la via
0 dispiacevol sia, tristo il ricetto
A cui movi o giocondo.
Da quel tuo grave aspetto
Mal s'indovina. Ahi ahi, né già potria
Fermare io stesso in me, né forse al mondo
S'intese ancor, se in disfavore al cielo
Se cara esser nomata.
Se misera tu debbi o fortunata.
Morte ti chiama; al cominciar del giorno
L'ultimo istante. Al nido onde ti parti.
Non tornerai. L'aspetto
De' tuoi dolci parenti
Lasci per sempre. Il loco
A cui movi, è sotterra:
Ivi fìa d'ogni tempo il tuo soggiorno.
Forse beata sei; ma pur chi mira,
Seco pensando, al tuo destin, sospira.
Mai non veder la luce
Era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo
Che reina bellezza si dispiega
Nelle membra e nel volto.
Ed incomincia il mondo
Verso lei di lontano ad atterrarsi;
In sul fiorir d'ogni speranza, e molto
Prima che incontro alla festosa fronte
I lùgubri suoi lampi il ver baleni;
Come vapore in nuvoletta accolto
Sotto forme fugaci all'orizzonte.
Dileguarsi così quasi non sorta,
E cangiar' con gli oscuri
Silenzi della tomba i dì futuri,
Questo se all'intelletto
Appar felice, invade
D'alta pietade ai più costanti il petto.
Madre temuta e pianta
Dal nascer già dell'animai famiglia,
V. 46-83 SOPRA UN BASSORILIEVO SEPOLCRALE 249
Natura, illaudabil maraviglia.
Che per uccider partorisci e nutrì,
Se danno è del mortale
Immaturo perir, come il consenti
In quei capi innocenti ì
Se ben, perchè funesta,
Perchè sovra ogni male,
A chi si parte, a chi rimane in vita,
Inconsolabil fai tal dipartita?
Misera ovunque miri.
Misera onde si volga, ove ricorra,
Questa sensibil prole!
Piacqueti che delusa
Fosse ancor dalla vita
La speme giovanil; piena d'affanni
L'onda degli anni; ai mali unico schermo
La morte; e questa inevitabil segno.
Questa, immutata legge
Ponesti all'uman corso. Ahi perchè dopo
Le travagliose strade, almen la meta
Non ci prescriver lieta? anzi colei
Che per certo futura
Portiam sempre, vivendo, innanzi all'alma.
Colei che i nostri danni
Ebber solo conforto.
Velar di neri panni.
Cinger d'ombra sì trista, >
E spaventoso in vista
Più d'ogni flutto dimostrarci il porto ì
Già se sventura è questo
Morir che tu destini
A tutti noi che senza colpa, ignari.
Né volontari al vivere abbandoni.
Certo ha chi more invidiabil sorte
A colui che la morte
Sente de' cari suoi. Che se nel vero,
Com'io per fermo estimo,
Il vivere è sventura.
250 CANTI V. 84-109; 1-5
Grazia il morir, chi però mai potrebbe,
Quel che pur si dovrebbe,
Desiar de' suoi cari il giorno estremo,
Per dover egli scemo
Rimaner di se stesso,
Veder d'in su la soglia levar via
La diletta persona
Con chi passato avrà molt'anni insieme,
E dire a quella addio senz' altra speme
Di riscontrarla ancora
Per la mondana via;
Poi solitario abbandonato in terra,
Guardando attorno, all'ore ai lochi usati
Eimemorar la scorsa compagnia ?
Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre
Di strappar dalle braccia
All'amico l'amico,
Al fratello il fratello,
La prole al genitore.
All'amante l'amore: e l'uno estinto,
L'altro in vita serbar? Come potesti
Far necessario in noi
Tanto dolor, che sopravviva amando
Al mortale il mortai ì Ma da natura
Altro negli atti suoi
Che nostro male o nostro ben si cura,
XXXI.
SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA
SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA MEDESIMA.
Tal fosti: or qui sotterra
Polve e scheletro sei. Su l'ossa e il fango
Immobilmente collocato invano,
Muto, mirando dell'etadi il volo,
Sta, di memoria solo
6-43 SOPRA IL RITRATTO d'uNA BELLA DONNA 251
E di dolor custode, il simulacro
DeUa scorsa beltà. Quel dolce sguardo,
Che tremar fé', se, come or sembra, immoto
In altrui s'affisò; quel labbro, ond'alto
Par, come d'urna piena,
Traboccare il piacer; quel collo, cinto
Già di desio; quell'amorosa mano,
Che spesso, ove fu pòrta,
Sentì gelida far la man che strinse;
E il seno, onde la gente
Visibilmente di pallor si tinse.
Furo alcun tempo: or fango
Ed ossa sei: la vista
Vituperosa e trista un sasso asconde.
Così riduce il fato
Qual sembianza fra noi parve più viva
Immagine del ciel. Misterio eterno
Dell'esser nostro. Oggi, d'eccelsi, immensi
Pensieri e sensi inenarrabil fonte.
Beltà grandeggia, e pare,
Quale splendor vibrato
Da natura imniortal su queste arene.
Di sovrumani fati,
Di fortunati regni e d'aurei mondi
Segno, e sicura spene
Dare al mortale stato:
Diman, per lieve forza,
Sozzo a vedere, abominoso, abbietto
Divien quel che fu dianzi
Quasi angelico aspetto,
E dalle menti insieme
Quel che da lui moveva
Ammirabil concetto, si dilegua.
Desideri! infiniti
E visioni altere
Crea nel vago pensiere.
Per naturai virtù, dotto concento;
Onde per mar delizioso, arcano
252 CANTI V. 44-56; 1-16
Erra lo spirto umano,
Quasi come a diporto
Ardito notator per l'oceano:
Ma se un discorde accento
Fere l'orecchio, in nulla
Torna quel paradiso in un momento.
Natura umana, or come,
Se frale in tutto e vile,
Se polve ed ombra sei, tant'alto senti?
Se in parte anco gentile,
Come i più degni tuoi moti e pensieri
Son così di leggeri
Da sì basse cagioni e désti e spentii
XXXII.
PALINODIA
AL MARCHESE GINO CAPPONI.
Il sempre sospirar nulla rileva.
Petrarca.
Errai, candido Gino; assai gran tempo,
E di gran lunga errai. IVIisera e vana
Stimai la vita, e sovra l'altre insulsa
La stagion ch'or si volge. Intolleranda
Parve, e fu, la mia lingua alla beata
Prole mortai, se dir si dee mortale
L'uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno,
Dall'Eden odorato in cui soggiorna,
Rise l'alta progenie, e me negletto
Disse, o mal venturoso, e di piaceri
0 incapace o inesperto, il proprio fato
Creder comune, e del mio mal consorte
L'umana specie. Alfin per entro il fumo
De' sigari onorato, al romorio
De' crepitanti pasticcini, al grido
Militar, di gelati e di bevande
V. 17-54 PALINODIA 253
Ordinato!, fra le percosse tazze
E i branditi cucchiai, viva rifulse
Agli occhi miei la giornaliera luce
Delle gazzette. Riconobbi e vidi
La pubblica letizia, e le dolcezze --
Del destino mortai. Vidi l'eccelso
Stato e il valor delle terrene cose,
E tutto fiori il corso umano, e vidi
Come nulla quaggiù dispiace e dura.
Né men conobbi ancor gli studi e l'opre
Stupende, e il senno, e le virtudi, e l'alto
Saver del secol mio. Né vidi meno
Da Marrocco al Catai, dall'Orse al Nilo,
E da Boston a Goa, correr dell'alma
Felicità su l'orme a gara ansando
Regni, imperi e ducati; e già tenerla
0 per le chiome fluttuanti, o certo
Per l'estremo del boa i^. Così vedendo,
E meditando sovra i larghi fogli
Profondamente, del mio grave, antico
Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.
Aureo secolo omai volgono, o Gino,
1 fusi deUe Parche. Ogni giornale,
Gener vario di lingue e di colonne,
Da tutti i lidi lo promette al mondo
Concordemente. Universale amore,
Ferrate vie, moltiplici commerci,
Vapor, tipi e eholèra i più divisi
Popoli e climi stringeranno insieme:
Né maraviglia fìa se pino o quercia
Suderà latte e mele, o s'anco al suono
D'un ivalser danzerà. Tanto la possa
Infin qui de' lambicchi e delle storte,
E le macchine al cielo emulatrici
Crebbero, e tanto cresceranno al teijipo
Che seguii'à; poiché di meglio in meglio
Senza fin vola e volerà mai sempre
Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.
254 CANTI V. 55-92
Ghiande non ciberà eerto la terra
Però, se fame non la sforza: il duro
Ferro non deporrà. Ben molte volte
Argento ed or disprezzerà, contenta
A pòlizze di cambio. E già dal caro
Sangue de' suoi non asterrà la mano
La generosa stirpe: anzi coverte
Fien di stragi l'Europa e l'altra riva
Dell" atlantico mar, fresca nutrice
Di pura civiltà, sempre clie spinga
Contrarie in campo le fraterne schiere
Di pepe o di cannella o d'altro aroma
Fatai cagione, o di melate canne,
0 cagion qual si sia eh' ad auro torni.
Valor vero e virtù, modestia e fede
E di giustizia amor, sempre in qualunque
Pubblico stato, alieni in tutto e lungi
. Da' comuni negozi, ovvero in tutto
Sfortunati saranno, afflitti e vinti;
Perchè die lor natura, in ogni tempo
Starsene in fondo. Ardir protervo e frode.
Con mediocrità, regneran sempre,
A galleggiar sortiti. Imperio e forze.
Quanto più vogli o cumulate o sparse.
Abuserà chiunque avralle, e sotto
Qualunque nome. Questa legge in pria
Scrisser natura e il fato in adamante;
E cg' fulmini suoi Volta né Davy
Lei non cancellerà, non Anglia tutta
Con le macchine sue, né con un Gange
Di politici scritti il secol novo.
Sempre il buono in tristezza, il vile in festa
Sempre e il ribaldo: incontro all'alme eccelse
In arme tutti congiurati i mondi
Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci
Calunnia, odio e livor: cibo de' forti
Il debole, cultor de' ricchi e servo
Il digiuno mendico, in ogni forma
V. 93-130 . PALINODIA 255
Di comiiu reggimeuto, o presso o lungi
Sieri l'eclittica o i poli, eternamente
Sarà, se al gener nostro il proprio albergo
E la face del dì non vengon meno.
Queste lievi reliquie e questi segni
Delle passate età, forza è che impressi
Porti quella che sorge età dell'oro:
Perchè mille discorsi e repugnanti
L'umana compagnia principii e parti
Ha per natura: e por quegli odii in pace
Non valser gl'intelletti e le possanze
DegK uomini giammai, dal dì che nacque
L'inclita schiatta, e non varrà, quantunque
Saggio sia né possente, al secol nostro
Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose
Più gravi, intera, e non veduta innanzi,
Pia la mortai felicità. Più molli
Di giorno in giorno diverran le vesti
0 di lana o di seta. I rozzi panni
Lasciando a prova agricoltori e fabbri.
Chiuderanno in coton la scabra pelle,
E di castoro copriran le schiene.
Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri
Certamente a veder, tappeti e coltri.
Seggiole, canapè, sgabelli e mense.
Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno
Di lor menstrua beltà gli appartamenti;
E nove forme di paiuoli, e nove
Pentole ammirerà l'arsa cucina.
Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
Da Londra a Liverpool, rapido tanto
Sarà, quant' altri immaginar non osa.
Il cammino, anzi il volo: e sotto l'ampie
Vie del Tamigi fìa dischiuso il varco.
Opra ardita, immortai, ch'esser dischiuso
Dovea, già son molt'anni. Illuminate
Meglio ch'or son, benché sicure al pari,
Nottetempo saran le vie men trite
256 CANTI Y. 131-168
Delle città sovrane, e talor forse
Di suddita città le vie maggiori.
Tali dolcezze e sì beata sorte
Alla prole vegnente il ciel destina.
Fortunati color che mentre io scrivo
Miagolanti in su le braccia accoglie
La levatrice! a cui veder s'aspetta
Quei sospirati di, quando per lunghi
Studi fìa noto, e imprenderà col latte
Dalla cara nutrice ogni fanciullo,
Quanto peso di sai, quanto di carni,
E quante moggia di farina inghiotta
Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti
In ciascun anno partoriti e morti
Scriva il vecchio prior: quando, per opra
Di possente vapore, a milioni
Impresse in un secondo, il piano e il poggio,
E credo anco del mar gl'immensi tratti.
Come d'aeree gru stuol che repente
Alle late campagne il giorno involi,
Copriran le gazzette, anima e vita
Dell'universo, e di savere a questa
Ed alle età venture unica fonte!
Quale un fanciullo, con assidua cura.
Di fogliolini e di fuscelli, in forma
0 di tempio o di torre o di palazzo,
Un edifìcio innalza; e come prima
Fornito il mira, ad atterrarlo è vòlto.
Perchè gli stessi a lui fuscelli e fogli
Per novo lavorio son di mestieri;
Così natura ogni opra sua, quantunque
D'alto artifìcio a contemplar, non prima
Vede perfetta, eh' a disfarla imprende.
Le parti sciolte dispensando altrove.
E indarno a preservar se stesso ed altro
Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
Eternamente, il mortai seme accorre
Mille virtudi oprando in mille guise
V. 169-207 PALINODIA
Con dotta man: che, d'ogni sforzo in onta,
La natura crudel, fanciullo invitto,
11 suo capriccio adempie, e ;*enza posa
Distruggendo e formando si trastulla.
Indi varia, infinita una famiglia
Di mali immedicabili e di pene
Preme il fragil mortale, a perir fatto
Irreparabilmente: indi una forza
Ostil, distruggitrice, e dentro il fere
E di fuor da ogni lato, assidua, intenta
Dal dì che nasce; e l'affatica e stanca.
Essa indefatigata; insin ch'ei giace
Alfin dall'empia madre oppresso e spento.
«Queste, o spirto gentil, miserie estreme
Dello stato mortai; vecchiezza e morte,
Ch'han principio d'allor che il labbro infante
Preme il tenero sen che vita instilla;
Emendar, mi cred'io, non può la lieta
Xonadecima età più che potesse
La decima o la nona, e non potranno
Più di questa giammai l'età future.
Però, se nominar lice talvolta
Con proprio nome il ver, non altro in somma
Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,
E non pur ne' civili ordini e modi,
Ma della vita in tutte l'altre parti.
Per essenza insanabile, e per legge '
Universal che terra e cielo abbraccia.
Ogni nato sarà. Ma novo e quasi
Divin consiglio ritrovar gli eccelsi
Spirti del secol mio: che, non potendo
Felice in terra far persona alcuna.
L'uomo obbliando, a ricercar si diero
Una comun felicitade; e quella
Trovata agevolmente, essi di molti
Tristi e miseri tutti, un popol fanno
Lieto e felice; e tal portento, ancora
Da pamplilets, da riviste e da gazzette
Non dichiarato, il civil gregge ammira.
17. — Ct. Leopardi.
258 CANTI V. 208-245
Oh menti, oh .senuo, oh sovriiinano acume
Delletà ch'or si volge! E che sicuro
Filosofar, che sapienza, o Gino,
In iHÙ sublimi ancora e piìi riposti
Subbietti insegna ai secoli futuri
Il mio secolo e tuoi Con che costanza
Quel che ieri schernì, prosteso adora
Oggi, e domani abbatterà, per girne
Raccozzando i rottami, e per riporlo
Tra il fumo deglincensi il dì vegnente!
Quanto estimar si dee, che fede inspira
Del secol che si volge, anzi dell'anno.
Il concorde sentir! con quanta cura
Convienci a quel dell" anno, al qual dilioiuie
Fia quel dell'altro appresso, il sentir nostro
Comparando, fuggir che mai d'un punto
Xon sien diversi! K di che tiatto innanzi.
.Se al moderno si opponga il tempo antico.
Filosofando il saper nostro è scorso !
Un già de' tuoi, lodato Gino; un franco
Di poetar maestro, anzi di tutte
Scienze ed arti e facoltadi umane,
E menti che fur mai, sono e saranno.
Dottore, emendator, lascia, mi disse,
1 propri aiietti tuoi. Di lor non cura
Questa virile età. volta ai "severi
Economici studi, e intenta il ciglio
Nelle pubbliche cose. Il proprio petto
Esplorar . che ti vai ? Materia al canto
Non cercar dentro te. Canta i bisogni
Del secol nostro, e la matura speme.
Memorande sentenze ! ondio solenni
Le risa alzai quando sonava il nome
Della speranza al mio profano orecchio
Quasi comica voce, o come un suono
Di lingua che dal latte si scompagni.
Or torno addietro, ed al passato un corso
Contrario imprendo, per non dubbi esem]>i
V. 24()-270 PALINODIA
Chiaro oggimai ch'ai seco! proprio vuoisi.
Non contraddir, uou repiignar, se lode
Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente
Adulando ubbidir: così per breve
Ed agiato cammin va.ssi alle stelle.
OmVio, degli astri desioso, al cauto
Del secolo i bisogni omai non penso
]\Iateria far; che a quelli, ognor crescendo.
Provveggono i mercati e le oihcine
Già largamente; ma la speme io certo
Dirò, la speme, onde visibil pegno
Già concedon gli Dei; già, della nova
Felicità principio, ostenta il labbro
De' giovani, e la guancia, enorme il pelo.
0 salve, o segno salutare, o prima
Luce della famosa età che sorge.
Mira dinanzi a te come s'allegra
La terra e il ciel. come sfavilla il guardo
Delle donzelle, e per conviti e feste
C^ual de' barbati eroi fama già vola.
Cresci, cresci alla patria, o mascliia certo
Moderna prole. All'ombra de" tuoi velli
Italia crescerà, crescerà tutta
Dalle foci del Tago all'Ellesponto
Europa, e il mondo poserà sicuro.
E tu comincia a salutar col riso
Gl'ispidi genitori, o prole infante.
Eletta agli aurei dì: né ti spaurì
L'innocuo nereggiar de' cari aspetti.
Ridi, 0 tenera prole: a te serbato
È di cotanto favellare il frutto;
Veder gioia regnar, cittadi e ville.
Vecchiezza e gioventìi del par contente,
E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.
200 CANTI V. l-r^
XXXIll.
IL TRAMONTO DELLA LUNA.
Quale ili notte soliuga.
Sovra campagne inargentate ed acque,
Là 've zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingou l'ombre lontane
Infra Tonde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confìn del cielo.
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell'infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l'ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L'estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gii fu duce,
Saluta n carrettier dalla sua via;
Tal si dilegua, e tale
Lascia l'età mortale
La giovinezza. In fuga
Van r ombre e le sembianze
Dei dilettosi inganni; e vengon meno
Le lontane speranze.
Ove s'appoggia la mortai natura.
Abbandonata, oscura
Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
('erca il confuso viatore invano
Del cammin lungo che avanzar si sente
Meta o ragione; è vede
Ch'a sé l'umana sede,
Esso a lei veramente è fatto estraiio.
V. ;>4 68 IL TRAMONTO DELLA LUNA
261
Troppo felice e lieta
Nostra misera sorte
Parve lassù, se il giovanile stato,
Dove ogni ben di mille pene è frutto,
Durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
Quel che sentenzia ogni animale a morte.
S'anco mezza la via
Lor non si desse in pria
Della terribil morte assai più dura.
D'intelletti immortali
Degno trovato, estremo
Di tutti i mali, ritrovar gli eterni
La vecchiezza, ove fosse
Incolume il desio, la speme estinta,
Secche le fonti del piacer, le pene
Maggiori sempre, e non più dato il bene.
Voi, collinette e piagge.
Caduto lo splendor che ali" occidente
Inargentava della notte il velo.
Orfane ancor gran tempo
Non resterete, che dall'altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger Talba;
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
• Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortai, poi che la bella
(riovinezza sparì, non si colora
D'altra luce giammai, né d'altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che r altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.
262 CANTI r. 1-27
XXXIV.
LA GIXESTKA.
O IL FIORE DEL DESERTO.
f, Tò (fùr.
E gli nomini vollero piuttosto le tenebre
che la luce.
Giovanni, hi. I'j.
Qui su rarida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual nuir altro allegra arbor nò fiore.
Tuoi cespi solitari intorno spargi.
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellir Terme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso ,covil torna il coniglio;
Fur liete ville e cólti,
E biondeggiar di spiche, e risonalo
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi.
28-65 LA GINE.STRA
Agli ozi de" potenti
Gradito ospizio; e fiir città famose,
Che coi torrenti suoi l'altero monte
D air ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve.
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
II nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell' uman seme.
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme.
Con lieve moto in un niomento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le ma<j nifi che sorti e progressive '^".
.^ui mira e qui ti specchia.
Secol superbo e sciocco.
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e vòlti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti
Di cui lor sorte rea padre ti fece
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Xon io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
E ben facil mi fora
264 CANTI V. (Hi- 103
Imitar gli altri, e vaneggiando in prova,
Farmi agli orecchi tuoi cantando accetto:
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Bench'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fìa comune, assai fìnor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Dalla barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
(ruida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci die. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fé' palese; e, fuggitivo, appelli
Vii chi lui segue, e solo
Magnammo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortai grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto.
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto
Quel che, nato a perir, nutrito in pene,
104-141 LA GINESTRA 265
Dice, a goder sou fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura* maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, ch'avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Ch'a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e. che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
QueUa che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, ne gli odii e Tire
Fraterne, ancor piti gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
È madre in parto ed in voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccom'è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomÌDÌ, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo.
Stolto crede così, qual fora in campo
;6f3 CANTI V. 142-170
Ciulo d'oste contraria, iu sul più vivo
Incalzar degli assalti,
(^lininiici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici.
K sparger fuga e fulminar col brando
Infra i j^roprii guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fìen, come fur, palesi al volgo.
1-^ (juellorror che primo
Centra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena.
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade altra radice
Avranno allor che non superbe fole.
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi.
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle.
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vóto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto.
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e «quando miro
Quegli ancor più senz' alcun fin remoti
Nodi (piasi di stelle.
180-217 LA GINESTRA 267
eh' a noi paiou qiial nebbia, a cui non Tuomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
0 sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo ? E rimembrando
11 tuo stato quaggiù, di cui fa segno
11 suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro'
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome.
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co' tuoi piacevolmente; e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; <[ual moto allora,
Mortai prole infelice, o*qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo.
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz' altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre,
E le ricchezze ch'adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo.
268 CANTI V. 218-255
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e mina, infusa
Di bollenti ruscelli,
0 pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena.
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su (quelle or pasre
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo pie quasi calijesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Ch'alia formica: e se piii rara in quello
Che nell" altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha mei) feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcar poi che sparirò, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il viUanello intento
Ai vigneti che a stento in questi campi -
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
.Sospettoso alla vetta
Fatai, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
11 meschino in sul tetto
DeLl'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
V. 256-293 LA GINESTRA 269
Del temuto boUor, che si riversa
Dairinesausto grembo
Su r arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mérgellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo.
Vede lontan, l'usato
Suo nido, e il picciol campo
Che gli fu dalla fame unico schermo.
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sopra quei si spiega.
Torna al celeste raggio.
Dopo l'antica obbli\iion. l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto fòro
Diritto infra le file
De' mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante.
Ch'alia sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri.
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde.
Come sinistra face
Che per vóti palagi atra s'aggii'i,
Corre il baglior della funerea lava,'
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
270 CANTI V. 204-320; 1-0
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino.
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella noi vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra.
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni.
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco.
Che ritornando al loco
(ria noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortai non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
(.'odardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
(.'on forsennato orgoglio in ver le stelle,
Xè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti:
-Ma piti saggia, ma tanto
.AFeno inferma dell'uom. quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
XXXV.
LMITAZIOXE.
Jjungi dal proprio ramo,
P(jvera foglia frale.
Dove vai tu ? Dal faggio
Là dov'io nacqui, mi divise il veiitu.
Ksso, tornando, a volo
Dal bosco alla campagna.
13; 1 18; 1-2 IMITAZIONE 271
Dalla valle mi porta alla moutauiia.
Seco peipetuameiite
Vo pellegriua, e tutto Taltio ignoro.
Vo dove ogui altra cosa.
Dove naturalmente
Va la foglia di rosa,
1". la foglia (Talloro.
XXXVL
SCHERZO.
Oii;^i^<l*^> fanciullo io venni
A pormi con le ^Nluse in disciplina,
L'una di quelle mi pigliò per mano;
K poi tutto quel giorno
La mi condusse intorno
A veder rofiicina.
]\Iostrommi a parte a parte
(rli strumenti dell'arte.
E i servigi diversi
-\. che ciascun di loro
S'adopra nel lavoro
Delle prose e de' versi.
Io mirava, e cliiedea:
Musa, la lima ov'è ? Disse la Dea:
La lima è consumata; or facciam senza.
l'.d io. ma di rifarla
Non vi cai, soggiungea. quand'ella è stanca /
Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.
FRAMMENTI.
XXXVII.
ALCETA.
Odi, Melisso: io vo* contarti un sogno
Di questa notte, che mi torna a mente
CANTI V. 3-28: 1-3
In riveder la luna. Io me ne stava
Alla finestra che risponde al prato.
Guardando in alto: ed ecco allimprovviso
Distaccasi la luna; e mi parea
Che quanto nel cader s" approssimava.
Tanto crescesse al guardo; infìn che venne
A dar di colpo in mezzo al prato; ed era
Grande quanto una secchia, e di scintilli^
Vomitava una nebbia, che stridea
Sì forte come quando un carbon vivo
Nell'acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo
La luna, come ho detto, in mezzo al prato
Si spegneva annerando a poco a poco,
E ne fumavan l'erbe intorno intorno.
Allor mirando in ciel, vidi rimaso
Come un barlume, o un'orma, anzi una nicchia,
Ond'ella fosse svelta; in cotal guisa,
Chio n'agghiacciava; e ancor non m'assicuro,
MELISSO.
E ben hai che temer, che agevol cosa
Fora cader la luna in sul tuo campo.
ALCETA.
Chi sa ? non veggiam noi spesso di state
Cader le stelle?
MELISSO.
Egli ci ha tante stelle.
Che picciol danno è cader l'una o l'altra
Di loro, e mille rimaner. Ma sola
Ha questa luna in ciel, che da nessuno
Cader fu vista mai se non in sogno.
XXXVIII.
Io qui vagando al limitare intorno,
Invan la pioggia invoco e la tempesta.
Acciò che la ritenga al mio soggiorno.
V. 4 15; 1-24 FRAMMENTI 273
Pure il vento muggìa nella foresta,
E muggìa tra le nubi il tuono errante,
Pria che l'aurora in ciel fosse ridesta.
0 care nubi, o cielo, o terra, o piante.
Parte la donna mia: pietà, se trova
Pietà nel mondo un infelice amante.
0 turbine, or ti sveglia, or fate prova
Di sommergermi, o nembi, insino a tanto
Che il sole ed altre terre il dì rinnova.
S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto
Posan Ferbe e le frondi, e m'abbarbaglia
Le luci il crudo Sol pregne di pianto.
XXXIX.
Spento il diurno raggio in occidente,
E queto il fumo delle ville, e queta
De' cani era la voce e della gente;
Quand'ella, vòlta all'amorosa meta,
Si ritrovò nel mezzo ad una landa
Quanto foss' altra mai vezzosa e lieta.
Spandeva il suo chiaror per ogni banda
La sorella del sole, e fea d'argento
Gli arbori eh' a quel loco eran ghirlanda.
1 ramuscelli ivan cantando al vento,
E in un con Tusignol che sempre piagne
Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento.
Limpido il mar da lungi, e le campagne
E le foreste, e tutte ad una ad una
Le cime si scojman delle montagne.
In queta ombra giacea la valle bruna,
^E i collicelli intorno rivestia
Del suo candor la rugiadosa luna.
Sola teuea la taciturna via
La donna, e il vento che gli odori spande.
Molle passar sul volto si sentia.
Se lieta fosse, è van che tu dimande:
Piacer prendea di quella vista, e il bene
Che il cor le prometteva era più grande.
18. — G. Leopardi.
274 CANTI V. 25-63
Come fuggiste, o belle ore serene 1
Dilette voi quaggiù nuli" altro dura.
Xè si ferma giammai, se non la spene.
Ecco turbar la notte, e farsi oscura
La sembianza del ciel, eli" era sì bella.
E il piacer in colei fai^si paura.
Un nugol torbo, padre di procella,
Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto.
Che pili non si scopria luna nò stella.
Spiegarsi ella il vedea per ogni canto,
E salir su per laria a poco a poco,
E far sovra il suo capo a ([uella ammanto.
Veniva il poco lume ognor più fioco;
E intanto al bosco si destava il vento,
W bosco là del dilettoso loco.
E si fea più gagliardo ogni momento,
Tal che a forza era desto e svolazzava
Tra le fiondi ogni aiigel per lo spavento.
E la nube, crescendo, in giù calava
Vèr la marina sì, che Tun suo lembo
Toccava i monti, e l'altro il mar toccava.
Già tutto a cieca oscuritade in grembo.
S'incominciava udir fremer la pioggia,
E il suon cresceva all'appressar del nembo.
Dentro le nubi in paurosa foggia
Giiizzavan lampi, e la fean batter gli occhi;
E n"era il terren tristo, e l'aria roggia.
Disciòr sentia la misera i ginocchi;
¥. già muggiva il tuon simile al metro
Di torrente che d'alto in giù trabocchi.
Talvolta ella ristava, e l'aer tetro
Guardava sbigottita, e poi correa,
Sì che i panni e le chiome ivano addietro.
E il duro vento col petto rompea,
(,'he gocce fredde giù per l'aria nera
In sul volto soffiando le spingea.
E il tuon veniale incontro come fera.
Rugghiando orribilmente e senza posa;
E cresceva la pioggia e la bufera.
V. 64-76; 1-20 FRAMMENTI 275
E d'ogni iiitoruo era tenibil cosa
Jl volar polve e fi-oudi e rami e sassi,
E il suoli che immaginar l'alma non osa.
Ella dal lampo attaticati e lassi
Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno
Già pur tra il nembo accelerando i passi.
Ma nella vista ancor lera il baleno
Ardendo sì, ch'alfìn dallo spavento
Fermò l'andare, e il cor le venne meno.
E si rivolse indietro. E in quel momento
Si spense il lampo, e tornò buio l'etra,
Ed acchetossi il tuono, e stette il vento.
Taceva il tutto; ed ella era di pietra.
XL.
DAL GRECO DI SIMON IDE.
Ogni mondano evento
È di Giove in poter, di Giove, o figlio.
Che giusta suo talento
Ogni cosa dispone.
Ma di lunga stagione
Nostro cieco pensier s'affanna o cura.
Benché l'umana etate,
Come destina il ciel nostra ventura.
Di giorno in giorno dura.
La bella speme tutti ci nutrica
Di sembianze beate.
Onde ciascuno indarno s'affatica:
Altri l'aurora amica,
Altri l'etade aspetta;
E nullo in terra vive
Cui nellanno avvenir facili e pii
Con Fiuto gli altri iddìi
La mente non prometta.
Ecco pria che la e>peme in porto arrive,
Qual da vecchiezza è giunto
276 CANTI V. 21-33; 1-19
E qiial da morbi al bruno Lete addutto;
Questo il rigido Marte, e quello il flutto
Del pelago rapisce; altri consunto
Da negre curo, o triste nodo al collo
Circondando, sotterra si rifugge.
('osi di mille mali
I miseri mortali
Volgo fiero e diverso agita e strugge.
Ma per sentenza mia,
Uom saggio e sciolto dal comune errore
Patir non sosterria,
Xè porrebbe al dolore
Ed al mal proprio suo cotanto amore.
XLl.
I)f:LLO STESSO.
Umana cosa picciol tempo dura,
E certissimo detto
Disse il veglio di Chio,
(Jonforme ebber natura
Le foglie e l'uman seme.
Ma questa voce in petto
Raccolgon pochi. All'inquieta speme.
Figlia di giovin core,
l'utti prestiam ricetto.
Mentre è vermiglio il fiore
Di nostra etade acerba
L'alma vota e superba
(Jonto dolci peiLsieri educa invano.
Né morte aspetta né vecchiezza; e nulla
(hira di morbi lia Tuom gagliardo e sano.
Ma stolto è chi non vedo
La giovanezza come ha ratte l'ale,
E siccome alla culla
Poco il roiio è lontano.
\r. 20 24 DAL GRECO DI SIMONIDE 277
Tu presso a porre il piede
In sul varco fatale
Della plutonia sede.
Ai presenti diletti
La breve età commetti.
NOTE
[pel leopardi medesimo].
Pag. 167, ^ Il successo delle Termopile fu celebrato veramente
(la quello che in essa canzone s'introduce a poetare, cioè da J^imo-
nide; tenuto dall'antichità fra gli ottimi poeti lirici, vissuto, che più
rileva, ai medesimi tempi della scesa di Serse, e greco di patria. Questo
suo fatto, lasciando l'epitaffio riportato da Cicerone e da altri, si di-
mostra da quello che scrive Diodoro nell'undecimo libro, dove recita
anche certe parole di esso poeta in questo proposito, due o tre delle
quali sono espresse nel quinto verso dell'ultima strofe. Rispetto dunque
alle predette circostanze del tempo e della persona, e d'altra parte
riguardando alle qualità dt-lla materia per sé medesima, io non credo
che mai si trovasse argoniento più degno di poema lirico, né più for-
tunato di questo che fu scelto, o più veramente sortito, da Simonide.
Perocché se l'impresa delle Termopile fa tanta forza a noi che siamo
stranieri verso quelli che l'operarono, e con tutto qiiesto non pos-
siamo tenere le lacrime a leggerla semplicemente come passasse, e
ventitré secoli' dopo ch'ella è seguita; abbiamo a far congettura di
quello che la sua ricordanza dovesse potere in un Greco, e poeta, e
dei principali, avendo veduto il fatto, si può dire, cogli occhi propri,
andando per le stesse città vincitrici di un esercito molto maggiore di
quanti altri si ricorda la storia d'Europa, venendo a parte delle feste,
delle maraviglie, del fervore di tutta un'eccellentissima nazione, fatta
anche più magnanima della sua natura dalla coscienza della gloria
acquistata, e dall'emulazione di tanta virtù dimostrata pur dianzi
dai suoi. Per queste considerazioni, riputando a molta disavventura
che le cose scritte da Simonide in quella occorrenza, fossero perdute,
non ch'io presumessi di riparare a questo danno, ma come per ingan-
nare il desiderio, procurai di rappresentarmi alla mente le disposizioni
dell'animo del poeta in qiiel tempo, e con questo mezzo, salva la di-
suguaglianza degl'ingegni, tornare a fare il suo canto; del quale io
porto questo parere, che o fosse maraviglioso, o la fama di Simonide
fosse vana, e gli scritti perissero con poca ingiuria. — Lettera a Vin-
cenzo Monti, premessa alle edizioni di Roma e di Bologna.
Pag. 17<;, *. Di questa fama divulgata anticamente, che in Tspagna
e in Portogallo, quando il sole tramontava, si udisse di mezzo all'O-
ceano uno stridore simile-a quello che fanno i carboni accesi, o un
ferro rovente, quando è tuffato nell'acqua, vedi Cleomede Circular.
doctrin. de suhlrm. I. 2. o. 1, ed. Bake, Lugd. Bat. 1820. p. 109 seq.
NOTE AI CANTI 271»
Strabene 1. 3, ed. Amstel. 1707, p. 202 B. GiovcBale i^ai. 14, v. 279.
Stazio Silv. I. 2, Genethl. Lucani v. 24 seqq., ed Ausonio Epist. 18,
V. 2. Floro 1. 2. e. 17, parlando delle cose fatte da Decimo Bruto in
Portogallo: « perasrratoque Victor Oceani litore, non prius signa coii-
vertit, quam cadentem in maria solem, obrutumque aquis ignem, non
sine quodam sacrilegii metu. et horrore. deprehendit . Vedi ancora
le note degli eruditi a Tacito De Gerrn. e. 45. «
Pag. 17 7. ^. Mentre la notizia della rotondità della terra, ed altre
simili appartenenti alla cosmogi'afia. furono poco volgari, gli uomini
ricercando quello che si facesse il sole nel tempo della notte, o qual
fosse lo stato suo, fecero intorno a questo parecchie belle immagina-
zioni: e se molti pensarono che la sera il sole si spegnesse, e che la
mattina si riaccendesse, altri immaginarono che dal tramonto si ri-
posasse e dormisse fino al giorno. Stesicoro ap. Athenaeum, 1. 11, e. 38.
ed. Schweigh. t. 4, p. 237. Antimaco ap. eumd. 1. e. p. 238. Eschilo
.ce più distintamente Mimnerno, poeta greco antichissimo, 1. e.
cap. 39, p. 239. dice che il sole, dopo calato, si pone a giacere in un
letto concavo, a uso di navicella, tutto d'oro, e cosi dormendo naviga
per l'Oceano da ponente a levante. Pitea marsigliese, allegato da Ge-
mino, e. 5, in Petav. Uranol. ed Amst. p. 13, e da Cosma egiziano, To-
pogr. Christian. 1. 2. ed. Montfauc. p. 149, racconta di non so quali bar-
bari che. mostrarono a esso Pitea il luogo dove il sole, secondo loro,
si adagiava a dormire. E il Petrarca si accostò a queste tali opinioni
volgari in quei versi. Canz. Xella sfagioli , st. 3:
Quando vede il pastor calare i raggi
Del gran pianeta al nido ov'egli alberga.
Siccome in questi altri della medesima Canzone, st. 1, seguì la sen-
tenza di quei filosofi che per virtii di raziocinio e di congettura indo-
vinavano gli antipodi:
Xella stagion che '1 ciel rapido inchina
Verso occidente, e che '1 di nostro vola
A gente che di là forse l'aspetta.
Dove quel forse, che oggi non si potrebbe dire, fu sommamente poe-
tico; perchè dava facoltà al lettore di rappresentarsi quella gente
sconosciuta a suo modo, o di averla in tutto per favolosa: donde si
dee credere che, leggendo questi versi, nascessero di quelle conce-
zioni vaghe e indeterminata, che sono effetto principalissimo ed es-
senziale delle bellezze poetiche, anzi di tutte le maggiori bellezze del
mondo.
Pag. 178, *. Di qui alla fine della stanza si ha riguardo alla con-
giuntura deUa morte del Tasso, accaduta in tempo che erano per in-
coronarlo poeta in Campidoglio.
280 NOTE AI CANTI
Pag. 184, *. Si usa qui la licenza, usata da diversi autori antichi,
di attribuire alla Tracia la città e la battaglia di Filippi, che vera-
mente furono nella Macedonia. — Similmente nel nono Canto si seguita
la tradizione volgare intorno agli amori infelici di Saffo poetessa, ben-
ché il Visconti ed altri critici moderni distinguano due Saffo: l'una
famosa per la sua lira, e l'altra per l'amore sfortunato di Faone; quella
contemporanea d'Alceo, e questa più moderna.
Pag. 188, *. La stanchezza, il riposo e il silenzio che regnano nelle
città, e più nelle campagne, sull'ora del mezzogiorno, rendettero quel-
l'ora agli antichi misteriosa e secreta come quella della notte: onde
fu creduto che sul mezzodì più specialmente si facessero vedere o sen-
tire gli Dei, le ninfe, i silvani, i fauni e le anime de' morti: come ap-
parisce da Teocrito Idyll. 1, v. 15 seqq. Lucano 1. .S, v. 422 seqq. Fi-
lostrato Heroic. ci, 54, opp. ed. Olear. p. 671. Porfirio De antro nymph.
e. 2G seq. Servio ad Georg. 1. 4, v. 401, e dalla Vita di san Paolo primo
eremita scritta da san Girolamo, e. 6, in Fif. Patr. Rosweyd. 1. 1, p. 18.
Vedi ancora il Meursio Auctar. phiìolog. e. 6, colle note del Lami, opp.
Meurs. Florent. voi. 5, col. 733, il Barth Animadv. ad Stat. part. 2.
p. 1081, e le cose disputate dai cementatori, e nominatamente dal
Calmet, in proposito del demonio meridiano della Scrittura volgata.'
Psal. 90, V. 6. Circa all'opinione che le ninfe e le dee suD'ora del mez-
zogiorno si scendessero a lavare ne' fiumi e ne' fonti, v. Callimaco in
Lavacr. Pali. v. 71 seqq. e quanto propriamente a Diana, Ovidio 3Ie-
tam. 1. 3, V. 144 seqq.
Pag. 191, *. « Egressusque Gain a facie Domini, habitavit profugus
in terra ad orientalem plagam Eden. Et aediflcavit civitatem ». Oenes.
e. 4, V. 16.
Pag. 193, *. È quasi sup*^rfluo ricordare che la California è posta
nell'ultimo termine occidentale di terra ferma. Si tiene che i Californi
sieno, tra le nazioni conosciute, la più lontana dalla civiltà, e la pili
indocile alla medesima.
Pag. 229, ». « Plusieurs d'entre eux » (parla di una delle nazioni
erranti dell'Asia) « passent la nuit assis sur une pierre à regarder la
lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le
sont pas moins ». Il Barone di Meyendorff, Voyage d'Orenbourg à Bovk-
hara, fait en 1820, appresso il giornale des Savans 1826, septemhre,
p. 518. — [Cfr. Zibaldone, VII, 337; e Sentii vari ined., 398].
Pag. 233, i». Il signor Bothe, traducendo in bei versi tedeschi
questo componimento, accusa gli ultimi sette versi della presente
stanza di tautologia, cioè di ripetizione delle cose dette avanti. Segue
il pastore: ancor io godo pochi piaceri (godo ancor poco); né mi lagno
di questo solo, cioè che il piacere mi manchi; mi lagno dei patimenti
che provo, cioè della noia. Questo non era detto avanti. Poi, conchiu-
NOTE AI CANTI 281
dendo, riduce in termini brevi la quistione trattata in tutta la stanza ;
perchè gli animali non s'annoino, e l'uomo sì: la quale se fosse tautologia,
tutte quelle conclusioni dove per evidenza si riepiloga il discorso, sa-
rebbero tautologie.
Pag. 253, ^\ Pelliccia in figura di serpente, detta dal tremendo
rettile di questo nome, nota alle donne gentili de' tempi nostri. Ma
come la cosa è uscita di moda, potrebbe anche il senso della parola
andare fra poco in dimenticanza. Però non sarà superflua questa no-
terella.
Pag. 2fi;5, ^^ Parole di un moderno, al quale è dovuta tutta la
loro eleganza. — [Il moderno, cui qui si accenna, è il conte Terenzio
Mamiani della Rovere, cugino del Leopardi].
ILLUSTRAZIONI
LE DUE PRIME CANZONI
I.
Composizione e siampa delie due canzoni. — Le iraece ina-
noscritte, e la perorazione del Discorso sulla poesia ro-
ììiantica. — Uno spunto dalV" Ortis >\ - La dedicatoria
al Monti, e la risposta.
Le canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante
iuron composte nel 1818; anzi della prima di esse il poeta
medesimo precisò: e composta il settembre del 1818», e
della seconda: « opera di dieci o dodici giorni, settembre-
ottobre I8I8 ». Il 28 giugno di quell'anno, ancor l'animo
e la fantasia vibranti di quelle prime impressioni amorose
che cantò nel Primo Amore e nelle altre Elegie, egli bnttava
giù questa traccia, che ha una mossa trovatoresca:
Oggi finisco il Yentesini'anno. Misero me, clie ho fatto ? Ancora
nessun fatto grande. Torpido giaccio tra le mura paterne. Ho amato
te sola. O mio core ecc., non ho sentito passione, non mi sono agi-
tato ecc., fuorché per la morte che mi minacciava ecc. Oh che fai?
Pur sei grande ecc. ecc. ecc. Sento gli urti tuoi ecc. Non so che vogli,
che mi spingi a cantare, a fare, né so che ecc. Che aspetti ? Passerà
la gioventù e il bollore ecc. Misero ecc. E come piacerò a te senza grandi
fatti? ecc. ecc. ecc. O patria, o patria mia, ecc., che farò? non posso
spargere il sangiie per te che non esisti più, ecc. ecc. ecc. Che farò di
grande? Come piacerò a te ? In che opera, per chi, per qual patria,
apanderò i sudori, i dolori, il sangue mio ?
Esse nacquero a un parto, gemelle. Tra i manoscritti
napoletani v'è di mano del poeta r« argomento di una can-
zone sullo stato presente dell'Italia »; e subito in principio
280 ILLUSTRAZIONI
si leggono questi spuuti: « 0 patria mia, vedo i monumenti,
gli archi ecc., ma non vedo la tua gloria antica ecc. Se avessi
due fonti di lagrime non potrei piangere abbastanza per
te. Passaggio agF Italiani che hanno combattuto per Na-.
poleone: alla Kussia ». E il -poeta continuava delineando
rapidamente pensieri, immagini, esprassioni che informa-
rono poi l'episodio, per così dire, italo-russo nella seconda
canzone; indi riprendeva a mezzo: O patria mia, vedo le mura
e gli archi, seguitando sin che prescriveva a se stesso : « qui
si passi alla battaglia de' Greci alle Termopile ».
Dalle carte napoletane son pur venuti in luce questi
brani della traccia in prosa, che più propriamente si ri-
feriscono alla seconda canzone:
Anch'io vengo come posso a cantare e tributare omaggio con voi
e con tutti gl'Italiani a Dante. O gran padre Alighieri, questo già non
ti tocca per amor di te, che non hai bisogno di monumento e sei glo-
rioso per tutto e immortale; — e se Tltalia t'avesse dimenticato, sa-
rebbe già barbara ecc., né certo ti dimenticò: le avvengano tutte le
sventure, se lo fece; — ma per gl'Italiani, acciò si destino ecc. Oh
come, vedi, la povera Italia, come fu straziata dai Francesi, spogliata
de' marmi e delle tele! ecc. trattati come pecore vili da' Galli, Itali
noi! Qua! tempio, qual altare non violarono? qual monte (pendice),
qual rupe, qual antro sì riposto fu sicuro dalla loro tirannide ? Libertà
bugiardissima ecc. E '1 peggio è che fummo costretti di combattere
per loro. Qui alle campagne e selve rutene ecc., come sopra per l'altra
canzone...
E «sopra» era detto, subito dopo l'accenno alla Russia:
... Morendo i poveretti ecc. (dopo una descrizione lirica del modo
come morivano) si volgevano a te, o patria ecc. : O Italia, o Italia bella;
O patria nostra, oh in che diversa terra Moriamo per colui che ti fa
guerra! Oh morissimo per mano di forti e non del freddo: oh moris-
simo per te, non per li tuoi tiranni: oh fosse nota la morte nostra! in-
felici, sconosciuti per sempre, e inutilnfente soffrenti le più acerbe
pene! Cosi dicendo morivano, e gli addentavano le bestie feroci, ur-
lando su per la neve e il ghiaccio ecc. Anime care, datevi pace e vi
sia conforto Che non hacci per voi conforto alcimo. Infelicissimi fra
tutti, riposatevi nell'infinità della vostra miseria, vi sia conforto il
pianto della patria e de' parenti: non di voi si lagna la patria, ma di
chi vi spinse A pugnar contra lei, E mesce al pianto vostro il pianto
suo; sventurati.ssima sempre. Vi sia conforto che la sorto vostra non
è stata più dolce di quella della patria. Dei guai sofferti dall'Italia
sotto il dominio de' Francesi, tanto monarchico quanto repubblicano,
del suo spoglio ecc....
LE DUE PRIME CANZONI 287
Tra le carte s"è rinvenuto altresì quel Discorso di un it((-
liano intorno alla poesia romantica, che il Leopardi scrisse tra
il 1817 e il '18, sospintovi dalle Osservazioni del cavaliere
Lodovico di Brente snìla poesia moderna, apparse nello
Spettatore di Milano, e non riuscì allora a pubblicare (cfr.
Zibald. 1. 94 ss.). In esso, verso la fine, con improvvisa
concitazione, il giovane critico esclamava:
Ma già sul finire, essendomi sforzato sin qui di costringere i moti
dell'animo mio, non posso più reprimerli, né tenermi ch'io non mi ri-
volga a voi, Giovani italiani, e vi preghi per la vita e le speranze vo-
stre che vi moviate a compassione di questa nostra patria, la quale,
caduta in tanta calamità quanta appena si legge di verun'altra nazione
del mondo, non può sperare né vuole invocare aiuto nessuno altro che
il vostro. Io muoio di vergogna e dolore e indignazione pensando
ch'ella sventuratissima non ottiene dai presenti una goccia di sudore,
quando, assai meno bisognosa, ebbe torrenti di sangue dagli antichi
prontissimi e lieti; non c'è una penna tra noi che s'adopri per quella
che gli avi nostri difesero e accrebbero con milioni e milioni di spade.
Soccorrete, o Giovani italiani, alla patria vostra, date mano a questa
afflitta e giacente, che ha sciagure molto più che non bisogna per muo-
vere a pietà, non che i figli, i nemici. Fu padrona del mondo, e for-
midabile in terra e in mare, e giudice dei popoli, e arbitra delle guerre
e delle paci, magnifica ricca lodata riverita adorata; non conosceva
gente che non la ubbidisse, non ebbe offesa che non vendicasse, non
guerra che non vincesse; non c'è stato imperio né fortuna né gloria
simile alla sua né prima né dopo. Tutto è caduto: inferma spossata
combattuta pesta lacera e alla fine vinta e doma la patria nostra, per-
duta la signoria del mondo e la signoria di se stessa, perduta la gloria
militare, fatta in brani, disprezzata oltraggiata schernita da quelle
genti che distese e calpestò, non serba altro che l'imperio delle let-
tere e arti belle, per le quali come fu grande nella prosperità, non al-
trimenti è grande e regina nella miseria. Questo solo regno, questa
gloria, questa vita rimane alla patria nostra quasi levata dal numero
delle nazioni, grande avanzo d'immensa grandezza, sempre finora
invidiato e bestemmiato invano dagli altri popoli, insofl'erenti che la
regina del mondo, quantunque sordida e guasta, a ogni modo non sia
per anche spogliata di scettro e di corona Io vi prego e supplico.
o Giovani italiani, io m'atterro dmanzi a voi; per la memoria e la fama
unica ed eterna del passato, e la vista lagrimevole del presente, impedite
questo acerbo fatto, sostenete l'ultima gloria della nostra infelicissima
patria, non commettete per Dio che quella che per colpa d'altri infermò,
per colpa d'altri agonizza, muoia fra le mani vostre per colpa vostra.
E dopo una fiera rampogna alla Francia, die aveva ma-
nomesso il nostro patrimonio artistico (e qui è evidente
288 ILLUSTRAZIONI
l'ispirazioDe misogallica alfìeriana), egli ripigliava, sempre
rivolto ai Giovani italiani:
Prometto a voi, prometto al cielo, prometto al mondo, che non
mancherò finch'io viva aUa patria mia, né ricuserò fatica né tedio né
stento né travaglio per lei, si ch'ella quanto sarà in me non ritenga
balvo e fiorente quel secondo regno che le hanno acquistato i nostri
maggiori. Ma che potrò io ì e qual uomo solo ha potuto mai tanto
quanto bisogna presentemente alla patria nostra ? Alla quale se voi
non darete mano, cosi com'è languida e moribonda, sopraTvivrete, o
Giovani italiani, all'Italia, forse anch'io sciagurato sopravvivrò. Ma
sovvenite alla madre vostra ricordandovi degli antenati e guardando
ai futuri, dai quali non avrete amore né lode se trascurando avrete
si può dire uccisa la vostra patria: secondando questa beata natura
onde il cielo v'ha formati e circondati;.... considerando la barbarie
che ci sovrasta; avendo pietà di questa bellissima terra, e de' monu-
menti e delle ceneri de' nostri padri; e finalmente non volendo che ta
povera patria nostra in tanta miseria, perciò si rimanga senz'aiuto
perchè non può essere aiutata fuorché da voi.
Xello Zibaldone (I, 168) c'imbattiamo in questa preziosa
annotazione: «Per un'ode lamentevole sull'Italia può ser-
vire quel pensiero di Foscolo nell'Ortis, lett. 19 e 20 feb-
braio 1799 '> 1. Nella qual lettera foscoliana, datata da
Ventimiglia, era già qualche concetto e qualche mossa che
ritroviamo poi nella canzone All'Italia. 11 Foscolo aveva
scritto :
I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto di sormontati
d'ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque
i tuxji figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io
spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare
il solo mio braccio e la nuda mia voce ì — Ov'è l'antico terrore della
tua gloria ? Miseri ! noi andiamo ogni di memorando la libertà e la
gloria degli avi, le quali quanto più splendono tanto più scoprono la
nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo queUe ombre magna-
nime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse giorno
che noi perdendo e le sostanze e l'intelletto e la voce, sarem fatti si-
mili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati come i miseri
' Il Leopardi indica anche l'edizione: " Napoli, 1821 ». È un lapsus
calami, se pure non un orrore di stampa; giacché la postilla si trova
tra altre degli ultimi giorni del 1818 e dei primi del 1819. Si deve
trattare, come mi avverte il Marinoni, dell'ediz. napoletana deìl'Ortis
fatta da Gennaro Reale nel 1811.
LE DUE PEIME CANZONI 289
Negri; e vedremo i nostri padroni scliiudere le tombe, e disseppellire
e disperdere al vento le ceneri di que' Grandi per annientarne le ignude
memorie; poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non
eccitamento dall'antico letargo. — Cosi grido qnand'io mi sento in-
superbire nel petto il nome Italiano, e rivolgendomi Jntorno io cerco,
uè trovo più la mia patria.
Le due canzoni furono pubblicate insieme, a Roma,
« il primo dell'anno seguente », con la data però del 1818,
presso Francesco Boiiiiié. C4iacomo ne aveva mandato, il
19 ottobre '18 il manoscritto al Giordani, a Piacenza,
dicendogli :
Con questa riceverete un mio libricciuolo manoscritto. Vorrei
che lo faceste stampare costì o dove meglio qrederete, ma in-12 o altro
sesto piccolo, perchè la spesa, dovendosi fare dal mio privato erario,
bisogna che sia molto sottile, a volernela spremere : e vedrete che o
grande o piccolo che sia il sesto, il numero delle pagine non può essere
altro che uno. Vedrete similmente che io dedico il libricciuolo al Monti.
Vorrei che gli scriveste perchè me ne desse licenza. Io gii scriverò nel
mandargli copia del libercoletto, stampato che sarà.
Ma lettera e manoscritto andarono smarrite; onde Gia-
como, informandone il Giordani, soggiungeva, il 27 no-
vembre :
Sic te servavit Apollo, ma solamente quanto al farle stampare,
giacchè^vi prego di nuovo che scriviate al Monti, avendo fatto rico-
piare il libricciuolo e mandatolo a Roma, dove non lo farò pubblicare,
se prima non saprò che m'abbiate impetrata la licenza che ho detto.
A Roma ci lu qualche intoppo per via della Censura.
« Mi scrivono da Roma », egli stesso riferisce, « che il ma-
noscritto quantunque piccolissimo, tuttavia si potrebbe
dare il caso che non potesse passare per il buco della Cen-
sura ». Pa>ssò difatto a stento. Riscrive al Giordani, il 12
febbraio 1819: uso che a Roma s'è dovuto stentare assai
per carpirgli un imprimaiar )).
La lettera dedicatoria al Monti, che il Leopardi poi rac-
corciò e ritoccò nella ristampa che di queste sue canzoni
fece poi a Bologna nel 1824, suonava cofjì in quella prima
edizione :
Quando mi risolsi di pubblicare queste Canzoni, come non mi
sarei lasciato condurre da nesstina cosa al mondo a intitolarle a verun
19. — G. Leopardi.
290 ILLUSTRAZIONI
potente, così mi parve dolce e beato il consacrarle a Voi, signor ca-
valiere. Stante che oggidì chiunque deplora o esorta la patria nostra,
non può fare che non si ricordi con infinita consolazione di Voi che
insieme con quegli altri pochissimi, i quali tacendo non vengo a di-
notare niente meno di quello che farei nominando, sostenete l'ultima
gloria nostra, io dico quella che deriva dagli studj, e singolarmente
dalle lettere e arti belle, tanto che per anche non si può dire che l'I-
trìlia sia morta. Di queste Canzoni, se uguaglino il soggetto, che quando
lo uguagliassero non mancherebbe loro né grandiosità né veemenza,
sarà giudizio non tanto dell'universale quanto vostro; giacché da
quando veniste in quella fama che dovevate, si può dire che nessuno-
scrittore italiano, se non altro, di quanti non ebbero la vista impedita
né da scarsezza d'intelletto, né da presunzione e amore di sé mede-
simi, stimò che valessero punto a rifarlo delle riprensioni vostre le
lodi dell'altra gente, o lodato da Voi riputò mal pagate le sue fatiche,
o si curò de' biasimi o dello spregio del popolo
Passava poi a discorrere dell" audace suo tentativo di
rifare, nella prima delle due canzoni, il perduto Canto di
Simonide: e questo è il solo brano della dedica che, pur
molto trasformato, egli volle poi serbato nelle ristampe dei
Canti, cacciandolo però in nota. E concludeva:
Di questo mio fatto, se sia stato coraggio o temerità, sentenzia -
rete Voi, signor cavaliere, e altresì, quando vi paia da tanto, giudi-
cherete della seconda Canzone, la quale io v'offro umilmente e sem-
plicemente insieme coll'altra, acceso d'amore verso la povera Italia,
e quindi animato di vivissimo afletto e gratitudine e riverenza verso
cotesto numero presso che impercettibile d'Italiani che sopravvive.
Il volumetto fu mandato al celebre poeta, accompa-
gnato da un'altra letterina, del 12 febbraio '19. Giacomo vi
si scusa d'aver pur osato pubblicarlo, prima clie il tanto
desiderato e sollecitato consenso giungesse; e continua:
Userò quella stessa confidenza c'ho usata nel dedicarle cosa tanto
sproporzionata alla dignità di V. S., e mi farò animo di spedirle copia
delle mie canzoni prima di averne ottenuto licenza formale; né avendo
altro mezzo adattato, la manderò per la posta. In verità che l'offerta
è la più piccola cosa che si possa immaginare; ma io vorrei ch'Ella
pensasse, e stimo che facilmente si persuaderà, che l'ingegno del do-
natore non sia più grande per nessun verso. E io mi rincuoro consi-
derando che in parte è uffizio di noi piccoli il fare, che risplendano le
virtù de' pari suoi non solo per l'evidenza che nasce dal confronto,
ma per le occasioni che non può somministrare altri che noi, senza le
quali molte delle loro nobilissime qualità resterebbero poco meno che
LE DUE PRIME CANZONI 291
sconosciute. Come presentemente, s'io Le offrissi cosa de^na di Lei,
non avrebbe luogo a manifestarsi la Sua benignità, la quale si dimo-
strerà splendidamente se V. S. non rifiuterà un dono cosi volgare di
un povero come son io. E tanto più s'Ella non si sdegnerà ch'io, quan-
tunque povero, mi tenga per cosa Sua.
Il Monti tardò a ri.spcjudore circa un mese; e finalmente
scrisse da Milano, il 20 marzo ^:
Stimatissimo signor conte ed amico. È già poco meno d'un mese,
che da Roma ebbi le vostre belle e veramente italiane canzoni: del
caro dono delle quali il nostro Giordani mi avea già dato l'avviso. Io
le ho lette e rilette con piacere incredibile: e non so vedervi altro di-
fetto che l'averle voi intitolate a chi meno lo meritava. Lodo il nobile
vostro proponimento di non dedicarle a verun potente: ma temo non
vi tomi a lode egualmente l'averle sacrificate a un meschino quale
sono io. Pel vero amore che i vostri t-alenti m'ispirano, io desidero
che niimo vi biasimi di questa tanta gentilezza e benevolenza. Ben
vi dico che dell'onor fattomi vi ringrazio, e che il core mi gode nel
veder sorgere nel nostro parnaso una stella, la quale se manda nel na-
scere tanta luce, che sarà nella sua maggior ascensione ? — State sano,
e credete vera l'espressione della mia stima ed amicizia.
Forse il Leopardi si aspettava di più e di meglio. Il suo
Giordani gli aveva scritto, nel primo ricevere le canzoni:
« Oh nobilissima e altissima e fortissima anima I Così, e non
altrimenti vorrei la lirica «. E due giorni dopo : « Oli mio
Giacomino, che grande e stupendo uomo siete voi già!
quale onore, e forse ancora quanto bene siete destinato a
fare alla nostra Madre Italia I ». Xei primi di marzo poi gli
narrava come, a Piacenza, « ognuno, e sino le donne »,
volessero copiare quei versi; e soggiungeva: «Di voi si
parla come d'un dio, e di quelle canzoni come di un mira-
colo ». E intanto il Monti, proprio il Monti, taceva; e quando
finalmente aveva parlato, non aveva saputo scrivere se non
pochi complimenti generici'. Forse il poeta se ne lamentò
con l'amico piacentino. Al quale, fino dal 19 febbraio, aveva
scritto insospettito :
Ho saputo che il conte Perticar! [il genero del Monti], avendo letto
^ La lettera fu pubblicata dal D'OviPio, Uìi giudizio di F. de
Sayictis smentito da un documento, Napoli 1889. Le prime parole la-
sciano intendere che nella data 20 febr., com'è realmente scritto, sia
incorso un lapsus calami: il Monti deve aver voluto scrivere: 20 marzo.
292 ILLUSTRAZIONI
il mio libricciuolo, uou ha disapprovato i versi, ma sì bene la prosa.
Come amico, e unico amica, e come singolarissimo nell'amicizia, di-
temi sinceramente e distintamente i difetti di questa prosa; giacch'è
manifesto ch'io da me stesso non li conosco, perchè, se sii avessi co-
nosciuti, avrei procurato di schivarli. E cosi farò per l'innanzi, se me
li mostrerete.
Il 10 aprile, il Giordaui lo rassicura:
II Mai ti ha risposto ringraziandoti delle canzoni, piaciutegli mol-
tissimo. Anche son piaciute molto al mio buon Monti, che ti ha risposto.
Xon devi credere di essere tenuto per un fanciullo. Di' piuttosto che
non sei ancora tanto universalmente conosciuto quanto dovresti. Ma
già son molti quelli che ti tengono per uomo e grandissimo e rarissimo.
Al poeta già maturo ed illustre il novelliuo non scriveva
ora per la prima volta. Il 21 febbraio '17, gli aveva mandata
la sua traduzione del II libro àoiVEneide, accompagnan-
dola con una letterina che comincia:
Se è colpa ad uomo piccolo lo scrivere non provocato a letterato
grande, colpevolissimo sono io, perchè a noi si convengono i superla-
tivi delle due qualità. Xè altro posso allegare a mia scusa che la smania
incomprensibile di farmi noto al mio principe (poiché suddito Le sono
io certo, come amatore quale che sia delle lettere), e il tremito che
provo scrivendo a Lei, che scrivendo a re non mi avverrebbe di pro-
vare.
E paro che il Monti ne lo ringraziasse per mezzo del
Giordani, pur facendogli qualche appunto; ond'egli scriveva
il 21 marzo all'amico:
Che il mio libro avesse molti difetti lo credea prima, ora lo giu-
rerei perchè me lo ha detto il Monti: carissimo e desideratissimo detto.
A lui non iscrivo perchè temo d'increscergli, ma Lei prego che ne lo
ringrazi in mio nome caldamente... Quando scrivendo o rileggendo
cose che abbia in animo di pubblicare m'avvengo a qualche passo
che mi dia nel genio..., mi domando come naturalmente: Che ne di-
ranno il Monti, il Giordani ?
Ma tra lui e il Monti non nacquero mai né quella to-
nerà intimità che rende pure a noi caro il Giordani, e nean-
che quei rapporti, piìi propriamente letterarii, che prelu-
sero alla canzone al Mai.
LE DUE PRIME CANZONI 293
II.
La (( formosissima donna ì), e la (i donna di fanne alte e di-
vine » del « Benefìcio ». — • La « Italia imhriaca » e « Serva
derisa». — *!■ L\inni, qua Varmi!)K — Simonide e il
bardo Ullino. — I giudizii del Leopardi sulla poesia del
Monti. — Monti e Bijron. — La conoscenza personale
dei due poeti. — I « Dialoglieiti » di Monaldo, e la frec-
ciata di Giacomo al carattere del Monti.
Non era stato per un capriccio giovanile che il novello
campione aveva dedicato il primo suo saggio poetico al-
l'atleta celeberrimo. Quelle due canzoni eran germogliate
nel caldo dell'ammirazione per quella poesia così ricca di
suoni e di colori. Di certi procedimenti e trapassi e finzioni
rettoriclie; di certe supposizioni smentite immediatamente;
di certi « movimenti drammatici non generati dal disten-
dersi naturale dell'argomento, ma venuti di fuori e con vi-
sibile artificio»; di certi «pensieri e sentimenti vaganti
nella loro generalità, senza niente di intimo e di perso-
nale «^i il novizio aveva trovato il modello nelle odi e
ne' poemetti del poeta provetto. Come, per esempio, non
ravvisare nella figurazione dell'Italia — meglio che la Roma
di Lucano (I, 187-9) vultu maestissima..., Turrigero canos
effundens vertice crines, Caesarie lacera, nudisque... lacertis...;
o la « vecchia oziosa e lenta » del Petrarca; o la « degna nu-
trice delle chiare genti» del Guidiccioni; o «l'Italia col
crin sparso, incolto.... Che sedea mesta», d'Eustachio Man-
fredi — la formosissima donna del Benefìcio (maggio 1805) ?
Una donna di forme alte e divine,
Per lungo duolo attrita, e di squallore
Sparsa l'augusto venerando crine,
In vision m'apparve; e sì d'amore.
Sì di pietà mi prese e di rispetto.
Che ancor la veggo, ancor mi balza il core.
^ De Sanctis, La prima canzone di G. L. ; nei « Saggi critici
cura di M. Scherillo, Napoli, Morano, 1916, v. Ili, p. 126.
294 ILLUSTRAZIONI
Era un sasso al bel fianco duro letto,
La sinistra alla gota; e, scisso il manto,
Scopria le piaghe dell'onesto petto.
Insultavan superbe al suo gran pianto
Stranie donne scettrate, e la strignea
Or questa or quella di catene, e vanto
Traean dal lutto ond'ella si pascea,
E crescean strazio ed onta alla meschina.
Io le guardava, e d'ira il cor fremea.
Ma Tafiiitta, che pur nella mina
Delle prime fortune alma serbava
Sdegnosa, e dentro si sentia regina :
Ricordivi, lor disse (e il capo alzava);
Ricordivi che tutte io v'ebbi ancelle,
Tutte; e, rotto un sospir, gli occhi inchinava.
Poi le luci nel pianto ancor più belle
Girando ai figli: Chi di voi m'aita?
Sclamava. E i figli, forsennate e felle
Volgean l'arme in sé stessi, e la ferita,
Del sen materno esacerbando, il poco
Misero avanzo le togliean di vita.
Mi corse all'empia vista e gelo e foco
Per le vene, e gridai: Pace, fratelli!
Per Dio, pace ! — e trovar non sapea loco.
Pareami errar furente, irto i capelli.
Per le sacre di Roma erme ruine,
E percuoter col puguo i chiusi avelli,
E agitarli, e svegliar l'Ombre latine.
Ahi prisca gloria ! ahi vani orgogli ! ahi come
L'italica virtù cadde a vii fine !
. . . Dolorosi
Quei divi Spirti di sì gran caduta.
In volto si guardar muti e pensosi.
Indi qual vergognando giù cadea,
Gli occhi nel cavo delle palme ascosi;
Qual, ritto in pie spiccandosi, mettea
Tutta fuori dell'arca la persona,
E, gridando vendetta, armi chiedea.
All'infelice, che giacca di ninna
Speme in conforto, e sì parca pur degna
Di riverenza e di men ria fortuna,
Colla pietà che cor gentile insegna,
S'appressò quell'invitto [Napoleone]....
Ed ei le terse affettuoso il ciglio.
Ne trattò le ferite, e a lei, com'era
D'armi nuda e d'ardire e dì consiglio.
LE DUE PRIME CANZONI 295
Die lo scudo, die l'asta; e già guerriera.
Già coronata, in trono la compose
Con guardo che dicea: Fa senno, e spera.
Ed ella, che fatai la sua belfate
Sapea per prova, del suo stato in forse.
Già ritornava alle temenze usate.
Ed ecco, ammonitore d'Italia,, anclie qui Daute.
Al macro aspetto, che dall'arte inciso
Già più volte adorando avea veduto,
E più del core al palpito improvviso.
Ebbi tosto il cantor riconosciuto
Cui di carne vestito il trino regno
Della morte veder fu conceduto.
Pria severo guardò quel franco ingegno
La risurta reina ; indi, proteso
Vers'ella il dito, di parlar fé' segno;
E cominciò: Da' tuoi delitti offeso.
Cara Italia, io ti punsi, e, tuo flagello.
Sentir ti feci di mie note il peso.
Xè menar vanto che il doniate mondo
Un dì tenesti in signoria; che stolta
È la superbia dei cadiiti al fondo.
Ancora: quanta della concitazione leopardiana non è
già in questi versi della ^laseheroniana (V, 12 ss. ; del 1801 ) ?
Dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa
Ch'or questa gente or quella ò tua reina.
Che già serva ti fu ? Dove lasciasti.
Poltra vegliarda, la virtù latina ?
E più è nella canzone Per il congresso di Udine (1191);
ov'è pur il ricordo delle Termopile, e il virgiliano grido
d'allarme: Arma, viri, ferie arma! {Aen. II, 668) ^.
Che il Leopardi medesimo aveva così tradotto, nel saggio del 1S16:
Armi, qua Vanni!
Vinti a morte ne chiama il giorno estremo.
Rendetemi a gli Achei, lasciate a nuova
Pugna volarmi. Ah non fìa ver che tutti
Oggi inulti moriamo !
296 ILLUSTRAZIONI
Oh più vii che infelice ! oh de' tuoi servi
Serva derisa ! Si dimesso il volto
Non porteresti e i piò dal ferro attriti,
Se del natio valor prostrati i nervi
Superba ignavia non t'avesse, e il molto
Fornicar co' tiranni e co' leviti.
Colei che l'universo ebbe mancipio.
Or salmeggia; e una mitra è il suo cimiero.
Di quei prodi le sante ombre frattanto
Romor fanno e lamenti entro le tombe.
Che avaro pie sacerdotal calpesta;
E al sonito dell'armi, al fiero canto
De' Franchi mirmidòni e delle trombe,
Susurrando vendetta alzan la testa,
E voi l'avrete, e presta,
Magnanim'ombre. L'itala fortuna .
I Egra è sì, ma non spenta. Empio sovrasta
Il Fato, e danni e tradimenti aduna:
Ma contro il Fato è Bonaparte; e basta.
Se vero io parlo, Cremerà vel dica,
E di Coclite il ponte, e quel di Serse,
E i trecento con Phito a cenar spinti.
E noi lombardi petti, e noi nutrica
Il valor che alle donne etrusche e perse
Plorar fé' l'ombre de' mariti estinti.
Morti sì; ma non vinti,
Ma liberi cadremo, e armati, e tutti:
Arme arme fremeran le sepolte ossa.
Arme i figli le spose i monti i flutti:
E voi cadrete, o troni, a quella scossa.
E ancora. Simouide che sale sul colle d' Aritela, iiisicjiie
spettatore e cantore della virtù greca e della viltà persiana,
non è forse una classica trasfigurazione dell'ossianico ^
UUino, nel Bardo della SeìCa Nera (180()), spettatore e can-
tore della fortunata virtii francese e della sventurata virtù
germanica? Il i^imonide leopardiano, piangente aiLsante
vacillante, ha l'aria sentimentale d"un romantico; dissi-
mile perciò dal greco, che cantò le parole d'elogio conser-
* Il Leopardi fu. e rimase lungamente, egli pure ami\iiratore del
pseudo bardo della Caledonia. Cfr. Zibaldone: I, 307-8, 409; 11,19,
310; III, 137-8; V, 3G5; VII, 268,
LE DUE PRIME CANZONI 297
vateci nel framinento. 11 Simoniclo della canzone ha più
l'atteggiamento e la posa d'un bardo.
Sopra una vetta che d'Albeeco e d'Ulma
Signoreggia la valle, e i cristallini
Bei meandri dell'Istro in lontananza,
Salia tutto raccolto in suo pensiero
L'irto poeta, e dietro gli recava
L'arpa Cherusca la gentil Malvina.
Giunto Ullino su l'erta, il guardo spinse
Giù nella valle; e ritto in piedi, e l'arco
Spalancando del ciglio e palpitando,
D'armi vide e d'armati tuttaquauta
Ondeggiar la pianura, e starsi a fronte
Già minacciosi, già parati al cozzo
Gli eserciti rivali; e li raovea
Non eguale virtù ....
. . . . Sereno su que' volti tutti
Lampeggiava il coraggio, e quella franca
Securtà di valor, che pria del fatto
Al cor ti dice: Il vincitore è questi.
Venia n siccome a nuzial carola
I valorosi, e dalle dense usciva
Mobili selve de' lucenti ferri
Lampi intorno e paure. Alto tremava
Sotto l'ugna de' fervidi cavalli
La terra
Stette immoto alcun tempo a riguardarli
L'attonito cantor. L'avida vista.
Senza batter palpebra, or da quel lato
Or da questo inviava: e per la mente
Scorrean frattanto e s'accendean veloci
Le profetiche vampe. Alfìn, rapito
Da sùbito furore, alla seguace
Vergin si volse, e: Porgimi, le disse.
Porgimi l'arpa de' guei'rieri, o figlia.
Incontanente
Pose Malvina nelle man del padre
Il fatidico legno. Ed ei, gli arguti
Nervi scorrendo col maestro dito.
Sposò la voce al suon delle percosse
Fila, seguaci della calda mente.
Ardea frattanto
In vai d'Istro la pugna. E qual tra vili
Minuti augelli piomba la grifagna
Degli strali di Giove arrecatrice.
298 ILLUSTRAZIONI
Tal si scaglia per mezzo alla nemica
Folta il Francese combattente; e armato
Più di cor che di ferro, altro non teme
Che gir secondo ad incontrar perigli.
Ma numero che vai contra virtude ?
Veder la numerosa oste, e primieri
Assalirla spezzarla e sgominarla,
E far che molti mordano la polve,
Molti cedano il ferro, e il resto compri
Col fuggir ratto una codarda vita.
Fu per que' pochi eletti un breve affanno.
Anzi un tripudio; che i perigli sono
La danza degli eroi. Vide il bel fatto
Il Bardo spettator dalla sua rupe,
E le nobili piaghe a mezzo il petto
Del vincitor; le vide, e su le pronte
Corde sonore fé' volar quest'inno.
Uh illustre pugna ! oh splendide
Ferite generose,
Alle ferite simili
Che le Laconie spose
Baciar sul largo petto
Dei trecento allo Stretto !
Valle d'Albecco, i tremoli
Vegliardi un di col dito
T'insegneranno; e il postero
Di santo orror colpito
Ricercherà la fossa
Che degli eroi tien l'ossa.
Coprirà l'erba e il tribolo
Le mute spoglie, ed irti
Per le notturne tenebre
Vagoleran gli spirti,
Che morti ancor daranno
Spavento all'Alemanno.
Eran quete le selve, cran dell'aure
Queti i sospiri; ma lugubri e cupi
S'udian gemiti e grida in lontananza
Di languenti trafìtti, e un calpestio
Di cavalli e di fanti, e sotto il grave
Peso de' bronzi un cigolìo di rote
Che mestizia e terror mettea nel cor*?.
LE DUE PRIME CANZONI 299
Sennonché codesti entusiasmi diiraron poco ^. Nello
Zibaldone l'opera letteraria del Monti vien giudicata con
simpatia sempre minore, e, s'intende, con sagacia critica
sempre maggiore. Tra la fine del 1817 e il principio del '18,
vi si nota (I, 92):
Nelle poesie del Monti (specialmente nelle Cantiche) sono osser-
vabili la bellezza, novità, efficacia delle immagini, particolarmente
sublimi, ma anche di ogni altro genere, la mollezza e dirò così svel-
tezza, agilità, disinvoltura dell'espressione; la gran felicità nell'espri-
mere cose e immagini difficilissime; la disinvolta e spedita nobiltà
dello stile, e quella data colla scelta e collocamento delle parole, o
coll'una o l'altra separatamente, a cose e immagini per se stesse igno-
bili o quasi; la sublimità e grandezza delle immaginazioni fantastiche;
la grazia e forza del dipingere; la facilità e felicità di certe rime di-
sparatissime, come di qualche nome proprio, lontanissimo dall'argo-
mento, condottovi con mirabile franchezza e disinvoltura (nella qual
facilità ebbe il Monti gran precursore, oltre a Dante, il Menzini nelle
satire); l'efficacia di molte espressioni acquistata colla novità ecc. ecc.;
le quali còse tutte fanno uno stile suo proprio, elegante (la quale ele-
ganza, la qual nobiltà ecc. è anche molto spesso acquistata con acconce
parole latine destrissimamente, disinvoltamente e morbidamente in-
sinuate nella composizione), efficace, nobile, proprio, e un genere di
poesia che si può dire originale, avendo molte tinte che non si vedono
in quello di Dante, sempre più feroce, e quanto allo stile, di raro così
molle e pieghevole e armonioso e disinvolto e grazioso e anche deli-
cato ecc. ecc., la sicurezza e franchezza del tocco sia quanto all'espres-
sione sia quanto al concetto, alle immagini, ecc.
Pochi mesi dopo, il giudizio diventa risolutamente se-
vero: si era suppergiìi al tempo della pubblicazione delle
due Canzoni (I, 131).
Nel Monti è pregiabilissima e si può dire originale e sua propria
la volubilità, armonia, mollezza, cedevolezza, eleganza, dignità gra-
ziosa o dignitosa grazia del verso; e tutte queste proprietà parimente
nelle immagini, alle quali aggiungete scelta felice, evidenza, scolpi-
tezza ecc. E dico tutte, giacché anche le sue immagini hanno un certo
che di volubile, molle, pieghevole, facile ecc. Ma tutto quello che spetta
all'anima, al fuoco, all'affetto, all'impeto vero e profondo, sia sublime,
sia massimamente tenero, gli manca affatto. Egli è un poeta veramente
dell'orecchio e dell'immaginazione, del cuore in nessun raodo: e ogni
* 11 Bertana sostiene anzi che un vero entusiasmo pel Monti il
Leopardi non l'abbia mai avuto. Credo pretenda troppo. Cfr. La mente
di G. L. in alcuni suoi Pensieri ecc., Torino 1903.
300 ILLUSTRAZIONI
volta che, o per iscelta come nel Bardo, o per necessità ed incidenza
come nella Basvilliana, è portato ad esprimer cose affettuose, è così
manifesta la freddezza nel suo cuore, che non vale pimto a celarla
l'elaboratezza del suo stile e della sua composizione: anche nei luoghi
ch'io dico, nei quali pure egli va bene spesso, anzi per l'ordinario, con
ributtante freddezza e aridità, in traccia di luoghi di classici greci e
latini, di espressioni, di concetti, di movimenti classici, per esprimerli
elegantemente; lasciando con ciò freddissimo l'uditore, che non trova
ancor quivi se non quella cultura (la quale ìn questi casi più quasi
nuoce di quello giovi) che trova per tutto il resto della composizione,
sparso anch'esso di traduzioni di pezzi de' classici. Giacché questo è
il costume del Monti e nella Basvilliana e per tutto, di tradurre (otti-
mamente bensì, ma quasi formalmente tradurre) frequenti luoghi,
modi, frasi, pensieri, immagini, similitudini, metafore ecc. d'autori
classici: e la Musogonia segnatamente si può dire che sia un vero cen-
tone di pezzi (nota bene) di Omero, Esiodo, Callimaco, Virgilio, Orazio,
Ovidio, i cui nomi, con forse quello di qualcun altro antico o italiano
classico, se se le scrivessero in margine a modo delle Catenae j)atruvi,
non credo che ci sarebbe, non dico pagina, ma appena stanza che non
fosse compresa sotto quei nomi, di maniera che io non mi fiderei di
trovare in tutto il canto una diecina di ottave intieramente originali.
Lascio poi che il poemetto non ha nessun fine soddisfacente, non è se
non stiracchiatamentc adattato alle circostanze d'allora, e un centone
«li pezzi antichi per cantare quello che cantarono quegli stessi antichi
è una cosa ben miserabile.
Sulla fine del febbraio '21, ciiliiiiua in questa rigorosa
sentenza una serie di sue perspicue osservazioni critiche
(li, 139):
Dal Trecento in poi lo stil poetico italiano non è stato richiamato
agli antichi esemplari, massime latini, né ridotto a una forma perfetta
e finita, prima del Parini e del Monti... Parlo però dello stile poetico,
perché nel resto, se si eccettuano quanto agli affetti il Metastasi© e
l'Alfieri (il quale però fu piuttosto filosofo che poeta), quanto ad al-
cune (e di rado nuove) inmiagini il Parini e il Monti (i quali sono piut-
tosto letterati di finissimo giudizio che poeti), l'Italia dal Cinquecento
in poi non solo non ha guadagnato in poesia, ma ha avuto solamente
versi senza poesia. Anzi la vera poetica facoltà creatrice, sia quella
del cuore o quella della immaginativa, si può dire che dal Cinquecento
in qua non si sia più veduta in Italia, e che un uomo degno del nome
fli poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in Italia dopo il Tasso.
Nei primi giorni del marzo, annotava (II, 152):
I poeti, oratori, storici, scrittori insomma di bella letteratura, og-
gidì in Italia non manifestano mai, si può dire, la menoma forza d'a-
nimo {cires animi, e non intendo dire la magnanimità), ancorché il
LE DUE PRIME CANZONI 301
soggetto o l'occasione ecc. contenga grandissima forza, sia per sé stesso
fortissimo, abbia gran vita, grande sprone. Ma tutte le opere letterarie
italiane d'oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza calore,
senza vita (se non altrui). Il più che si possa trovar di vita in qual-
cuno, come in qualche poeta, è un poco d'immaginazione. Tale è il
pregio del Monti.
Altro che il « cuor di Dante » del Manzoni ! Nel set-
tembre del '23, istituisce un confronto tra Monti e Byron,
che si risolve tutto a scàpito del primo (V, 411).
Nel nostro Monti tutto è immaginazione, e nulla parte ha il sen-
timento, come n'ha grandissima nel più delle poesie di lord Byron
(se però quel di lord Byron è ben significato col nome di sentimento).
Certo è che il Monti, benché d'immaginazione senza alcun confronto
inferiore a quella di lord Byron, e benché non abbia di poetico che
l'immaginazione (sì nelle cose, sì nello stile), si lascia leggere non senza
piacere, né senza effetto poetico, e l'immaginoso in lui comparisce
molto più spontaneo e men comandato che in lord Byron. Ed é forse
al contrario, perchè lord Byron é veramente un uomo di caldissima
fantasia naturale, e Monti, qual ch'egli sia per sé stesso, nelle sue com-
posizioni non é che un buono e valente traduttore di Omero, Virgilio,
Orazio, Ovidio ed altri poeti antichi, e imitatore, anzi spesso copista,
di Dante, Ariosto e degli altri nostri classici. Sicché lord Byron tira
le immagini dal suo fondo, e Monti dall'altrui. E se nell'uno ha del-
l'impoetico lo sforzo che nel suo poetare apparisce, nell'altro é vera-
mente impoetico l'imitare e il copiare, che però nella sua stessa poesia
intrinsecamente non si lascia scorgere. Ond'è che le poesie di lord
Byron sieno meno poetiche, considerate in sé stesse, che quelle di
Monti. Mentre però questi é infinitamente meno poeta di quello. E
si conchiude che le poesie dell'uno sieno impoetiche, e che l'altro non
sia poeta. E l'effetto poetico delle poesie di Monti spetta più agli an-
tichi che a hii, ed è piuttosto come di poesia e d'immagmazione an-
tica, che di moderna. Nel sentimento poi la vena del Monti è al tutto
secca, e provandocisi, il che egli fa ben di rado, non ci riesce punto,
come nel Bardo.
Codeste meditazioni resero sempre più freddo il giovane
poeta, fino a che, nell'estate del '25, non venne a Milano e
vi avvicinò il olenti. 11 cugino Francesco Cassi, il Pò-
poli, il Costa, il Papadòpoli lo avevano incaricato dei loro
saluti; e il Leopardi si fece premura di visitarlo. N'ebbe
un'affettuosa accoglienza, ma non pare si lasciasse tentare
a tornarvi una seconda volta. Sulle rovine della simpatia
per l'artista non germogliò la simpatia per l'uomo. « Mi
302 ILLUSTRAZIONI
ha trattato molto benignamente », scrive il 6 agosto al
Papadopoli, «. e mi lia dato licenza di vederlo spesso »>,
Tuttavia il 17 settembre soggiunge al Cassi:
Appena arrivato, vidi Monti, il quale nii domandò snbito di voi e del vo-
stro Lucano.... Da quella volta in qua non l'ho mai veduto, ecredochenon
lo vedrò, perchè in quella prima visita volli propriamente sputar sangue
per parlargli in modo che egli mi potesse intendere; e in verità non ho
forza di petto che basti per conversare con lui neanche un quarto d'ora.
Eccetto questa sordità spaventosa, che me lo rende inutile, mi parve
che stesse bene.
Fortunatamente il Monti era andato a passare quel resto
dell'estate a Como; e così la poca premura del Recanatese
parve giustificata. In verità da entrambe le parti sembra
non si facesse nulla perchè la relazione non cessasse ap-
pena nata. Forse il vecchio rimatore non comprese, o
comprese troppo, il grande poeta sorgente. Il nome del Monti
non ricorre che raramente oramai, e di mala voglia, nelle
lettere di Giacomo. Quando, per dirne una, nei primi del-
l'aprile 1826, lo Stella s'affrettò a informarlo che l'illustre
vegliardo era stato colpito da emiplegia, e gli narrò che la
vecchia cameriera, por lo spavento e l'angoscia, n'era morta
di sincope, il Leopardi si contentò di replicare : « Mi sono
molto dolute le nuove di Monti. L'Italia si va spogliando
affatto de' suoi migliori ingegni. Oramai restiamo vera-
mente al buio ». E non ne chiese altro. Avendogli il 3 mag-
gio lo Stella dato notizie migliori, egli, il 17, rispose: «La
ringrazio assai delle nuove che Ella mi dà di Monti, le quali
mi saranno sempre carissime, perchè qui ognuno me ne
domanda ». Poi, da una lettera alla Paolina del 12 luglio,
apprendiamo che nell'andare a Bologna e a Milano egli
aveva portate con sé « le poesie varie del Monti ». Da una
a Luca Mazzanti, governatore di Recanati, del 9 settembre:
« Qui [a Bologna] si sta preparando un'edizione completa
delle opere di Monti, il quale Ella saprà che per questa volta
è scampato dal pericolo prossimo che lo minacciava ». Con
un'altra, del 20 settembre, prega il fratello di mandargli
la Mascheroniana che già fece «venir da Roma»: era da
ristampare « colle altre opere di Monti ». Da Recanati,
LE DUE PRIME CANZONI 303
più tardi, spedisce al Briglienti la BasviìUcuia, edizione ma-
ceratese. E finalmente, il 7 marzo 1827, ringrazia questi
« dei volumi del Monti », mandatigli « come puro e grazioso
dono ». Da Firenze, inoltre, il 3 luglio, dà consigli all'edi-
tore bolognese circa la ristampa della Proposta, della quale
biasima la e molta confusione » ^. Qualcosa di meglio è in
una lettera del 23 novembre, da Pisa, allo Stella. Il quale
lo aveva informato d'essere stato a visitare il Monti; «e
dopo d'avergli parlato di molte persone di merito che ho
veduto nel mio viaggio », diceva, « non si fermò che sopra
di Lei, e nel congedarmi da lui m'incaricò di salutarla in
un modo che esprimeva grande stima ed amore per Lei ».
Al che Giacomo: «Le sono molto grato della notizia che
Ella mi dà intorno al Monti, al quale ho giudicato bone
di scrivere per ringraziarlo direttamente dei saluti favo-
ritimi per di Lei mézzo ».
Sul carattere morale del Monti c'è, in una lettera a
^Monaldo del 28 maggio 1832, un giudizio, che per esser
dato di sbieco non è però meno bieco. Xel dicembre del-
l'anno avanti, erano stati pubblicati a Pesaro, anonimi
(o meglio, a mo' dell'Apocalissi, contrassegnati con la
cifra arabica 1150, corrispondente alla romana M. C. L.),
i Diaìoghetti sulle materie correnti nelVanno 1831: una delle
opere di Monaldo piti pugnaci e risolutamente inneggianti
alla reazione e all'oscurantismo -. Ebbero un successo di
scandalo: in tre mesi se ne fecero, in Italia, sette edizioni; e
furon subito tradotti in tedesco, in olandese, in francese.
Pare che alle diverse polizie italiane non spiacesse l'equivoco
generato dalla voce che autore del libro fosse il Leopardi:
il famoso, naturalmente ! Il quale, reputando invece quel
libercolo e infame, infamissimo, scelleratissimo », e quei
« dialogucci sozzi e fanatici » '^ diresse SiìV Antologia di Fi-
* Colgo a volo roccasione per se£?nalare la bella ^Memoria di
F. CoLAGROSSO, La teoria leopardiana della lingua, Napoli 1905; e
l'accurato Studio di O. Sica, Sfogliando lo Zibaldone, Salerno 1905.
* Ne possiedo una ristampa con le Aggiunte fatte « alla sesta edi-
zione ». Non v'è indicato né l'anno né la città; ma in calce a Una let-
tera di Pulcinella, messa per ultimo, é segnato: 19 febbraio 1832.
* Lettera al cugino Melchiorri, 15 maggio 1832.
304 ILLUSTRAZIONI
renze e al Diario di Roma, e ad altri giornali d'Italia e di
Francia, una sna letterina molto » secca », per dicliiarare
e protestare che autore del libro non era lui ^. « Io non ne
posso più, propriamente non ne posso più», dichiarava
da Firenze al cugino Melchiorri che era a Roma ; « non voglio
più comparire con quella macchia sul viso». E intanto
n'avvertiva l'autor vero, il padre.
. . . A Roma due terzi del pubblico lo credevano mio... In Toscatia
poi tutti quelli che lo credevano di Leopardi..., lo credevano mio.
A Lucca il libro correva sotto il mio nome. Si dice che esli abbia
operato ?randi conversioni per mezzo di questa credenza: cosi al-
meno mi hanno detto molti; e il duca di ISEodena, che prolmbilmente
sa la verità della cosa, nondimeno dice pubblicamente che l'autore
son io, che ho cambiato opinioni, che mi sono convertito, che così fece
il Monti, che cosi fanno i bravi uomini. E dappertutto si parla di questa
mia che alcuni chiamano conversione, ed altri apostasia ecc. ecc....
Io non voglio né debbo soffrire di passare per convertito, nò di essere
assomigliato al Monti....
III.
Alcune chiose alla canzone « AÌVItalia ». — TJn sonetto di
A. Marchetti. — Giudizi del Leopardi sul Testi, sul Chia-
hrera, sul Guidi, sul Filicaia. — I a Paralipomeni » e Vine-
stinto sentimento Alfieriano. — La « Francesca » del Pel-
lico. — Le Termopile. — I frammenti di Simonide.
Quando il Leopardi compose la prima delle sue can-
zoni patriottiche, egli aveva nell'animo e nell'orecchio il
rombo e della terribile invettiva dantesca {Ahi serva Ita-
lia...), e della canzone Italia mia, ch'ei non si stancava d'am-
mirare come la più dolce, eloquente, perfetta tra quelle
del Petrarca-; e anche di quelle dei nuovi poeti pindarici
' Cfr. Epist. II, 474 e 488; Senili letteraH, II, .389-90.
• Scrive: « Dall'influsso che ha il cuore nella poesia del Petrarca
viene- la mollezza e quasi untuosità come d'olio soavissimo delle sue
canzoni (anche nominatamente quelle sull'Italia), e che le lodi deerli
altri, appetto alle sue, paiano asciutte e dure e aride, non mancando
a lui la sublimità degli altri e di più avendo quella morbidezza e pa-
stosità che è cagionata dal cuore». E più avanti: «Chi ini chiedesse
LE DUE PRIME CANZONI 305
italiani. (']ii non ricorda il bel sonetto del Filicaia: Italia,
Italia, o tu cui feo la sorte Dono infelice di bellezza, oncVhai
Funesta dote d^infiniti guai...'ì E anche il Tasso, il suo
Tasso, ha due canzoni che incominciano, Tuna: Italia
mia, che le j^itf estranie genti, Taltra: Italia mia, che VAp-
penniìi disgiunge. Ma pur trova modo di cominciar la sua,
pili tenera e appassionata, con una invocazione piìi intima
e aH'ettuosa: O pcdria mia. Forse il Parini potè suggerirgli
quelle colonne e quegli archi « Ove sedeano i secoli canuti » ^;
e non par dubbio che colori ed immagini gli fornisse que-
sto caldo e nobile sonetto di Alessandro Marchetti, il dotto
traduttore di Lucrezio:
Italia, Italia; ah non più Italia! appena
Sei tu d'Italia un simulacro, un'ombra:
Regal donna ella fu di ijloria piena ;
Te vii servaggio ornai premo ed ingombra.
Cinte le braccia e i pie d'aspra catena.
Già d'atre nebbie e fosche nubi ingombra
L'aria appar del tuo volto alma e serena,
E i tuoi begli occhi orror di morte adombra.
Italia, Italia ; ah non più Italia ! oh quanto
Di te m'incresce! E quindi avvien ch'io volgo
Le mie già liete rime in flebil canto.
Ma quello ond'io più mi querelo e dolgo
È che de' figli tuoi crudeli intanto
Vede il tuo male e ne gioisce il volgo-.
Tuttavia il modello che, oltre il montiano, j)iù. tenne
avanti il Leopardi nelle prime due stanze, sembra fossero
le quartine del Testi: Fonchi, tu forse a pie de V Aventino;
le quali gli forniron poi anche qualche concetto e qualche
qual sia secondo me il più eloquente pezzo italiano, direi le due caia-
zoni del Petrarca Spirto (jentil ecc. e Italia mia ecc. ». Cfr. Zibald. I,
108-9, 110, 120; II, 32-3; e la lettera al Giordani del 19 febbraio 1819.
* Mezzogiorno, v. 658-9. — Per il Parini, cfr. lo Zibaldone, I, 77,
80, 87, 389; II, 139-40; IV, 195; V, 376: l'Epistolario, I, 55 e 171:
e il dialogo Della gloria, tra le Operette inorali.
' Rime degli Arcadi, V, p. 85. Il Marchetti era nato a Pontorme
presso Empoli nel 1633, e vi morì nel 1714, Insegnò Logica, poi Filo-
sofia, da ultimo Matematica nell'L^niversità di Pisa. Cfr. Notizie isfo-
riche degli Arcadi morti, Ptoma 1721, III, p. 280 ss.
20. — G. Leopardi.
306 ILLUSTRAZIONI
moveuza per rode A lui vincitore nel pallone e più tardi
per La ginestra.
Itì tra l'erbe
Cercando i grandi avanzi e le superbe
Reliquie vai dello splendor Latino.
E fra sdegno e pietà, mentre che miri
Ove un tempo s'alzar templi e teatri
Or armenti muggir, strider aratri.
Dal profondo del cor teco sospiri.
Ma de l'antica Roma incenerite
Ch'or sian le moli a l'età ria s'ascriva:
Nostra colpa ben è ch'oggi non viva
Chi de l'antica Roma i figli imi te.
• Ben molt'archi e colonne in più. d'un segno
Serban del valor prisco alta memoria.
Ma non si vede già per propria gloria
Chi d'archi o di colonne ora sia degno.
Italia, i tuoi sì generosi spirti
Con dolce inganno ozio e lascivia han spenti:
E non t'avvedi, misera, e non senti
Che i lauri tuoi degenerare in mirti ?
Or di tante grandezze appena resta
Viva la rimembranza ; e mentre insulta
Al valor morto, alla vii'tù sepulta.
Te barbaro rigor preme e calpesta.
Ronchi, se dal letargo in cui si giace
Non si scuote l'Italia, aspetti un giorno
(Cosi menta mia lingua!) al Tebro intorno
Accampato veder il Perso o '1 Trace.
TI qual Testi fu dal Leopardi tenuto in conto d'uno dei
principalissimi lirici nostri. Sulla fine del '18, annotava
(Zib. I, 109):
Il Testi ha dicitura competentemente poetica ed elegante, non
manca d'immagini, ha anche qualche iinmaginetta graziosa ha
sufficiente grandiosità ed anche qualche eloquenza; le sentenze non
sono mal collocate nò esposte, quantunque non nuove; riesce anclie
benino assai nelle canzoni filosofiche all'oraziana, imita spesso e qualche
volta quasi traduce Orazio; ma non ha l'animatezza, la scolpitezza
e la concisa nervosità e muscolosità ed energia e lo spirito del suo stile,
ne molta originalità e novità, nò proprio proprio sublimità di concetti
e d'invenzioni. :Ma tutti i pregi che ho detto, salvo solamente la gran-
diosità e l'eloquenza, risplendono massimamente nelle canzoni della
prima parte, che sono per la più parte filosofiche e oraziane, dove lo
LE DUE PRIME CANZONI 30'
stile è castigato e non manca leggiadria di maniere e di concetti; perchè
nelle altre parti, quantunque s'innalzi maggiormente e metta fuori
piti forza e facondia e più energiche immagini e insomma sia più pin-
darico, è difficile trovar canzone che non sia malamente e sporcamente
e visibilmente e tenacemente imbrattata della pece del suo secolo;
che nella prima parte appena appena si scorge qua e là come mac-
chiuzze, e forse qualche canzone n'è libera affatto e può parere d'un
altro secolo. Inoltre la dicitura diventa meno elegante e pulita, e spesso
le voci e le locuzioni, le metafore, i traslati sono prosaici. Insomma
si vede molto il febbricitante e il mal lavorato e mal limato del Sei-
cento.
Ma ciò a considerarlo indii>enclentemente ; cliè, a con-
frontarlo col Guidi 0 col Filicaia, ei giganteggia (I, 118).
Dei quattro lirici.... pindarici e alcaici e simonidei ed oraziani....,
io do il primo luogo al Chiabrera, il secondo al Testi; de' quali, se aves-
sero avuto più studio e più fino gusto, e giudizio più squisito, quegli
avrebbe potuto essere effettivamente il Pindaro, e questi effettiva-
mente l'Orazio italiano. Tra il Filicaia e il Guidi non so a chi dare la
preferenza; mi basta che sieno gli ultimi e a gran distanza dagli altri
due, mentre, secondo me, quando anche fossero stati in tempi migliori,
non aveano elementi di lirici più che mediocri, anzi forse non si sa-
rebbero levati a quella fama ch'ebbero e in parte hanno.
Anzi nemmeno il Chiabrera conserverà a lungo una tal
preminenza su lui. 11 19 febbraio '19, il Leopardi scrive
al Giordani:
Quanto alla lirica, io dopo essermi annoiato parecchi giorni colla
lettura de' nostri lirici più famosi, mi sono certificato coll'esperienza
di quello che parve al Parini e pare a voi..., e credo che oramai sia di-
venuta sentenza comune, se non altro, degli intelligenti, che anche
questo genere capitalissimo di componimento abbia tuttavia da nascere
in Italia, e convenga crearlo. Ma fra i quattro principali, che sono il
Chiabrera, il Testi, il Filicaia, il Guidi, io metto questi due molto ma
molto sotto i due primi; e nommatamente del Guidi mi maraviglio
come abbia potuto venire in tanta fama che anche presentemente si
ristampi con diligenza e più volte. E perchè il Chiabrera con molti
bellissimi pezzi non ha solamente un'ode che si possa lodare per ogni
parte, anzi in gran parte non vada biasimata, perciò non dubito di dar
la palma al Testi; il quale giudico che se fosse venuto in età meno bar-
bara e avesse avuto agio di coltivare l'ingegno suo più che non fece,
sarebbe stato senza controversia il nostro Orazio, e forse più caldo e
veemente e sublime del latino ^
* Cfr. F. Bautoli, Testi e Leopardi, nella a Rassegna Nazionale »
del 1" nov. 1900 ; e Ada Crf.svi, A . &uidi e la Canzone libera leopardiana,
nella « Rivista d'Italia " del sett. 1913.
308 ILLUSTRAZIONI
Inoltre, il principio della canzone pare ab])ia qualche
affinità con le Epistole XII e XIII dell' Algarotti (i cui
Saggi sono spesso ricordati nello Zibaldone, e una volta
se ne biasima il cattivo italiano), dov'è detto:
Oimè qual sei da quel di pria difforme,
Italia mia ! che neghittosa e quasi
Te non tocchi il tuo mal, nell'ozio dormi
Fra i secchi lauri tuoi serva e divisa !
Oh sieno ancora, Italia mia, le belle
E disperse tue membra in uno accolte,
Xè l'itala virtù sia cosa antica f
L'Italia che piange (v. 17) ricorda la Gerusalemme di
Geremia {Thr. I, 2): Florans ploravit in nocte, et ìacrimae
eius in maxillis eius; e il Pm?igfi... (v. 18), il Deduc quasi
torrente-m lacrimas per diem et noclem (li, 18). — Il Chi di
te parìa... (v. 25), il Plaiiserunt super te ìuanihus omnes
transeuntes per viam, sibiìaverunt et moverunt caput suum
super filiam Jerusalem, Haeccine est urhs, dicentes, perfecti
decoris, gaudium universae terraef (II, 15).
Le genti a vincer.... (v. 19) trova la sua spiegazione e il
complemento nei Paralipomeni (I, 26-30):
Tant'odio il petto agli stranieri incende
Del nome italian, che di quel danno
Onde nessuna gloria in lor discende,
Sol perchè nostro fu, lieti si fanno. ,
Molte genti provar dure vicende,
E prave diventar per lungo affanno;
Ma nessuna ad esempio esser dimostra
Di tant'odio potrìa come la nostra.
E questo avvien perchè quantunque doma.
Serva, lacera segga in isventura.
Ancor per forza italian si noma
Quanto ha più grande la mortai natura * ;
' Onde il Carducci, NélVannuale della fondazione di Roma:
Questa del Fòro tua solitudine
Ogni rumore vince, ogni gloria;
E tutto che al mondo è civile,
Grande, augusto, egli è romano ancora.
Cfr. M. ScnERlLLO, La patria conquistata, ricordi e mòniti, nella
€ Nuova Antologia » del 1° marzo 1919.
LE DUE PRIME CANZONI 309
Ancor la srloria dell'eterna Roma
Risplende sì che tutte l'altre oscura;
E la stampa d'Italia, invan superba
Con noi l'Europa, in ogni parte serba.
Né Roma pur, ma col mental suo lume
Italia inerme, e con la sua dottrina,
Vinse poi la barbarie, e in bel costume
Un'altra volta ritornò regina;
E del goffo stranier, ch'oggi presume
Lei dispregiar, come la sorte inclina,
Rise gran tempo, ed infelici esigli
L'altre sedi parer vide a' suoi figli.
Senton gli estrani ogni memoria un nulla
Esser a quella ond'è l'Italia erede;
Sentono ogni lor patria esser fanciulla
Verso colei ch'ogni grandezza eccede;
E veggon ben che se strozzate in culla
Non fosser quante doti il ciel concede,
Se fosse Italia ancor per poco sciolta.
Regina tornerìa la terza volta.
Indi l'odio implacato, indi la rabbia,
E l'ironico riso ond'altri offende
Lei che fra ceppi, assisa in su la sabbia,
Con lingua né con man più si difende.
E chi maggior pietà mostra che n'abbia,
E di speme fra noi gl'ignavi accende.
Prima il Giudeo tornar vorrebbe in vita
Che all'italico onor prestare aita.
Sentimenti codesti fieramente alfieriani. Nella eloquente
EsoHazione a liberar Vltalia dai Barhari, ultimo cap. del
Principe e le lettere, l'Allobrogo feroce aveva scritto: '.«Co
desta ponisoletta... è pur quella in fine, che stanca, vecchia
battuta, avvilita, e di tutte l'altre superiorità dispogliata
tante altre nazioni ancor governava, e atterriva per tanti
anni, colla sola astuzia ed ingegno tributarie rendendole »
E nel bel sonetto: Italia, o tu che nulla in te comprendi D
grande ornai che Vaurea tua favella, aveva detto di sé me
desimo: « Verrà quel di ch'io '1 duro fallo ammendi D'esser
libero figlio a madre ancella? ». Onde il Leopardi (v. 24)
«Che fosti donna, or sei povera ancella»; benché l'uno e
l'altro poeta possano aver avuto nell'orecchio il biblico
{Mach. 1, II, 11): « Quae erat libera, lacta est anelila».
Perchè, perchèf... (v. 28) è di quei movimenti lirici che
310 ILLUSTRAZIONI
nmontano bensì anch'essi al Petrarca (cfr. la canzone
O aspettata in del..., molto ammirata dal Leopardi: Zib.
I, 108-9; Epist. 1, 175); ma di cui assai abusò il Filicaia:
« Dov'è, dov'è, gran Dio, rantico vanto ? », « Dov'è, Italia,
il tuo braccio? e a che ti servi Tu dell'altrui? ».
Del Filicaia il Leopardi cosi giudicava in quel mede-
simo torno di tempo (Zib. I, 110, e cfr. 115):
Il Filicaia va dietro al sublime e anche l'arriva, ma parlando sempre
di cose della nostra religione, ha tolto a imitare quel sommo sublime
della Scrittura, e per questo sommo sublime si fa pregiare; che del
resto, quando o non lo cerca o non lo arriva, non ha quasi cosa ch'esca
gran fatto dall'ordinario, non ha punto di leggiadria mai, non ha in
nessun modo la varietà del Testi ecc. Ma, anche dove ha quel sommo
sublime di stile simile allo scritturale e profetico, non è molto piacevole,
per cagione della monotonia delle sue canzoni, e perchè le impressioni
di quel sommo sublime essendo troppo veementi, non possono durar
gran tempo e si spengono e il lettore ci si assuefa, sì che con quella
monotonia viene a rendersi il sublime inefficace, e le odi stucchevolucce.
Dov'è la Jorza aniicaf... (v. 28) ricorda un passo del
Bettinelli (m. 1808), nel Poemetto decimo («Versi sciolti di
tre eccellenti moderni autori», Lucca 1811, p. 290):
O Italia mia, gridai,
O Italia, o de le genti e dei tesori
Già sede e centro, ov'è tua gloria antica?
L'armi, qua Vanni (v. 37) ha un notevole riscontro e
con due luoghi della Merope alfieriana (IV, 3):
Merope. .... A me quel ferro; io stessa...
Io sì, svenarlo or di mia mano...
Egisto. .... Deh mi si sciolga il braccio;
Un brando, un brando a me si porga: ai colpi
Riconoscer farommi ;
e colla famosa anacronistica uscita di Paolo nolìa Francesca
(la KÌTìiini del Pellico (I, 5):
Per chi di stragi si macchiò il mio brando ?
Per lo straniero ! E non ho patria forse
Cui sacro sia de' cittadini il sangue ?
Per te, per te che cittadini hai prodi,
Italia mia, combatterò se oltraggio
LE DUE PRIME CANZONI 311
Ti moverà la invidia. E il più gentile
Terren non sei di quanti scalda il sole ?
D'ogni bell'arte non sei madre, o Italia ?
Polve d'eroi non è la polve tua?... ^
Neil' Odo SUOR d'arvii... (v. 41) par di risentire un'eco
del canto di David, nel Saul (III, 4):
Traballa il suolo al calpestio tonante
D'armi e destrieri:
La terra e l'onda e il cielo è rimbombante
D'urli guerrieri.
Saul si appressa in sua terribil possa;
Carri, fanti, destrier sossopra ei mesce.
Oh misero colui... (v. 54) ricorda, per contrapposto, il
grido dei Greci nei Persiani di Eschilo; donde il Leopardi
derivò anclie i colori per ]a rappresentazione della strage
dei Persi, del suolo coperto di cadaveri, e del tiranno fug-
gente.
Ite, o di Grecia prodi:
Liberate la patria, liberate
I figli, le consorti, i sacri templi,
E le tombe de' padri -.
ìseìVAÌma terra natia... (v. 59) il poeta rimaneggia quel
elle del buon cittadino aveva sentenziato il Metastasio,
neìV Attilio Begolo (11, 1):
Quando i sudori e il sangue
Sparge per lei, nulla del proprio ei dona;
Rende sol ciò che n'ebbe. Essa il produsse,
L'educò, lo nutrì....
O tessaliche strette.... (v. 65). A codesto fatto glorioso
tornava spesso la mente del poeta e pensatore. Xei primi
giorni del 1819, annotava (Zib. I, 146):
' La Francesca fu rappresentata la prima volta in Milano la sera
del 18 agosto 1815; fu stampata nei primissimi mesi del 1818; e
nello Spettatore di Milano, che il Leopardi leggeva, ne fu fatto un
vivo encomio, riferendone lunghi brani (1818, X, p. 2 9 ss.).
" Versione del Belletti; Firenze, Barbèra, 1882, p. 160.
312 ILLUSTRAZIONI
La costanza dei trecento alle Termopile, e in particolare di quei
due che Leonida voleva salvare e non consentirono ma vollero evi-
dentemente morire, come anche la solita ^ioia delle madri o padri
spartani (ma è più notabile delle madri) in sentire i loro figliuoli morti
per la patria, è similissima anzi earualissima a quella dei martiri e in
particolare di quelli che, potendo fuggire il martirio, non vollero as-
solutamente, desiderandolo come gli Spartani desideravan di cuore
di morire per la patria. E un esempio recente di un martire, che, po-
tendo fuggir la morte, non volle, si può vedere nel Bartoli, Missiouc
al gran Mogol....
Ma, oliimè, aiiclie a proposito di esso trovò poi da esercitare
il suo pessimismo! Solo qualche mese piìi tardi, soggiun-
geva (T, 179-80):
Moltissime volte, anzi la più parte, si prende l'amor della gloria
per l'amor della patria. Per esempio, si attribuisce a questo la costanza
dei Greci alle Termopile, il fatto d'Attilio Regolo (se è vero) ecc. ecc.;
le quali cose furono puri effetti dell'amor della gloria, cioè dell'amor
proprio immediato ed evidente, non trasformato ecc. I! gran mobile
degli antichi popoli era la gloi;ia che si prometteva a chi si saci'ificava
per la patria, e la vergogna a chi ricusava questo sacrifizio; e però,
come i Maomettani si espongono alla morte, anzi la cercano, iH-r la
speranza del paradiso che gliene viene secondo la loro opinione, cosi
gli antichi per la speranza, anzi certezza della gloria, cei'cavano la
morte, i patimenti ecc.; ed è evidente che cosi facendo erano spinti
da amor di sé stessi e non della patria, dal vedere che alle volte cer-
cavano di morire anche senza necessità né utile, come puoi vedere nei
dettagli che dà il Barthélemy ' sulle Termopile, e da quegli Spartani
accusati dall'opinione pubblica d'aver fuggito la morte alle Termopile,
che si uccisero da sé, non per la patria, ma per la vergogna. Ed esami-
nando bene, si vedrà che l'amor puramente della patria anche presso
gli antichi era un mobile molto più raro che non si crede....
E sulla fine del giugno '28 (VII, 256):
Tanto è^vero che tra gli antichi la prima lode era quella della fe-
licità, che noi vediamo nelle Orazioni funebri, e in simili casi, gli Ora-
tori dovendo lodare, per esempio, de' soldati morti per la patria, co-
minciar dal mostrare che essi non sono stati infelici, che la loro morte
non é stata una sventura. Oggi al contrario si cercherebbe d'intenerir
* li'abate Jean Jacques Barthélemy, nel fortunatissimo suo Voyagc
da jeune Aiiacar.sis en Grece (17 88). Il Leopardi ebjje subito assai fami-
liare questo libro, che rievoca con vivaci colori la vita e la cultura e la
poesia dell'antica Grecia; e ne derivò forse ispirazione così pel suo
episodio simonidéo come pel canto di Saffo.
LE DUE PRIME CANZONI 313
gli uditori sopra il loro caso: il muover la compassione in tali circo-
stanze era cosa al tutto ignota, era un vero controsenso presso gli
antichi. Le loro Orazioni funebri sono tutte consolatorie.
E ancora duo mesi dopo (VII. 295):
Xè credo io ancora che Milziade a Maratona, né che i l^recento
alle Termopile, aspirassero alla immortalità del nome, come poi, di-
vulgato l'uso delle storie e de' libri, vi aspirarono Filippo ed Ales-
sandro.
Il fraiuineuto di Simonide, riferito da Diodoro Siculo
(XI, 2; Bergk. 11. 4), suoiia così nella versione del Gior-
dani :
De' morti alle Termopile gloriosa è la fortuna, bello il fine, altare
la tomba, lode la sventura. La funeral vesta di que' valorosi non sarà
consumata né discolorata dal tempo che vince ogni' cosa. La loro se-
poltura contiene la gloria degli abitanti di Grecia. N'è testimonio
Leonida re di Sparta, che lasciò gran bellezza di virtù e fama perenne.
E la seconda parte d"un altro frammento (Bergk, n. 96):
.... Xè moriste morendo, da poi che la virtù voi trlorifìcando ri-
trasse dall'ostello di Hades '.
L'epitaffio simonidèo, che già Erodoto (VII, 228) aveva
avuto cura di trascrivere, è tale nella versione di Cicerone-:
Die, hosijes, Spaiiae ìios ie liic vidisse iacentes,
Dum sancfis fatriae ìegihus ohsequimur.
L'ultimo voto del poeta, Così la vereconda... (v. 137),
riecheggia la cMusa della prima delle OliinpicJie di Pin-
daro: « Così possa tu, o poeta, trapassare sublime di gloria,
e ti sia dato di viver sempre nella memoria de' Greci quanto
la fama de' vincitori ».
^ È curioso rilevare che di questo concetto già si era giovato il Leo-
pardi adolescente, in un epigramma 7/i morte di Catone. Che dice:
Dopo di ruille generose imprese
Diessi Caton la morte, ed in tal modo
Vivo per sempre il suo morir lo rese.
- Tusculan. 1. I, e. 42. Per il testo greco, v. Bergk, n. 92.
314 ILLUSTRAZIONI
IV.
Alcune chiose alla canzone « Sopra il monumento di Dante ».
— Il Leopardi a Eavenna. — La giovanile orazione
(( AgV Italiani ». - — Giacomo misogallo.
La seconda Canzone, osserva il De Sanctis ^, « è quasi
lo sviluppo e il compimento della prima. La rappresenta-
zione d'Italia, rimasta lì come strozzata all'apparire del
mondo greco, qui si ripiglia e si continua, tolta occasione
dal monumento che in Firenze si preparava a Dante. La
ritirata di Mosca, lì appena accennata, qui diviene la parte
principale anzi il corpo della poesia, che non è altro in fondo
se non lo spettacolo che offriva di se l'Italia sotto la do-
minazione francese ».
Del monumento a Dante il manifesto era uscito il 18
luglio 1818 2. I vei^i D'aria e d'ingegno... (18 ss.) dicon bel-
lamente quel che già proclamava la prosa del manifesto:
È presso a compiersi il quinto secolo da che fu Dante; e lo stra-
niero, che a noi si reca, tutto compreso da venerazione pe' rari uo-
mini che in ogni tempo hajino illustrato la Toscana, cerca ansioso il
monumento di questo, che sopra tutti gli altri vola com'aquila ; e non
trovatolo, ne fa altissime maraviglie, e ci rampogna.
Perchè le nostre genti Pace... (v. 1 ss.). V'è evidente
allusione a tutti coloro che, in versi e in prosa, sospiravano
e auguravano la pace; e più specialmente al Monti. 11
quale, « negli ultimi suoi anni, durante quella gran miseria
di tempi, egli, il poeta dei sublimi scotimenti francesi e
delle battaglie che mutavano faccia al mondo, inneggiava
alla pace, con cuore oh quanto diverso dall'antico I... Per
(juanto sospirata e dolce, quella pace non bastava alla
salute della patria; occorreva invece che questa si rivolgesse
' Saggi critici. III, 133.
* L'esecuzione dell'opera d'arte fu affidata allo scultore Stefano
Ricci; ed essa fu poi collocata in Santa Croce, e inauguratavi il 21 marzo
1830. Cfr. MissiRiNi, Delle memorie di Dante in Firenze, Firenze 1830;
e Del Luxoo, DelVesilio di Dante, Firenze 1881, p. 23-4, 189 ss.
LE DUE PRIME CANZONI 316
ai medesimi esempi degli avi, onde un tempo l'era venuta
tanta grandezza. Così, contradicendo all'opinione di quanti
aderivano ai nuovi governi della restaurazione, il nostro
poeta ripigliava le antiche e più nobili ispirazioni del Monti
stesso. Ne ripigliava quegli ardori guerreschi e quei con-
cetti essenzialmente ghibellini, onde il vecchio poeta, in
tempi migliori, aveva inneggiato alle antiche memorie e
alle nuove speranze » ^. — Il Perchè onde comincia ricorda
i] principio della canz. Alla Primavera.
Il meonio cantar (v. 22) è un'espressione oraziana e
ovidiana ^, che già aveva fatta sua il Monti, nei bellissimi
sciolti Alla marchesa Anna Malaspina (v. 121-2: « né Maron
lo vinse Né il meonio cantor )>). E qui é pure quell'accenno
a Dante, che non rimase senza effetti né sulla poesia del
Leopardi, né su quelle del Foscolo e del Manzoni (v. 26 ss.).
Del gran padre Alìghier ti risovvenga;
Quando, ramingo dalla patria e caldo
D'ira e di bile ghibellina il petto.
Per l'itale vagò guaste contrade
Fuggendo il vincitór guelfo crudele.
Simile ad uom che va di porta in porta
Accattando la vita. Il fato avverso
Stette centra il gran vate, e centra il fato
Morello Malaspina.
Il cener freddo e Vossa nude Giaccian... soWaltro suolo
(v. 24). Il Leopardi fu a Kavenna nei primi giorni del-
l'agosto 1826; ma nelle lettere che scrisse di là, chi lo im-
maginerebbe?, non fa nessun cenno del sepolcro di Dante.
In una al padre, tocca delle « antichità di Eavenna » (delle
quali pur tocca in una allo Stella), della tranquillità di
^ ZujiBiNi, Studi sul Leopardi, I, 78 e 81.
• HoRAT. Od. IV, 9, 5-6: «si priores Moeonius tenet Sedes Hmne-
rus ». 0\aD. Amor. Ili, ix, 25 : « Adiice Maeoniden, a quo, ceu fonte
perenni, Vatum Pieriis ora rigantur aquis»; Trist. I, 6, 21: « Maeo-
nium vatem»; Ars am. II, 4: « Maeonioque seni »; Ex Pont. IV, Xll,
27: «Maeonis... chartis »; e III, hi, 31: «Maeonio... Carmine »; Benied.
Am., 373: «Maeonio... pede»; Metam. Y, 268: « Maeonidas » H), le
Muse. — Anche Marziale, V, 10: «Maeoniden»; e Silio Italico, IV,
527: «Non, mihi Maeoniae redeat si gloria linguae ».
316 ILLUSTRAZIONI
quei cittadini, del cardinal Eivarola e del « canonico ferito
in sua vece r-, dei « partiti » e delle « doti » clie si trovavano
in quei paesi, buoni per ammogliar Carlo; in una alla Pao-
lina, delle trionfali accoglienze fattegli in Romagna; e in
un'altra a un amico (II, 166), dichiara che la Romagna gli è
piaciuta « infinitamente ». Vi andò per le vivissime istanze
d'un signore ravennate; e fors'anche pel desiderio d'esa
minarvi, per conto del Niebuhr, il codice d'Aristofane.
I versi (97-8) Tal miseria V accora Qual tu forse mi-
rando a te non credi, sonavano prima così: «Mostrar chi
si rincora II mal, ch'e' fia gran che, s'udendo il credi?».
Al Giordani riuscirono incomprensibili; onde il I^eopardi
{Epist. I, 172-3): « m'accorgo bene che debbono essere oscu-
rissimi quando a voi non è bastato l'animo d'intenderli....
Ecco il sen^o, cioè quello ch'io volea dire: chi si fiderà di
rappresentarvi degnamente quelle sventure, le quali non sarà
poco se udite le crederai? ... Ma o questa frase abbia dello
strano, o vero, com'io credo, il secondo verso riesca troppo
intralciato, non dubito che il luogo, siccom'è impossibile
a intendere, non vada cambiato onninamente ».
Taccio gli altri nemici.... (v. 99). Xella prima edizione,
questi versi dicevano ^:
Taccio gli altri nemici e l'altre doglie,
Ma non la Francia scellerata e nera...
Il secondo sapeva di BasvilUana per la forma, di 3Iisogallo
pel concetto; e il figlio di Monaldo v'avea trasfuso un po'
dell'odio paterno contro la terra della Rivoluzione! ^ Del
> e. Anton a-Traversi, Canti e vensioni di G. L., Città di Castello
1887, p. 246.
* Oltre alle politiche, Monaldo aveva anche qualche ragione pri-
vata per odiare i Francesi. Nel 1799, fu, a furor di popolo, eletto go-
vernatore di Recanati: s'intende ch'egli teneva per la conservazione
dello f^tatu quo. All'alba del secondo giorno del suo governo, ecco che
il fratello lo va a svegliare: «Alzatevi, ecco i Francesi! » {Autobiografia,
p. 112iss.). La testa ancor piena dei fumi del potere, Monaldo si levò
con imWto eroico; ma il fratello gli consigliò di fuggire, come avevano
gi;i fatto tutti i suoi elettori. Con la moglie e il resto della famiglia ei
corse a nascondersi in un ròccolo, nel poderctto presso alla casa, mentre
LE DUE PRIME CANZONI 317
resto, tutta codesta parto della t'auzoiio risente di qiiol-
rorazione AgVHaliani, che Giacomo diciassettenne scrisse,
tra gli ultimi giorni di maggio e i primi di giugno del 1815,
in occasione della liberazione del Piceno. Vi diceva tra l'altro:
... ci avrebbe fatti schiavi della Francia. Gran Dio! Quella na-
zione sleale che ha perduto ornai osrni diritto alla stima di Europa,
potrebbe mai tornare ad esercitare il suo tirannico imperio sopra il
più bel paese della terra ? No, Francesi. Noi meritiamo altri destini.
Una nazione sì nobile non avrà più l'onta di esservi suddita. Un mi-
lione di armati ce ne assicura. Ma l'Italia per colpa della Francia ha
già perduta una parte del suo splendore. Ambizioso e vile, quel popolo
una palla di cannone fischiava loro sul capo e un'altra strisciava sulla
casuccia del contadino. Furono, per il momento, liberati dal valore
e dal sangue freddo d'una ventina di contadini, che appiattati dietro
una siepe, fecero fuoco sui Francesi; i quali scapparono credendo che
fosse in armi tutto il paese. Ne seguì la più sbrigliata anarchia. Monaldo,
versando venti scudi, si scaricò dell'ufficio di governatore. Ma il 25
tornarono i Francesi; e il loro comandante, « giunto appena nel palazzo
del Comune, scrisse un decreto di morte » contro Monaldo, ordinando
che gli si smantellasse e incendiasse altresì la casa. Un Commissario,
cui aveva reso qualche servigio, lo avverti del pericolo, raccoman-
dandogli di tenersi molto ben celato nel suo nascondiglio, in quelle
prime ore di furia. Il guaio più grosso era che la signora Adelaide si
trovava incinta del secondo figliuolo, e non poteva quindi muoversi.
Sicché Monaldo e il fratello presero estreme risoluzioni : « tenevamo le
nostre sciabole nascoste sotto la paglia, ed eravamo in accordo, se i
Francesi rispettassero mia moglie, dar loro quanto avevamo, ma, al
primo cenno d'insulto, combattere, uccidere e morire ». Fortunata-
mente non ci fu bisogno di tanta strage: l'amico Commissario mandò
a dire che il decreto di morte era stato revocato. I Leopardi poteron
tornare in casa loro; ma mentre s'assidevano a tavola, ecco un biglietto
del cognato Antìci, che li esortava a correr subito subito ad appiat-
tarsi presso di lui. Scapparono a precipizio. Per non so quale equivoco,
s'era deciso nuovamente d'incendiar quella casa ! Come Dio volle, l'e-
quivoco potè esser chiarito. Sennonché qualche giorno dopo, una pat-
tuglia di Francesi venne ad arrestar Monaldo. Egli era reo di non aver
versato la sua quota per l'imposizione di guerra: mille scudi. Volle
tener duro; ma furon mandati venti soldati a casa, per tenervi pri-
gioniere la madre e la moglie. Le quali, spaventate, s'affrettarono a
spedir danaro e argenti, per la somma di 507 scudi, mercè i quali il
Conte fu rilasciato. Questa volta, il testardo, con una gran pam-a in
corpo, non osò rimanere più a lungo, e si rifugiò a Loreto. — Non si
può non pensare con postumo terrore che in mezzo a tanto trambusto
era sballottato, bimbo di dodici mesi, Giacomo Leopardi!
318 ILLUSTRAZIONI
sciagurato ci ha rapiti i più cari oggetti della nostra compiacenza e
del nostro innocente orgoglio: i preziosi monumenti delle arti. L'Italia
gettò un grido di lamento quando vide le sue contrade spogliarsi di
ciò che ne formava la gloria, saccheggiarsi i suoi palagi, i suoi tempii
privarsi dei loro piti vaghi ornamenti che formavano l'ammirazione
dell'Europa e che intieri secoli non valgono a rimpiazzare. Ella vide
lunghe file di carri carichi delle sue spoglie recarsi a valicare le Alpi
e ad abbellire terre straniere, mentre il Francese avido e sitibondo
chiedea nuove prede e nuova esca alla sua insaziabile ingordigia : ella
gemea frattanto sordamente e si spogliava del suo oro e dei suoi più
preziosi pegni, per ricevere in cambio delle catene. Misera Italia ! che
sono ora i tuoi tempii, oggetto una volta della invidia delle nazioni ?
che sono i tuoi edifizii e le tue vie, sì ricche un tempo di ciò che a niun
popolo era dato d'imitare ? Esse sono povere e nude, lo straniero pos-
siede le tue spoglie e ne orna le sue contrade insanguinate, i suoi tri-
bunali di proscrizione. Invano la natura ti fé madre feconda dei più
nobili artefici, invano ti rese superiore ad ogni popolo nelle arti e ti
fornì dei loro più rari prodotti...: lo straniero non potendo rapirti
gl'ingegni, ne usurpa i frutti e ti priva del modo di mostrare all'Europa
con autentiche testimonianze la tua superiorità. Italiani ! si vuol pri-
varvi di quella gloria, clie avete acquistata, da tanto tempo e che tanti
secoli vi confermarono. Non permettete che lo straniero profitti del
vostro silenzio.... Ornai ogni Francese è degno di odio, perchè niùu
Francese riconosce i delitti della sua nazione.... ^
Tuttavia siffatti vituperii misogallici, appunto perchè,
dopo il '15, eran graditi alla Santa Alleanea e al suo rap-
presentante in Recanati, riusciron ostici ai liberali italiani.
(L'Italia lil3erale non ha mai smesse, pur dopo Campo-
formio e Villafranca e Mentana e Versailles, le sue
tenerezze sentimentali per la così detta sorella latina!).
Coi quali il poeta si scusò, scrivendo il 21 aprilo 1820 al
Briglienti:
Quelli che presero in sinistro la mia canzone sul monumento di
Dante, fecero male, secondo me, perchè Le dico espressamente ch'io
non la scrissi per dispiacere a queste tali persone; ma parte per amor
del puro e semplice vero e odio delle vane parzialità e prevenzioni,
parte perchè non potendo nominar quelli che queste persone avreb-
bero voluto [oli Jiufytriaci], io metteva in iscena altri attori come per
pretesto e figui-a.
E ohimè, neirediziono fiorentina d(4 '31, a quel verso,
spuntato com'ora si legge, appose la noterella:
Scritti ìctternti di G. L., I, 370-71.
LE DUE PRIME CANZONI 319
L'autore, per quello che nei versi seguenti (scritti in sua primis-
sima gioventù) è detto in offesa degli stranieri, avrebbe rifiutata tutta
la canzone, se la volontà di alcuni amici, i quali miravano solamente
alla poesia, non l'avesse conservata.
Senuoucliè nel fondo dell'italianissimo cuore gli rimase
sempre un mal celato dispetto per quei Francesi, sulle
cui opere e storiche e critiche e fìlosofìche, aveva pur
formata tanta parte della sua cultura. Al De Siuner che,
dolente della stitica ospitalità francese, s'augurava d'esser
fra breve chiamato in Germania, egli scriveva (18 die. '32):
È pur troppo vero che il merito è stimato meno in quei tempi e
in quei luoghi nei quali è più raro. E non mi fa punto meraviglia che
la Germania, solo paese dotto oggidì, sia più giusta verso di Voi, che
la presuntuosissima, e superflcialissima, e ciarlatanissima Francia.
I due versi (101-02) Per cui presso alle soglie Vide la
patria tua V ultima sera, han dato luogo a qualche di-
scussioncella. È da intendere, col Fornaciari: «la patria
tua vide Tultima sera, cioè la morte, la rovina estrema presso
alle soglie, cioè, pronta ad entrare in lei, a opprimerla»;
o con Giovanni Negri: «l'ultima sera vide la patria tua
sul punto di varcare le tetre soglie di morte » ? ^ Questa
seconda interpretazione, cui il Carducci fece buon viso, è
stata validamente oppugnata da Michele Losacco -; il
quale propone : « per cui la tua i^atria vide al suo limitare,
alla sua entrata, cioè a brevissima distanza, la fase ultima
della propria esistenza ». Tutti han ricordato il dantesco
{Purg. I, 48) Questi non vide mai Vultima sera, dal quale il
poeta mutuò la sua immagine; ma nessuno, che io sappia,
ha richiamato il verso della canz. alla sorella Paolina (20):
« E nella sera dell'umane cose»; e nessuno ha posto mente
alla lezione che dei versi discussi danno gii autografi
recanatesi: Per cui fin presso a morte Giunse V Italia mia
distesa e nuda^. È dunque da intendere: l'Italia vide pros-
sima la sua ultima sera, imminente il suo giorno estremo.
^ Divagazioni leopardiane, Pavia 1896, voi. II, p. 52.
' Per l'interpretaz. di alcuni passi leopardiani, Trani 1896, p. 13.
' Ct'r. Nuovi documenti, p. 196.
320 ILLUSTRAZIONI
I versi (139-40) Morian per le rutene Squallide piagge,
prima sonavano: «Morian fra le rutene Orride piagge».
Al Leopardi non garbava né scrivere ne le rutene, giacché
«lo scontro delle due n riusciva duro », né su le rutene; e
chiese su ciò il parere del Giordani {Epist. I, 173-4). Le
piagge rutene sono le steppe della Russia. Nello Spettatore
di Mlano del 1814 (II, p. 105 ss.) il Leopardi aveva po-
tuto leggere una larga relazione della triste ritirata.
lu'E questo vi conforti Che conforto nessuno... (v. 164-65)
é ricalcato sul virgiliano {Aen. II, 354) Una salus victis
nullam sperare salutem, e ricorda le parole del Leo^jardi
medesimo al Giordani {Epist. I, 208): « io vo scemando ogni
giorno di vigore, e le facoltà corporali mi abbandonano a
una a una; questo mi consola perchè mi ha fatto disperare
di me stesso ».
T.
La sconcia edizione delle due Canzoni. — La censura pa-
terna. — Due canzoni rimaste inedite. — L'amore di
Giacomo pei Greci e Vodio di Moncddo. — Lj edizione
bolognese dei « Versi », 1824.
La stampa di Roma delle due Canzoni riusci brutta e
scorretta 1; e di ciò il Leopardi fu desolato. Quelle copie,
egli scrisse il 18 gennaio 1819 al Giordani,
. . . arrivate che saranno, io le consegnerò immediatamente in anima
e in corpo al pizzicagnolo, non volendo che nessuno veda quest'ob-
brobrio di stampa, nella quale io medesimo leggendo i miei poveri
versi, me ne vergogno, che mi paiono, cosi vestiti di stracci, anche
peggio che non sono.... E la spesa., m'ha spiantato affatto, lasciandomi
questi versi inediti, giacch'io voglio assai prima non esser letto ch'esser
letto in questa sucida forma da fare scomparire qualunque compo-
sizione angelica non che mia.
L'amico gli consigliò di noji buttarle via, bensì di cor-
reggerle attentamente a mano, e mandarlo così attorno: era
* Si può vederla riprodotta da C. Antoxa-Traversi, Canti e
versioni di G. L., p. 226 ss.
LE DUE PRIME CANZONI 321
pur riiuieo modo questo per uscire « dalla solitudine che
lo aveva formato sì grande, e col nome e colla persona
grande e maestoso, come un sole » I Al Leopardi medesimo
esse vennero dopo parendo men vergognose. Xel febbraio
del '20, trattò col Brighenti perchè, «rivedute e corrette
e migliorate in alcuni luoghi», fossero ripubblicate a Bo-
logna insieme con altre tre: Al 3Iai, Per una donna in-
ferma di malaiiia lunga e mortale e J^ella morte di una donna
fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte
di un chirurgo ^. Ma un bel giorno venne a sapere che il
padre aveva scritto ali" editore, vietando la stampa. Come
mai ^Monaldo aveva annusato quel divisamento ? Rime-
scolando forse le carte del suo poetino ? Comunque, questi
se ne lamenta fieramente (21 aprile '20):
... Neanche vedo come mio padre possa, aver sap^ito quello di cui
non ho mai parlato né a lui né a verun altro (avendo pochi amici fuori,
e nessuno in questo barbaro paese), eccetto il caso che abbia rimesco-
late le mie carte: del che non mi maraviglio né mi lagno, perché cia-
scuno segue i suoi principii. Quanto ai dubbi di mio padre, rispondo
che io come sarò sempre quello che mi piacei'à, così voglio parere a
tutti quello che sono ; e di non esser costretto a fare altrimenti, sono
sicuro per lo stesso motivo a un dipresso, per cui Catone era sicuro in
* Queste ultime due, rimaste fin qui inedite, si possono ora leg-
gere negli Scritti vari inediti di O. L., p. 32 ss. — Lo Zumbini {Studi,
I, 89) ìe giudica «molto mediocri, ed inferiori... persino alla stessa
prima Elegia, ch'è del dicembre 1817 ». Della seconda il Carducci scrive
(Degli siiiriti, p. 198): «era stata composta nel 1819. sur uno di quelli
argomenti macabri che non possono produr mai poesia né anche pas-
sabile, lo strazio di una donna incinta, chi dice avvenuto in Pesaro,
chi dice letto in un giornale di Marsiglia. Sono due lunghe declamazioni
con eccesso di sensitività, con isfoggio di egotismo morboso, con af-
fettazione di trecentismo ». Tuttavia il Leopardi, e per giudizio proprio
e per « l'esperienze fatte di quella canzone sopra donne e persone non
letterate, e riuscitegli più felicemente delle altre >, nutriva per la se-
conda una singolare predilezione. Al Brighenti, che gli aveva fatto
qualche appunto, rispondeva, il 2G maggio 1820: «Le dirò con ischiet-
tezza che avendo per quella canzone im certo particolare affetto, il
vedere che non riusciva presso di Lei, mi dispiacque, ma nella stessa
maniera in cui ci dispiace se una grandine ci porta via un capitale,-
nel qual caso' non ci lamentiamo di verimo, se non siamo pazzi, perchè
non è cosa che dipenda dalla volontà... Se anche la canzone è di poco
merito, ella è venuta dal cuore >.
21. ~ G. Leopardi.
322 ILLUSTRAZIONI
Utica della sua libertà.... Io La prego al possibile di non mandare il
ms. a mio padre. Se già l'avesse mandato, ed egli lo rimandasse per
farlo stampare con qualunque benché minima alterazione, io con quanta
autorità posso avere sopra gli scritti che pur mi paiono miei, La prego
e supplica a rispondere ch'io ho intieramente rinunziato al pensiero
di pubblicare quelle canzoni, e che l'ho sii?niHcato a V. S. nei mod*'
più preciso.
Ecco quello ch'era accaduto. 11 17 marzo, il conte aveva
ingiunto al Briglienti di non ristampare la canzone AlVItalia.
L'editore gli rispose il 29, dicendosi pronto a desistere dal-
l'impresa, non senza tuttavia osservare che, a parer suo,
quella canzone non era « punto sediziosa, e soltanto libera
e poeticamente ardita » i. Ma Monaldo replicò, il 9 aprde:
Con riflessione piena e matura, io non posso assolutamente per-
mettere la ristampa delle due canzoni sull'Italia e a Dante. I tempi
non lo vogliono e molto meno il momento presente [era scoppiata la
rivoluzione di Spagna, e stava per iscoppiare quella di Napoli], eh 'è
forse fra i più. cattivi che abbiamo passati. Delle altre disapprovo quella
sulla donna fatti morire, e taccio delle altre due perchè non le co-
iiosco.
Della canzone Nella morte ovvero Nello strazio di una
giovane fatta trucidare..., veramente Monaldo non aveva
visto, e per caso, se non il solo titolo ; ma tanto era bastato
per fargli sospettare che contenesse (^ miQe sozzure nell' ese-
cuzione, e mille sconvenienze del soggetto » ^. Quanto alle
altre, ei si lasciava turbare da mille « paure da fanciulli e
da massime da duecentisti ». A ogni modo, Giacomo era
troppo altero per volersi piegare a chiedergli il danaro
necessario alla stampa dei versi risparmiati dalla strage.
Preferì mandar fuori, a sue spese, l'unica canzone Al Mai.
E fu un bene: cosi questa potè presentarsi al pubblico,
come dice il Carducci, « sola, nella sua fosca fierezza ».
Ma il rancore contro il censore domestico rimase a lungo.
Ancora il 14 luglio '28, Monaldo si vedeva costretto a scu-
sarsi, scrivendo al figliuolo, che non so se rispondesse:
» e. Antona-Traversi, Lettere inedite di G. L., Città di Castello,
Lapi, 1888, p. 152 e 160.
- Cfr. la lettera di Giacomo al Briglienti del 28 aprile '20.
T.r. DUE PRIME CANZONI
Tutti mi domandano le cose vostre per leggere, ed io sono sver-
^rognato per non averle. Spero che, venendo, le porterete tutte, o al-
meno mi guiderete per acquistarle; e cosi faremo pace con la vostra
letteratura, la quale mi ha guardato sempre di sbieco, dopo quel po'
di grugno che io feci alle due prime canzoni. Ma credo che a quest'ora
quel mio giudizio sarà stato giudicato da voi meno sinistramente; e
che, se non potete applaudire all'ingegno del vostro padre, almeno
farete ragione al mio amorosissimo cuore.
Certo, in. quegli anni di torbidi politici, le idee liberali
espresse nelle due canzoni avrebbero potuto procurar noie
e al poeta e alla sua famiglia. Quando furono stampate
la prima volta, nan-ò poi Carlo ^, u i Carbonari pensarono
che Giacomo le scrivesse per loro, o fosse uno dei loro";
nostro padre si pelò per la paura. Ma Giacomo non servì
mai nessuna fazione, non gli passarono mai per la mente
le sètte. Avea troppo ingegno e giudizio da non curarle e
fuggirle «. Tuttavia quel grugno non fu forse consigliato dalla
sola prudenza. Poiché nel destino dei Greci Giacomo ve-
deva rispecchiato quello degl'Italiani, e perciò riguardava
<' i poveri Greci come fratelli », rivolgendo loro parole di
alta simpatia nel Discorso, pubblicato nel liicoglitore di
Milano del 1827, in proposito di una Orazione di Giorgio
Gemisto ^; Monaldo odiava i Greci. E quando, nell'estate
appunto del '27, ei seppe che le grandi Potenze meditavano
di «prendere una parte decisiva negli affari dell'Oriente»,
scrisse, il 5 agosto, al figliuolo: «Così avranno pace i vo-
stri Greci, e ne godo perchè sono uomini; ma mi pare che
siano bii'banti assai, ed è un avvenimento singolare che
la somma legge della umanità imponga di soverchiare il
Turco, quando forse ha più ragione di noi ». Peggio an-
cora: l'anno dopo, essendo giunta a Recanati la notizia
che il conte Andrea Broglio recanatese era morto eroica-
mente, pugnando per T indipendenza ' della Grecia, al-
l'assalto di Anatolico, Monaldo la comunicò, con inop-
portuno buon umore, al figliuolo. « Anche Recanati », egli
scrisse il 4 luglio '28, «ha pagato il suo tributo di follìa
Ricordi, giudizi ecc., in appendice a\V Epistolario, III, 431
Cfr. la lettera alla Tommasini, del 18 aprile '27.
324 ILLUSTRAZIONI
alla demenza del secolo, e ha tinta col suo sangue la terra
classica della Grecia». E soggiungeva: «Probabilmente i
Treiesi » (la famiglia Broglio, recanatese da solo due ge-
nerazioni, era originaria di Treja) « reclameranno quel prode
per diritto di origine, quasiché nato in Recanati per acci-
dente; e noi, cedendoglielo senza contrasto, segneremo nei
nostri fasti un pazzo di meno » ^
Nel novembre del 1823, Giacomo ricominciò a trattare
col Brighenti per un'edizione bolognese dei Versi; ma
questa volta bisognava far i conti con la Censura ecclesia-
stica. « Io », protestava Giacomo, il 3 adirile '24, « ho un
grandissimo vizio, ed è che non domando licenza ai frati
quando penso ne quando scrivo; e da questo viene che,
quando poi voglio stampare, i frati non mi danno licenza
di farlo ». L'editore riuscì ad ammansare i teologi censori:
e una sorta di gente così ostinata come le donne»; e la
stampa fu fatta, all'insaputa di Monaldo. Ai primi di set-
tembre, il nuovo volumetto, contenente dieci canzoni e le
annotazioni dell'autore ^, era già sulla via di Recanati. E
fu distribuito e letto anche a Roma. Non però a Milano;
giacché il governo austriaco, molto più sospettoso e ine-
sorabile che non il pontifìcio, vietò che entrasse, e allora e
poi, nella Lombardia e nel Veneto ^.
* Cfr. Mestica, Studi leopardiani, p. 560 ss.
* Tutte di lingua codeste, per dimostrare ai pedagoghi « che non
soglio scrivere affatto affatto come viene », dichiara l'autore, « e che
in tutti i modi non sarà loro così facile come si pensano, il mostrarmi
caduto m errore». Scritti letterari, I, 286.
* Al marchese Melchiorri, a Parigi, Giacomo scriveva da Bologna,
il 19 aprile 1826: «Ti spedisco oggi sous bande per la posta un esem-
plare delle canzoni, come tu desideri. La fortuna l'aiuti che non lo
fermino in Lombardia, dove le canzoni sono proibite e proscritte,
come saprai ». Cfr. R. Barriera, O. L. e la Polizia; un documento ine-
dito, nella «Rassegna storica del Risorgimento», V, 1918.
LA CANZONE AL MAI 32.'
AD ANGELO MAI
I.
Composizione e stampa (Mia Canzone. — La dedica. — La
proibizione della Censura austriaca. — I rapporti del
Leopardi col 3Iai. — Il frammento di Lihanio.
In fronte a un esemplare della prima edizione di questa
canzone che è tra le carte napoletane, è scritto di mano
del poeta: « Opera di dieci o dodici giorni, gennaio 1820,
pubblicata i primi di luglio ». In una lettera al Giordani,
del 20 marzo, il Leopardi disse essergli « uscita per mira-
colo dalla penna in questi ultimi giorni » ; e in una al Mai,
del 27 ottobre: «La canzone fu scritta nei primi giorni di
quest'anno, mentre ferveva la fama del Suo magnifico ri-
trovato ciceroniano)). Pensò di stamparla subito: essa gli
pareva « adattata al momento )), e sarebbe stato perciò
opportuno, scriveva il 7 aprile, farla « uscire mentre era
calda la fama dell'idtima e più strepitosa scoperta del Mai».
La mandò al Brighenti, con le altre due Per donna inferma
e Nello strazio di una giovane; ma il padre, quando venne
a saperlo, mise un veto assoluto per l'ultima, condizionato
per le altre. Onde Giacomo, fremente di rabbia, riscriveva
il 28 air editore:
Il titolo della seconda inedita si è trovato fortunatamente inno-
centissimo. Si tratta di un Monsignore. Ma mio padre non s'immagina
che vi sia qualcuno che da tutti i soggetti sa trarre occasione di parlar
di quello che più gl'importa, e non sospetta punto che sotto quel ti-
tolo si nasconda una canzone piena di orribile fanatismo.
Così questa venne alla luce da sola: « Canzone di Gia-
como Leopardi ad Angelo Mai. Bologna MDCCCXX. Per
le stampe di Jacopo Marsigli. Con approvazione )>. Por-
tava in fronte la seguente dedicatoria, ritoccata poi e
rifusa nell'edizione del '24:
326 ILLUSTRAZIONI
Giacomo Leopardi al conte Leonardo Trissino.
Voi per animarmi a scrivere mi solete ricordare che la storia de'
nostri tempi non darà lode agl'Italiani altro che nelle lettere e nelle
scolture. Ma eziandio nelle lettere siamo fatti servi e tributari; e io
non vedo in che pregio ne dovremo esser tenuti dai posteri, conside-
rando che la facoltà dell'immaginare e del ritrovare è spenta in Italia,
ancorché gli stranieri ce l'attribuiscano tuttavia come nostra speciale
e primaria qualità, ed è secca ogni vena di affetto e di vera eloquenza.
E contuttociò quello che gli antichi adoperavano in luogo di passa-
tempo, a noi resta in luogo di affare. Sicché diamoci alle lettere quanto
portano le nostre forze, e applichiamo l'ingegno a dilettare colle pa-
role, giacché la fortuna ci toglie di giovare co' fatti com'era usanza
di qualunque de' nostri maggiori volse l'animo alla gloria. E voi non
isdegnate questi pochi versi ch'io vi mando. Ma ricordatevi ch'ai di-
sgraziati si conviene il vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni
rassomiglino ai versi fimebri. Diceva il Petrarca, ed io son un di quei
che 'l pianger giova. Io non posso dir questo, perchè il pianger non è
inclinazione mia propria, ma necessità de' tempi e volere della fortuna.
La prima copia ne giunse a Recanati verso la metà
di luglio; e il poeta se ne dieliiarò « soddisfattissimo » ^
I revisori di Bologna, ch'eran preti, non fecero molto caso
delle massime liberali promulgate con tanta eloquenza
nella canzone; ma vi badarono i censori austriacanti del
Lombardo- Veneto. « Questa poesia odora di quello spi-
rito di liberalismo, che pare abbia accecata qualche infe-
lice regione del nostro suolo », osservò uno di essi; e il
sedizioso opuscolo « venne proibito, e perquisite le copie
ch'erano in circolazione » ^. « La qual cosa », confidava
^ Lett^ira al Brighenti, 17 luglio 1820. — Quella stampa è ripro-
dotta da C. Antona-Travkrsi in Canti e versioni di G. L., 255 ss.
11 l'iEROiLi, Nuovi docum., 210 ss., ha altresì pubblicato il manoscritto
autografo recatanese, con le correzioni successive del poeta.
* D'Ancona, Il L. e la polizia aìistriaca, nel « FanfuUa della do-
menica », 29 novembre 1885; F. Lampertico, La canzone di G. L.
ad A. M. e la censura, Vicenza, 1888; Pieroili, Un confidente del-
Valta polizia austriaca nel Gabinetto di G. P. Vieusseux, Piccanati, 1888;
Carducci, Degli spiriti e delle forme, 206 s°. — Col conte Trissino,
di Vicenza, Giacomo non aveva dimestichezza: lo cono-sceva per let-
tere, presejitatogli dal Giordani (Epist. Ili, 144). K par proprio di ca-
pire che quella dedica d'un libro, ch'era stato « severamente proibito
per volontà espressa del principe viceré % il quale ne aveva « comandata
LA CANZONE AL MAI 327
Criacomo a un dotto innominato nei primi giorni del '23,
X insieme colla canzone ho tenuto sempre nascosta a tutti
i miei parenti, che hanno opinioni ed inclinazioni molto
diverse dalle mie ».
Con Angelo Mai ^. il giovanetto recanatese era entrato
ben presto in relazioni epistolari. A metà del 1816, gli man-
dava tradotte le Opere di Frontone, che il Mai allora allora
aveva scoperte; nel '17, il saggio di versione deìV Eneide
e il volgarizzamento delle Antichiià romane di Dionigi
d'Alicaruasso, i cui frammenti erano stati poco prima
ritrovati e pubblicati dal famoso scopritore; nel '19, le
due prime canzoni. Quando poi gli giunse la notizia della
scoperta del De Eepiihlica, così, pieno d'entusiasmo, gli
scrisse il 10 gennaio '20:
11 grido delle nuove maraviglie che V. S. sta operando, non mi
lascia più forza di contenermi, né mentre tutta l'Europa sta per. ce-
lebrare la Sua preziosa scoperta, mi basta il cuore d'essere degli ultimi
a rallegTarmene seco Lei, e dimostrare la gioia cbe ne sento, non solo
in comrme con tutti gli studiosi, ma anche in particolare per la stima
e rispettosa affezione che professo singolarmente a V. S. Ella è proprio
un miracolo di mille cose, d'ingegno, di gusto, di dottrina, di diligenza,
di studio infaticabile, di fortuna tutta nuova ed unica. In somma
V. S. ci fa tornare a' tempi dei Petrarca e dei Poggi, quando ogni giorno
era illustrato da una nuova scoperta classica, e la maraviglia e la gioia
de' letterati non trovava riposo. Ma ora in tanta luce d'erudizione e
di critica, in tanta copia di biblioteche, in tanta folla di filologi, V. S.
sola, in codici esposti da più secoli alle ricerche di qualunque studioso,
in librerie frequentate da ogni sorta di dotti, scoprir tesori che si pian-
gono per ismarriti senza riparo sin dal primo rinascimento delle lettere,
e il cui ritrovamento non ha avuto mai luogo neppure nelle più vane
e passeggere speranze de' letterati, è un prodigio che vince tutte le
maraviglie del trecento e del quattrocento.
È gran tempo ch'io avea preparato con grande amore e studio
la perquisizione ^ riuscisse o sembrasse im onore troppo pericoloso al
conte vicentino! (Epist.' l, 293 )i
* Questo valentuomo nacque a Schilpario in Val di Scalve nel ber-
gamasco, il 7 marzo 1782; fu dei dottori dell'Ambrosiana dal 1811
al '19, quando venne chiamato a Roma quale primo Custode delia
Vaticana; nel '38, dopo d'aver percorsa ima lunga via di onori, fu
creato Cardinale insieme col Mezzofanti; morì l'S settembre '54 a
Roma. Cfr. E. Prixa, Biografia del card. Angelo Mai, Bergamo 1882.
328 ILLUSTRAZIONI
i materiali d'alcune lettere per dimostrare, in maniera se non bella
né buona, almeno mia propria, le vere ed intime utilità e pi'egi delle
Sue scoperte, con ima quantità di osserv-azioni critiche sui particolari
di ciascheduna. Ma la mia salute intieramente disfatta, e da nove
mesi un'estrema imbecillità de' nervi degli occhi e della testa, che fino
m'impedisce il fissar la mente in qualimque pensiero, m'ha levato il
poter dar effetto ai miei disegni. A ogni modo, perchè lo strepito e lo
splendore dell'ultima Sua scoperta è tale da risvegliare i più sonnac-
chiosi e deboli, mi sono sentito anch'io stimolare dal desiderio di non
restar negligente in un successo cosi felice.
Gli mandò j)oi la Canzone, e e una lettera abbastanza
lunga sopra V Eusebio >^. Ma nel fortunato erudito non ebbe,
pare, a trovare un amico e un protettore zelante, quali
poi gli si dimostrarono il Niebulir, il Bunsen, il De Sinner.
Il 30 marzo '21, riferiva al Perticari:
S'è domandato per me al Segretario di Stato il luogo ora vacante
di professore di lingua latina nella Biblioteca Vaticana. Ma S. E. non
mi conosce se non per quell'uomo oscurissimo e scouosciutissimo ch'io
sono effettivamente. Mi accertano che se monsignor Mai facesse im
moto in mio favore al Segretario di Stato, il negozio succederebbe. Io
scrivo a monsignor Mai che da qualche tempo conosco per lettere.
:Ma parimente mi dicono (e m'era parso già di vederlo) ch'egli è persona
d'animo freddo, e bisognoso di forti stimoli a prendersi briga per chi
si voglia.
E scrisse di fatto, e fece parlare da altri; ma appunto
non risulta che monsignore si riscaldasse troppo. Quando
poi Giacomo fu a Roma e lo avvicinò, ei non gli finì di
piacere. Narrava di là al padre, il 9 dicembre '22:
Monsignor Mai è tutt'altro da questa canaglia; è gentilissimo con
tutti, compiacentissimo in parole, politico in fatti; mostra di voler
soddisfare a ciascuno, e fa in tiltimo il suo comodo; ma quanto a me,
non solo non ho che lagnarmene, anzi debbo dire che m'ha compia-
ciuto realmente in ogni mia domanda, e che mi tratta quasi con ri-
spetto. Dopo il mio arrivo è uscita la sua Repuhlica, la quale è una
bella cosa, e molto lodata da chi la capisce, come biasimata dal par-
tito contrario al Mai.
Ma anche a lui la scoperta venne via via parendo di
minore importanza; Il 20 dicembre, rispondeva al padre —
il quale gli aveva detto: « Converrà acquistare la JRepnhlica
di Mai. e ve ne spedirò il denaro : ditemi quanto ne occorre ;
lo stesso bisognerà fare successivamente col Frontone », —
sconsigliandone l'acquisto.
LA CANZONE AL MAI 329
Non ho comprato la Republica del Mai (la quale lio avuta iu pre-
stito e la sto leggendo) : e se il mio giudizio è di niun valore, io La con-
siglio a non prenderla. Il prezzo, in carta infima, è di paoli trentatrè:
la materia non ha niente di miovo, e le stesse cose dice il medesimo
Cicerone in cento altri luoghi. Di modo che l'utilità reale di questo
libro non vale il suo prezzo. Se si trattasse di completare vma biblio-
teca o una collezione, non direi cosi: ma noi non siamo nel caso.
E il 10 gennaio '23, potè soggiungere, scrivendo al fratello:
« Mons. Mai mi ha mandato in dono una copia della Be-
piiblica, cosa ch'è stata molto ammirata e invidiata ».
S'intende poi che il Mai gii dava anche altri segni, più
comuni, di benevolenza. Sennonché, jiroprio in questo
tempo, il poeta ebbe a lamentarsi della poca delicatezza
di monsignore; e ogni cordialità venne a mancare nei loro
rapporti. 11 7 marzo, Giacomo, rendendo conto al padre
dell'incarico affidatogli di compilare il <' catalogo de' Co-
dici greci che sono nella biblioteca Barberina; il quale
catalogo non era stato mai fatto, se non trascuratissima-
mente, e la maggior parte di quei codici, che non son pochi,
era sconosciuta » ; dice altresì :
Da parecchie settimane ho incominciato il catalogo, e ultimamente,
oltre varie scoperte minori, ho trovata im'operetta greca sconosciu-
tissima, la quale essendo quasi intera, e di secolo e stile assolutamente
classica, viene ad essere di tanta importanza quanto le più famose
scoperte del nostro Mai. Sono ora occupato a copiarla; nel che debbo
superare infinite difficoltà, perchè da una parte mi convien combat-
tere con l'oscurità 'del codice, e dall'altra sfuggire o deludere continua-
mente con vari pretesti la vigilanza del bibliotecario. Per ora non si
parlerà in nessun modo di questa scoperta, finché non sia finito il ca-
talogo, e trovato e copiato tutto quello che si troverà di nuovo e di
buono nella Barberina. Solamente ho mostrato il codice a un letterato
tedesco, il quale è convenuto del pregio della scoperta, e mi ha con-
fermato nelle mie congetture e opinioni intomo all'autore, al secolo ecc.
Quando sarà tempo, metteremo il campo a romore.
Si trattava d'un frammento che colmava ' una gran
lacuna della famosa orazione di Libanio » circa i santuarii
pagani. Chi è un po' pratico di codesto genere di studi,
comprenderà facilmente la viva compiacenza dell'erudito
novellino, a cui già pareva, con la scoperta di quel fram-
mento, di rivaleggiar col Mai. Xe scrisse, il 9 aprile, anche
330 ILLUSTRAZIONI
al Niebuhr ^. Ma ecco che, tornato a Recanati, gli si fa
sapere che monsignore, ripubblicando le opere di Fron-
tone, v'aveva anche stampato il frammento di Libanio !
Imbizzito, risponde al cugino Melchiorri, il 14 luglio:
È cliiarissimo che monsignor Mai ha pubblicato il frammento di
Libanio, o per fare un dispetto a me, o sapendo di certo che, col pub-
blicarlo, lo levava di mano a me clie già l'aveva trovato. Pazienza
per ora. Potrà dire ch'egli non è stato il primo a darmi fastidio, e in
questo non avrà il torto.
E ancor parecchi mesi piti tardi, il 22 gennaio '25,
indicando allo stesso Melchiorri le persone a cui destinava
le copie del suo Eusebio, gì' inculca:
Solamente a Mai, se non gliel hai già data, desidererei che non la
dessi, perchè dopo il mal tratto usatomi in quel fi'ammento di Libanio,
sto in poca confidenza con lui, e trattandosi di un libro che esamina
e corregge un'opera sua, non so se egli prenderebbe il dono in buona
o cattiva parte, e però credo meglio non impacciarsene, e non dargli
niente.
Così la freddezza crebbe. 11 10 novembre '25, propone
al Bunsen, per una certa collazione di codici dell'Ambro-
siana, Tab. Bentivoglio. « Per via privata », gli scrive,
« potrebbe essere utilissimo a chi volesse copiar qualche
cosa da quella biblioteca, della quale egli è quasi il custode,
ed io non mancherei d'impegnarlo ad aiutare per sua parte
l'impresa il più che potesse. Il suo modo di pensare è molto
diverso da quello del Mai ». Forse monsignore volle far
credere che presso la Corte romana egli rincalzasse, con
l'opera sua, i buoni uffici del Bunsen, per procurargli il
posto desiderato; onde Giacomo, indignato, risponde il
17 febbraio '26 al cugino:
Di quello che ti ha detto mons. Mai, so già ogni cosa. Sono tutte
chiacchiere inutili. Ma, grazie al cielo, ora io non ho bisogno né di
mons. Mai né della canaglia della Corte romana. Che poi mous. Mai
sia stato l'autore, e l'insinuai ore di questo discorso, é ima b\igia so-
lennissima. La cosa è venuta espressamente dal Segretario di Stato.
Cfr. F. MoRONaNl, studio sul Leopardi filologo, p. 228 e 291 ss.
LA CANZONE AL MAI
!Si capisce come poi, tornando a Koma sullo scorcio
del '31, il Leopardi non si facesse premura di far visita
al Mai; come pure ch'ei dissuadesse il De Sinner dal chie-
dergli alcuni schiarimenti, «perchè», scrive il 24 maggio '32,
« il Mai non si lascia facilmente intendere circa i suoi di-
segni »; e come al medesimo amico, il 3 ottobre '35, dicesse:
u Da me so bene che non aspettate nuove di filologia, perchè
(jual filologia in Italia! È vero che Mai è sul punto di ve-
stire la porpora, e Mezzofanti gli verrà appresso; ma essi
ne sono debitori al gesuitismo, e non alla filologia ». Sog-
giunge: «avete voi nuove di Gioberti? »; di colui cioè che
dodici anni più tardi doveva dare al gesuitismo una bat-
taglia così formidabile! ^
IL
Giudizi del De Saiietis e deìlo Zuìuhini. — La i' sede de'
giusti ». — Lo « strider deìVonda aìVattuffar del sole ». —
« Conosciuto, il mondo non cresce ». — Dante, Ariosto,
Tasso, Alfieri.
Il De Sanctis giudicò questa « canzone straordinaria,
se mai ce ne fu; perchè, se nella parte tecnica poco si di-
scosta daUe altre scritte innanzi, per ricchezza e novità
di contenuto soprastà a quelle di molto. Prima c'era l'ar-
tista, già maestro di stile; ora c'è anche il poeta, c'è lui » 2.
E lo Zumbini^: « Col principio di ciascuna stanza è come
l'aprirsi di un paradiso che si chiude improvvisamente coUa
stanza medesima; e ne risulta un rapidissimo avvicendarsi
del passato col presente: quello tanto meno splendido,
quanto meno remoto, ma sempre più beUo al confronto
di questo, eh' è tutto silenzio e tenebre. L'uno è visione che
sorride allo sguardo e si dilegua; l'altro è voce che, quasi
^ Cfr. D'OviDTO, Saggi critici, p. 651,
^ Studio su G. L., p. lGO-1.
' Studi sul Leopardi, I, p. 248.
332 ILLUSTRAZIONI
dall'alto e pari a quella del Gallo silvestre, ricorda la lugubre
legge della storia umana ».
Nella cantica giovanile (1816) bìAV Appressamento della
morte (e. IV, v. 130-41), il Leopardi aveva descritto «la
beata sede de' giusti », dov'erano Dante, il Petrarca, e il
Tasso prediletto. La guida celeste gli dice:
— Vedi '1 magno Alighier che sopra l'etra
Ricordasi ch'ascese un'altra volta,
E del dir vostro pose la gran pietra.
E vedi quel vicin ch'anco s'ascolta
Lagnarsi che la mente al mondo tristo
Ebbe a cosa mortai troppo rivolta.
Mira colui che lacrimar fu visto
Tutta sua vita, e or di suo pianto ha '1 frutto,
E cantò l'armi e '1 glorioso acquisto.
Oh dolce pianto, oh fortunato lutto.
Oh vento che '1 nocchier sospinse al porto
U' noi conturba più vento nò flutto! —
E in una delle prime lettere al Giordani, del 30 aprile '17,
per dargli un'idea compiuta dell'ignoranza in cui affoga-
vano i Recanatesi, soggiunge : « Qui tutto è morte, tutto
è insensataggine e stupidità... Letteratura è vocabolo inu-
dito. I nomi del Parini, dell'Alfieri, del Monti e del Tasso e
dell'Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di commento ».
Certo senza de' numi alto consiglio Non è.... (v. 16-7)
ricliiama del Petrarca (n. 53): «Ma non senza destino a
le tue braccia....»; e del Monti, Iliade (I, 6-7): «così di
Giove L'alto consiglio s'adempia », e Alla marchesa Mala-
spina (6-7): «Non è, donna immortai, senza consiglio Che
al tuo nome li sacro ».
Cui strider Vonda... (v. 79 ss.) ricorda i versi 359-60
della Musogonia del Monti:
Là dove Atlante lo stridore ascolta
Del gran carro febeo che in mar dà volta.
E a chiarir questo luogo, oltre che la nota appostavi dallo
stesso poeta, può giovare un passo del Saggio del 1815
Sopra gli errori popolari degli antichi (e. ix). Vi si dice:
Non è maraviglia che dalla parte di Ponente, quando il sole tra-
montava si udisse una specie di stridore, cagrionato dalle fiamme di
LA CANZONE AL MAI 333
questo corpo luminoso, che si tuffa vano e si spegneano nell'acqua.
Posidonio narra, presso Strabone, di avere udito dire che in Ispagna
si sentiva in effetto questo strepito quando il sole piombava ai fondo
del mare.
Audiet herculeo sfridenfem ffurgite soìem,
disse Giovenale; ed Ausonio:
Comliderat jam solis equos Tarpesia Colpe,
Stridebatque freto Titan insignis ihero.
Cosi ciò che noi diremmo ora per giuoco ai fanciulli, fu creduto vol-
garmente e tenuto per fermo dagli antichi.
Ma conosciuto il mondo Xon cresce... (v. 87-8). Nella
lettera del 9 maggio 1772 del Giovine Werther di Goethe
il Leopardi aveva letto, e il passo gli aveva lasciato nel-
l'anima una viva impressione (cfr. Zib. I, 166):
Come circoscritti nelle loro idee, ma come avventiirati i nostri
venerandi antichi progenitori ! Fanciullescamente schietto era il loro
sentire, il poetare della loro vergine musa ! Allorché Ulisse parla del-
rimmenso mare e della terra interminata, il suo verso è si vero, sì sen-
tito, sì umano, e pur si grandioso e si facondo ! Che mai mi giova ripe-
tere oggidì, con ogni bimbo di scuola, che la terra è rotonda, e saperne
in questo più in là del padre Omero ? L'uomo non ha d'uopo che di
poche zolle per gustarvi i suoi piaceri; di meno ancora per dormirvi
i suoi eterni sonni.
E tra gli Ajypunti e ricordi aveva notato anche questo
{Scritti vari ined., 278):
Che gli antichi continuassero veramente mercè la loro ignoranza
a provare quei diletti che noi proviamo solo fanciulli ? Oh sarebbero
pur da invidiare, e si vedrebbe bene che quello è lo stato naturale ecc.
In un Pensiero poi del 16 novembre '20, annotava (Zib.
I, 396-97):
Ed una di queste verità che son comprese nel sistema della na-
tura è che l'errore e l'ignoranza è necessaria alla felicità delle cose, perchè
l'ignoranza e l'errore è voluto, dettato e stabilito fortemente da lei,
e perch'ella insomma ha voluto che l'uomo vivesse in quel tal modo
in cui ella l'ha fatto. E non perchè l'uomo ha voluto speculare il fondo
delle cose, contro quello che doveva, anzi poteva fare naturalmente,
perciò è meno vero ch'egli doveva ignorare quello che ha scoperto
e che la sua felicità sarebbe stata vera, se egli avesse errato e ignorato,
quelle verità che così considerate riescono indifferenti all'uomo e che
la natura lia seguite, ma segretamente, nel suo sistema, perchè gli erano
necessarie o perchè così gli è piaciuto.
334 ILLUSTRAZIONI
Nascevi ai dolci sogni... (v. 106 ss.). A meglio chiame
questo accenno alla poesia ariostea, può valere un altro
Pensiero (Zib. I, 259), del 5 luglio '20:
Altro è la forza, altro la fecondità deiriminaginazione, e l'ima
può stare senza l'altra. Forte era l'immaginazione di Omero e di Dante,
feconda quella di Ovidio e dell'Ariosto. Cosa che bisogna ben distin-
guere quando si sente lodare un. poeta o chicchessia per l'immagina-
zione. Quella facilmente rende l'uomo infelice per la profondità delle
sensazioni, questa al contrario lo rallegra colla varietà e colla facilità
di fermarsi sopra tutti gli oggetti e di abbandonarli e conseguente-
mente colla copia delle distrazioni. E ne seguono diversissimi caratteri.
Il primo, grave, passionato, ordinariamente, ai nostri tempi, melanco-
nico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto proprio a soffrir
grandemente della vita; l'altro scherzevole, leggero, vagabondo, in-
costante nell'amore, bello spirito, incapace di forti e durevoli passioni
e dolori d'animo, facile a consolarsi anche nelle più grandi sventure.
O Torquato... (v. 121 ss.). 11 Leopardi s'era foggiato un
Tasso a sua immagine ^. Ed è commovente leggere la
descrizione ch'ei fece al fratello Carlo, della visita al con-
vento di Sant'Onofrio. A quanti di noi Sant'Onofrio non
ha fatto ripensare a San Vitale !
Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci
piansi. Questo è il primo e l'unico giacere che ho trovato in Roma.
La strada per andarvi è limga, e non si va a quel luogo se non per ve-
dere questo sepolcro; ma non si potrebbe anche venire dall'America
per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti ? È pur
certissimo che le immense spese che qui vedo fare non per altro che
per procurarsi vmo o un altro piacere, sono tutte quante gettate all'aria,
perchè in luogo del piacere non s'ottiene altro che noia. Molti provano
un sentimento d'indignazione vedendo il cenere del Tasso coperto
e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo
e mezzo, e posta in un cantoncino d'una chiesuccia. Io non vorrei in
nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo *. Tu comprendi
' Cfr. il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare; e
le lettere al Giordani del 21 novembre e 22 dicembre 1817.
• Verrebbe fatto di pensare che avesse in mente il sonetto del-
l'Alfieri: «Del sublime cantore.... Qui giaccion l'ossa, in sì negletta
tomba ? Ahi Roma ! e un'urna a chi spiegò tal volo Nieghi, mentre il
gran nome al ciel riml>omba? Mentre il tuo maggior tempio al vile
stuolo De' tuoi vescovi re fai catacomba ? Turba di morti che non
fur mai vivi, Esci, su dunque; e sia di te purgato II Vatican, cui di
fetore empivi: Là, nel bel centro d'esso ei sia locato. Degno d'entrambi
LA CANZONE AL MAI
la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la gran-
dezza del Tasso e l'umiltà della sua sepoltura. Ma tu non puoi avere
idea d'un altro contrasto, cioè di quello che prova un occhio av^'ezzo
alla infinita magnificenza e vastità de' monimaenti romani, paragonan-
doli alla piccolezza e nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e
fremebonda consolazione pensando che questa povertà è pur suffi-
ciente ad interessare e animar la posterità, laddove i super])issimi
mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta indifferenza
per la persona a cui furono innalzati, della quale o non si domanda
neppure il nome, o si domanda non come nome della persona ma del
monumento. Vicino al sepolcro del Tasso è" quello del poeta Guidi,
che volle giacere prope magnos Torquati cineres, come dice l'iscri-
zione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro.
Appena soffrii di guardare il suo monumento, temendo di soffocare le
sensazioni che avevo provate alla tomba del Tasso. Anche la strada
che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sen-
timento. B tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e ri-
suona dello strepito de' telai e d'altri tali istrumenti, e del canto delle
donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata,
senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l'im-
magine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili.
Anche le fisonomie e le maniere della gente, che s'incontra per quella
via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle
degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita
si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non
d'intrigo, d'impostura e d'inganno, come la massima parte di questa
popolazione.
Nello Zibaldone poi (II, 5), aveva già notato, il 28 di-
cembre '20:
Chiunque conosce intimamente il Tasso, se non riporrà lo scrit-
tore o il poeta fra i sommi, porrà certo l'uomo fra i primi e forse nel
primo luogo del suo tempo.
E il 17 marzo '21 (II, 195):
Sebbene il Tasso non si può veramente nel suo genere dire per-
fetto, neppur sommo come Omei'o (che sommo fu egli, ma non il suo
poema, né egli quivi), contuttociò l'Italia dopo lui non ebbe poema
epico degno di memoria, sebbene molti o piccoli o mediocri ingegni
tentassero la stessa carriera. Anzi, quantunque vi sia tanta dift'erenza
il monumento quivi Michelangelo ergeva al gran Torquato ». — Come
si sa, nel 1857 Pio IX fece poi costruire ini monumento in quella cap-
pella, dove il Tasso è atteggiato in una posa assai melodrammatica.
Scultore fu il padovano Giuseppe de Fabris. In quella stessa chie-
setta è sepolto il cardinal Mezzofanti, morto nel 1849.
336 ILLUSTRAZIONI
fra il genere del poema dell'Ariosto e quello del Tasso, pure sembrò
strano ch'egli si accingesse a quel travaglio dopo l'Ariosto ; e, pubblicata
la Gerusalemme, i suoi nemici non mancarono di paragonarla all'Or-
lando, di posporla, di accusare il Tasso di temerità ecc. ^
E il 9 aprile '21, aveva scritto al Perticari:
Mi confortate amorosamente ch'io non mi lasci vincere dalla tri-
stezza, e mi ricoveri nella sapienza. Conte mio, fu detto con verità che
quegli che non è stato infelice non sa nulla; ma è parimente vero che"
l'infelice non può nulla: e io credo che il Tasso non per altra cagione
sieda piuttosto sotto che a fianco de' tre sommi nostri poeti, se non
perch'egli fu sempre infelicissimo.
E parecchio piii tardi, il 14 marzo '27, annotava (Zib.
VII, 195-96):
Dei nostri sommi poeti, due sono stati sfortunatissimi. Dante e
il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i sepolcri: fuori delle patrie
loro ambedue. ]Ma io, che ho pianto sopra quello del Tasso, non ho sen-
tito alcun moto di tenerezza a quello di Dante: e così credo che av-
venga generalmente. E nondimeno non mancava in me, né manca
negli altri, un'altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; mag-
giore forse (e ragionevolmente) che verso l'altro. Di più, le sventure di
quello furono senza dubbio reali e grandi; di questo appena siamo certi
che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie : tanta è la scarsezza
e l'oscurità delle notizie che abbiamo in questo particolare: tanto con-
fuso, e pieno continuamente di contradizioni, il modo di scriverne del
medesimo Tasso, ]\Ia noi veggiamo in Dante un uomo d'animo forte,
d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un
uomo che contrasta e combatte con essa, colla necessità, col fato. Tanto
più ammirevole certo, ma tanto meno amabile e conamiserabile. Nel
Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria, soccombente, at-
terrato, che ha ceduto all'avversità, che soffre continuamente e patisce
oltre modo. Sieno ancora immaginarie e vane del tutto le sue calamità,
la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza fallo, se ben sia meno
Bfortimato di Dante, egli è molto più infelice.
* Nei primi del '27 notò « come cosa solamente poco nota oggidì,
e ciu-iosa da sapersi, che lo stesso argomento della Oerusalemme, nello
stesso tempo del Ta.'^so, fu trattato in un poema latino, di 12 libri,
intitolato la Siriade, da un altro Italiano, cioè da Pietro Angelio o
degli Angeli, da Barga, castello di Toscana... ». Zib. VII, 171-72. —
Il Leopardi amava e ammirava il Tasso anche come tipo di poeta -
filosofo. Una filosofìa, come la sua, di cui egli era la vittima; e un
filosofo ch'era il preciso opposto di ciò che il volgo chiama filosofo.
Cfr. F. Tocjco, nella misceli, nuziale Da Dante al Leopardi, Milano,
Hoepli, 1904.
LA CANZONE AL MAI 337
Ombra reale e salda Ti parve il nulla... (v. 130-31).
Cfr. Zib. 1, 195: « Io era spaventato nel trovarmi in mezèo
al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffo-
care, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla >'.
h'Allohrogo feroce (v. 155) è un'eco del fero Allohrogo
pariniano i. E anche la figura da Farinata del grande tra-
gico, che si leva solo nel suo tempo, impugnando il « terri-
bile Odiator de' tiranni Pugnale, onde Melpomene Lui fra
gl'itali spirti unico armò », appare sbozzata a immagine
di quella che salta sii dall'ode pariniana appunto, ealtre.sì
dal carme foscoliano. Tuttavia mette conto di riferire la
chiusa del sonetto di protesta che l'Alfieri, pose in fine dei
libri Della Tirannide:
Un dio feroce, ignoto un dio da tergo
Me flagellava infin da quei primi anni,
A cui maturo e impavido mi attergo.
Né pace han mai, né tregua i caldi affanni
Del mio libero spirto, ov'io non vei'go
Aspre carte in eccidio dei Tiranni.
Ed è degno di nota che proprio l'Alfieri, nel son. Quattro
gran vati ed i maggior son questi, aveva sospirato di essere
annoverato quinto nel canone dei nostri poeti sommi. Vi
aveva detto:
Primo è quei che scolpìa la infernal chiostra;
Tu, gran padre d'amor, secondo resti;
Terzo è il vìvo pittor che Orlando mostra;
Poi tu, ch'epico carme a noi sol desti....
Dell'allòr, che dal volgo l'uom divide,
Riman fra loro un quinto serto augusto:
Per chi? — Forse havvi ardir cui Febo arride.
In una delle prime lettere al Giordani, del 30 aprile '17,
l'infelice recanatese scriveva:
È un bel dire: Plutarco, l'Alfleri amavano Cheronea ed Asti. Le
amavano e non vi stavano. A questo modo amerò ancor io la mia patria
quando ne sarò lontano.
' V. le Poesie di O. Panni, Milauo,' Hoepli, 1913, p. 170-71; e
La vita, le rime e altri scritti minori di V. Alfieri, ivi, 1917, p. 59-60.
— Sì ricordi Giovenale, VII, 214: « ...Rufum, qui toties Ciceronem
Allobroga dìxit ".
22. — G. Leopardi.
ILLUSTEAZIONI
E qualclie mese più tardi, il 29 dicembre:
Dice santamente il mio caro Alfieri nella sua Vita, ch'egli non di-
sputava mai con nessuno con cui non fosse d'accordo nelle massime.
E questa credo che sia la pratica dei veri savi.
In quei giorni il giovanetto s'esaltava appunto nella
lettura di quella mirabile Vita. « La notte avanti il 27 no-
vembre, stando in letto, prima di addormentarmi, avendo
poche ore avanti finito di leggere la Vita dell'Alfieri, e
pochi minuti prima, stando pure in letto, biasimata la
mia facilità di rimare, e detto fra me che dalla mia penna
non uscirebbe mai sonetto; venutomi poi veramente prima
il desiderio e proponimento di visitare il sepolcro e la casa
dell'Alfieri, e dopo- il pensiero che probabilmente non
potrei», — aveva composto, tutto d'un fiato, i)roprio un
sonetto. Che rimase inedito nelle sue carte ^; e suona così:
In chiuder la tua storia, ansante il petto,
Vedrò, dissi, il tuo marmo. Alfieri mio.
Vedrò la parte aprica e il dolce tetto
Onde dicesti a questa terra addio !
Così dissi inaccorto. E forse ch'io
Pria sarò steso iif sul funereo letto,
E de l'ossa nel flebile ricetto
Prima infinito adombrerammi obblio:
Misero quadrilvistre. E tu nemica
La sorte avesti pur; ma ti rimbomba
Fama che cresce e un dì fia detta antica.
Di me non suonerà l'eterna tromba;
Starommi ij^noto, e non avrò chi dica:
A piangere i* verrò su la tua tomba.
L'8 dicembre '20, annotava nello Zibaldone (I, 440):
Un'altra gran cagione dell'estinguersi che fece subitamente l'ori-
ginalità vera e la facoltà creatrice nella letteratura italiana, origina-
lità finita con Dante e il Petrarca, cioè subito dopo la nascita di essa
letteratura, può essere l'estinzione della libertti e il passaggio dalla
forma repubblicana alla monarchica, la quale costringe lo spirito im-
' Scritti vari inediti di G. L., p. 17. Lo ebbe a publdicar prima lo
Zumbiiii nella Settimana di NapoU, 29 giugno 1902. Tra gli Scritti vari
è pur venuto alla luce (p. 8-12) il frammento d'una tragedia, « comin-
ciata il 30 luglio 1816 », Maria Antonietta, nel quale lo Zumbini (Studi
sul L., T, 249) .segnala il novello «influsso alfieriano .
LA CANZONE AL MAI oDO
pedito e scacciato o limitato, uelle idee e nelle cose a ri^^olgersi alle
parole.... La letteratura italiana non è stata più propriamente ori-
giaale e inventiva. L'Alfieri è un'eccezione dovuta al suo spirito li-
bero e contrario a quello del tempo, e alla natura de' governi sotto
cui visse.
Più tardi, poneva in bocca allo stesso Parini, nell'o])^-
retta che da questi s'intitola (cap. 1), la sentenza, vera-
mente memorabile:
Se il soggetto principale delle lettere è la vita umana, e il primo
intento della filosofia l'ordinare le nostre azioni; non è dubbio che
l'operare è tanto più degno e più nobile del meditare e dello scrivere,
quanto è più nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti
importano più che le parole e i ragionamenti. Anzi niim ingegno è
creato dalla natura agli studi: ne l'uomo nasce a scrivere, ma solo a
fare. Perciò veggiamo che i più degli scrittori eccellenti, e massime
de' poeti illustri, di questa medesima età: come, a cagione di esempio,
Vittorio Alfieri; furono da principio inclinati straordinariamente alle
grandi azioni: alle quali ripugnando i tempi, e forse anche impediti
dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cose grandi. Né sono pro-
priamente atti a scriverne quelli che non hanno disposizione e virtù
di farne. E puoi facilmente considerare, in Italia, dove quasi tutti sono
d'animo alieno dai fatti egregi, quanto pochi acquistino fama durevole
colle scritture.
Le quali parole non possono non richiamarci alla mente
quelle che per l'appunto l'Alfieri rivolgeva Alla libeHà
nel dedicarle i suoi libri Della Tirannide. Dopo d'aver ac-
cennato a quegli autori cui ■ manca il pienamente e forte-
mente volere», lo scrittore magnanimo ripigliava:
Io, che in tal guisa scrivere non disegno; io, che per nessun'altra
cagione scriveva, se non perchè i tristi miei tempi mi vieta van di fare:
io, che ad ogni vera incalzante necessità abbandonerei tuttavia la penna
per impugnare sotto il tuo nobile vessillo la spada; ardisco io a te sola
dedicar questi fogli.
E i lettori avranno notato che nella dedica al Trìssino,
dianzi riferita, l'ardente Giacomo aveva quasi parafrasato
ciò che l'Alfieri, caro al suo italianissimo cuore ^ (ci vole-
^ Una volta Giacomo, scrivendo allo Stella (7 apr. '26), cita l'au-
torità dell'Alfieri perfino a proposito di correzioni sulle prove di stampa :
«Ella sa che l'Alfieri diceva che un'opera già copiata e pronta per la
stampa è mezzo fatta : l'altra metà della fatica è quella di condur
340 ILLUSTRAZIONI
vaino noi, nati la sesta giornata, per trovar da ridire su
quel carattere adamantino!), aveva scritto in fronte a co-
desto suo libro nobilissimo, e ripetuto qua e là nelle sue
prose e nelle mirabili Bime.
A cui dal polo... (v. 155). « È pigliato all'usanza latina
per cielo », ebbe a dichiarare il poeta nelle Annotazioni
alla stampa bolognese del '24; e ne giustificò l'uso, non
registrato dal Vocabolario, con un esempio del Einuccini.
Tuttavia par proprio che a suggerirglielo fosse l'Alfieri
stesso. Il quale aveva detto (Saul, III, 4): «di tua fiamma
tanta un raggio solo... or manda a noi dal polo »; e ripetuto:
e Fin presso al polo aquila altera ei stende Le reverende
risuonanti penne ». Il Leopardi l'usò poi anche altre volte:
« Ma per te stesso al polo ergi la mente », A un vincitore
nel pallone, v. 59; «L'atro polo di vaga iri dipinse », Ai
Patriarchi, v. 64.
L'inciso Memorando ardimento! (v. 159) riecheggia, a
mio avviso, un luogo della dedicatoria del libro III Del prin-
cipe e delle lettere, dove l'Alfieri aveva esclamato: «Voi
dunque, o Socrati, Fiatoni, Omeri, Demosteni, Ciceroni,
Sofocli, Euripidi, Findari, Alcei, e tanti altri incontaminati
e liberi scrittori, inspiratemi or voi, non meno che salde ra-
gioni, virile e memorando ardimento », E mette conto di
riferire quanto il Leopardi scrisse all' ab. Melchiorre Mis-
sirini, che minacciava di comporre una tragedia su non
so quale argomento di storia italiana (15 genn. '25):
ed io avrò per carissimo che Ella si compiaccia di comunicarmi
quella Sua nuova tragedia, dove Ella avrà certamente avuto più luogo
a dimostrare l'affetto e l'anima verso la patria, ed a seguire quel grande
scopo nazionale di Alfieri, del quale principalmente intesi parlare quando
dissi che ninno era per anche sceso nell'arena dietro a quel tragico,
sebbene più d'una tragedia, degna della scena per altre doti, abbia
poi veduta la luce in Italia.
E così per riguardo dell'Alfieri, come de' prischi eroi
le cui spente lingue il Leopardi si augurava di risentire
l'edizione. Spesso molte imperfezioni che non si sono ravvisate nel
manoscritto saltano agli occhi dell'autore, quando egli vede la sua
opera in istampa ». E cfr. Epist. I, 41, 53....
LA CANZONE AL MAI 341
(v. 177-78), è notevole questo Pensiero del, 30 maggio '■22
(Zib. IV, 249-50):
Se l'uomo sia nato per pensare o per operare, e se sia vero che il
miglior uso della vita, come dicono alcuni, sia l'attendere alla filosofìa
ed alle lettere (quasi che queste potessero avere altro oggetto e ma-
teria che le cose e la vita tmiana e il regolamento della medesima, e
quasi che il mezzo fosse da preferirsi al fine), osservatelo anche da
questo. Nessim uomo fu né sarà mai grande nella filosofìa o nelle let-
tere, il quale non fosse nato per operare più e più gran cose degli altri,
non avesse in sé maggior vita e maggior bisogno di vita che non ne
hanno gli uomini ordinarii, e per natura ed inclinazione sua primitiva
non fosse più disposto all'azione e all'energia dell'esistenza che gli
altri non sogliono essere. La Staèl lo dice dell'Alfieri \ anzi dice ch'egli
non era nato per iscrivere, ma per fare, se la natura de' tempi suoi
(e nostri) glielo avesse permesso. E perciò appunto egli fu vero scrit-
tore, a differenza di quasi tutti i letterati o studiosi italiani del suo e
del nostro tempo. Fra' quali, siccome nessuno o quasi nessuno è nato
per fare altro che fagiolate, perciò nessimo o quasi nessuno è vero filosofo
né letterato che valga un soldo. Al contrario degli stranieri, massime degli
inglesi e francesi, i quali, per la natura de' loro governi e condizioni
nazionali, fanno e sono noti per fare più degli altri. E quanto più fanno
o sono naturalmente disposti a fare, tanto meglio e più altamente o
straordinariamente pensano e scrivono *.
' Corinne, 1. VII, Qh. 2. La Staèl aveva scritto: « C'est avec un
respect profond pour le caractère d'Alfieri que je me permettrai quel-
qixes réflexions sur ses pièces. Leur but est si noble, les sentiments
que l'auteur exprime sont si bien d'accord avec sa conduite persou-
nelle, que ses tragédies doivent toujours ótre louées cornine des actions,
quaud mème elles seraient critiquées, à quelques égards, comme des
ouvrages littéraires.... Alfieri, par un hasard singulier, était, pour alnsi
dire, transplanté de l'antiquité dans les temps modernes; il était né
pour agir, et il n'a pu qu'écrire: son style et ses tragédies se ressen-
tent de cette contrainte. Il a voulu marcher par la littérature à un but
politique: ce but était le plus noble de tous sans doute; mais n'ini-
porte, rien ne denaturo les ouvrages d'imagination conime d'en avoli-
un. Alfieri... a vpulu donner à se? tragédies le caractère le plus au-
stère ». — Colgo questa occasione per segnalare l'opuscolo di Sofia
Ravasi, Leopardi et Mme de Staèl, Milano 1910.
* Per questa canzone, cfr. altresì: E. Zerbini, A. Mai e G. L..
Bergamo 1882; G. Taorìhxa, Sul canto leopardiano ad A. Mai, Pa-
lermo 1890; V. Russo, tra le Note di letteratura ed arte, Catania 1910:
Cesira Perpolli, G. L. e il De Re publica di Cicerone, nell'i Athenaeum <
di Pavia, V, luglio 1917.
ILLUSIRAZIUNI
ALLA SORELLA PAOLINA
E A UN VINCITORE NEL PALLONE
I.
Coììi posizione e prime tracce. — « Alla sorella Paolina ». —
Il giudizio del De Sanciis. — Le donne e le sorti d'Italia.
— Le « beate larve », « Vantico error », V « ermo lido »,
r« obbrobriosa etate ». — I figliuoli « m^iseri o codardi ». —
Il a gradi petto n. — a Nefaìido stile n. — a Yirtìc viva
sprezziam ». — Mimnermo e Anacreonte. — Amore sprone
a virtù,. — Il K femmineo core)), il n rozzo a^cciar )),
?'(( Èrebo ». — La « Virginia » alfieriana e la manzoniana.
Pur (jueste due canzoni nacquero gemelle. In capo a
una serie di Abbozzi e appunti per opere da comporre, ri-
trovati neUe carte napoletane, è lo schema di un'ode
Dell'educare la gioventii italiana, « sul gusto dell'ode 2,
1. 3, d'Orazio », che le avrebbe suppergiù contenute entrambe.
Dice:
A voi sta, padri, madri, di far forti i vostri figli, e dar loro grandi
pensieri e inclinazioni; a voi, d'ispirar loro l'amor della patria. Povera
patria ! ecc. — e si può usare il pensiero di Foscolo che ho segnato ne'
miei [v. dianzi, p. 288]. — Verrà forse tempo che l'armento insulterà alle
ruine de' nostri antichi sommi edifizi ecc. Pensate che se non farete
quello che sarà in voi ecc., forse i vostri figli sopravviveranno alla patria
loro. Questo tempo è gravido di avvenimenti: ricordanze de' fatti pas-
sati; grandi pensieri; calor d'animo ecc. non lo sprecate: la generazione
che sorge ne profitti per cura vostra. Quando ci libereremo dalla super-
stizione, dai pregiudizii ecc.; quando trionferà la verità, il dmtto, la
ragione, la virtù, se non adesso ? Quando risorgerà l'amor della patria ?
quando ? sarà morto per sempre ? non ci sarà più speranza ? Io parlo
a voi: ricordatevi che fortes creaniur fortibus et bonis. Ora ora è '1 tempo
da ritrarre il collo dal giogo antico e da squarciare il velo ecc. O in questa
generazione che nasce, o mai. Abbiatela per sacra, destatela a grandi
cose, mostratele il suo destino, animatela. Così faceano gli antichi
padri; così le madri spartane usciano incontro ai loro figli morti per la
patria ecc. E voi, donne giovani, spronate i vostri amanti ad alte im-
LA CANZONE ALLA PAOLINA 343
])rese. Sublimità di pensieri e coraggio inaudito e desiderio di morte
che può ispirar l'amore. Onnipotenza di chi combatte o fa altra bella
cosa in presenza della sua amante, o col pensiero di lei. Siate grandi, o
giovani mie: imitate le antiche. — Si può finire coll'esempio di Pantea
esortante il marito a combattere l'oppressore dell'Asia ecc., o colla
costanza di Virginia, o con altro esempio di donna verso l'amante,
che forse si potrà trovare in Plutarco, Delle donne illustri. Si potrà anche
fare im'apostrofe ai giovani stessi, come nel mio discorso sui Romantici.
Raccontato il fatto di Pantea, si può conchiudere sul gusto di Fortu-
nati ambo! Si quaeret Pater urbium ecc.
E un poco più avanti, tra gli stessi Abbozzi e appunti,
e con la data del 1821, è quest'altra traccia, più precisa:
A Virginia Romana. Canzone dove si finga di vedere in sogno
l'ombra di lei, e di parlargli [sic] teneramente tanto sul suo fatto quanto
sui mali presenti d'Italia ^
E in verità questa alla Paolina si potrebbe più propria-
mente, com'ebbe a dire il De Sanctis, chiamare « la can-
zone di Virginia ». 11 matrimonio della sorella, desiderato
dai parenti e da lei e lietamente annunziato da lui, ma mi-
seramente sfumato come sfumarono tutti gli altri simili
trattati pur caldeggiati da Giacomo -, non le servì che di
pretesto. « Questa canzone per nozze è vestita a lutto ;
l'idillio x^rende sin dal principio una intonazione tragica,
e riflette in sé non solo il lutto del poeta, ma il lutto del-
l'universo. Il matrimonio », riassumo ancora dal De Sanctis,
« rimane una semplice occasione che fa divampare nell'a-
nima poetica del giovane quella certa serie d'idee sul mondo
e sull'uomo già fissa, divenuta già consuetudine e natura
del suo intelletto.... È un canto funebre, la vita in tragedia....
Paolina presto scompare come un a solo schiacciato dal
coro; e il coro sono le donne: Donne, da voi non poco La
patna aspetta.... Questo è il vero contenuto della canzone,
la missione educativa della donna foggiata a modo classico.
Nelle idee si sente l'Alfieri, nella forma si sente Foscolo....
Si vede un"immaginazione contenuta, che innanzi a' mali
^ Scritti vari inediti, 390-91, 395. Pantea era la moglie di Abradata
re di Susiana, la quale, all'annunzio che il marito era morto, si uccise.
« Epist. I, 159-60, 338, 311, 343, 398, 406, 411, 421, 430, 434-35,
461, ecc.
144 ILLUSTRAZIONI
obbrobriosi della patria uou si slancia nelle onde di un av-
venire vendicatore, in cui non ha fede, ma si ripiega nelle
memorie classiche, dove trova le orme de' primi studi
e delle prime ispirazioni, e dove trova le immagini dei ve-
tusti divini, e di quei tipi maschili di donna di cui s'inna-
morò Alfieri. Là trova la donna spartana,... e là trova Vir-
ginia. Ma il tipo nella contemplazione gli si raddolcisce, ed
ecco venir fuori una Virginia non romana, ma umana,
percossa dal coltello tra' dolci sogni della giovinezza. Alfieri
avrebbe chiamato eroico quel paterno acciaro ; Leopardi
lo chiama rozzo, in mezzo a v.n ritmo divino, che dando evi-
denza alla percossa aggiunge allo strazio, perchè in quel
punto c'è in lui l'uomo più che il patriota, e vagheggia la
trafitta con immaginazione d'artista. Un tratto simile
non lo trovi in tutte le tragedie di Alfieri » ^
Il De Sanctis soggiunge: « Questa canzone è tra le piìi
elaborate. Indovini molte cesellature, è martellata quasi
ogni frase. Versi dolcissimi e di fattura moderna rimangono
naufraghi tra forme arcaiche e mitologiche, e costruzioni
e vocaboli insoliti; e paiono splendori sotterranei che ti
giungono in mezzo al buio ».
È degno di nota come, ancora in una lettera da Pisa
del 19 marzo '28, Giacomo scrivesse all'Antonietta Tom-
m asini:
Vi ringrazio della vostra affettuosa ultima, piena di cosi nobili
sentimenti d'amor patrio. Se tutte le donne italiane pensassero e sen-
tissero come voi, e procedessero conforme al loro pensare e sentire,
la sorte dell'Italia già fin d'ora sarebbe diversa assai da quella che è.
Non è da sperarsi che tutte vi sieno uguali, ma è da desiderarsi che
molte sieno indotte dal vostro esempio a rassomigliarvi.
La canzone fu composta nell'ottobre e novembre del
'22, dopo quelle A un vincitore nel pallone, Bruto, Alla
primavera. Saffo, Ai Patriarchi; le quali le furono bensì
proposte nel volume dei Canti, ma erano state scritte tra
il novembre 1821 e il luglio dell'anno successivo.
' studio su a. L.. p. l!?l ss. Circa l'elemento alfieriano di questa
canzone, cfr. N. Vacca.lluz/.o, V. Alfieri e il seìitimento patriottico di
O. L., Messina 1898, p. 27 ss.; per maggiori notizie sulla Paolina,
B COHEN -CoNiGLiAXi, Im, donna nella vita e nelle opere di O. L., p. 59 es.
LA CANZONE ALLA PAOLINA 345
Le beate larve... (v. 2-3). Giacomo e qui e altrove riiu-
piaiige appassionatamente i sogni e le illusioni della fan-
ciullezza. Il 16 gennaio '21 annotò (Zib. II, 36-7):
Anzi, osservate che forse la massima parte delie iimnagini e sen-
sazioni indefinite clie noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel
resto della vita non sono altro che una rimembranza della fanciullezza,
si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso
e una conseguenza di lei; o in genere o anche in ispecie; vale a dire,
proviamo quella tal sensazione, idea, piacere ecc., perchè ci ricordiamo
e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione, immagine ecc.,
provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze.
Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose,
non è un'immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; ima
ricordanza, una ripetizione, \ina ripercussione o riflesso della immagine
antica. E ciò accade frequentissimamente. Cosi io, nel rivedere quelle
stampe piaciutemi vagamente da fanciullo, quei luoghi, spettacoli,
incontri ecc., nel ripensare a quei racconti, favole, letture, sogni ecc.,
nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima
gioventù ecc. In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali
siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensa-
zioni indefinite che ci restano, giacché non le proviamo se non rispetto
e in virtù della fanciullezza.
L'antico errar (v. 3). Il buon Mestica si fece, nel 1880,
propalatore e poi, nel 1899, paladino della stranissima e
assurda opinione, diffusasi non so come nelle Marche, che
il poeta con queste parole additasse — chi, non nato nelle
Marche, lo sospetterebbe ? — la Santa Casa di Loreto !
(Cfr. ora Studi leopard., p. 211-12, 630-44). Giova riferire
ciò che in proposito scriveva, il 13 agosto 1870, al Viani
il fratello prediletto di Giacomo, Carlo: «Non respinga
l'idea di visitare la casa di Giacomo; bensì nel passare per
Loreto respinga, se tanto mi è lecito, quella che Giacomo
abbia voluto alludervi ,nei versi da Lei citati. L'antico
error, celeste dono, vuol dire le illusioni della prima età,
o io non intendo più il linguaggio di Giacomo ! » ^. E anche
la noterella del De wSanctis: « .... cioè le illusioni che da
tempi antichissimi parvero cose reali, e paiono oggi ancora
nell'età giovanile. È la principale idea fissa di Leopardi;
Appendice alV Epistolario, p. xliu.
i4G ILLUSTRAZIONI
e lo impicciniscono quelli che credono avere egli voluto
alludere alla Madonna di Loreto. Simili miserie troviamo
negFinterpreti di Dante e di Petrarca » ^.
Quell'espressione gli xu forse suggerita da un passo del
De Bepuhlica di quel Cicerone, che egli proclamava, oltre
che « principe della raffinatezza nella prosa latina » (Zib.
lY, 78), «predicatore delle illusioni» (I, 107). Vi si dice
(II, 10): « Romuli autem aetatem... iam inveteratis litteris
atque doctrinis omnique ilio antiquo ex inculta hominum
vita errore sublato fuisse cernimus ». E anche altrove {De
finihus, V, I) Cicerone, discorrendo del potere che spesso
hanno i luoghi, di suscitare i nostri ricordi e commuoverci,
si esprime così: « Naturane nobis hoc datum an errore
quodam, ut, cum ea loca videamus, in quibus memoria
dignos viros acceperimas multum esse versatos, magis
moveamur, quam si quando eorum ipsorum aut facta
audiamus aut scriptum aliquod legamus ?» 2. Al nostro
poeta poi « le parole lontano, antico, e simili » riuscivano
«poeticissime e piacevoli, perchè», diceva (Zib. III, 369:
25 sett. '21; a proposito deUa stanza del Furioso I, 65),
(( destano idee vaste e indefinite e non determinabili e con-
fuse ».
Quest'ermo Udo... (v. 4). Cfr. il son. Solo fra i mesti miei
jìensieri in riva dell'Alfieri: « QiieìV ermo lido e il gran fragor
mi empiva II cuor... D'alta malinconia»; e «le sacre di
Roma erme mine », nel Beneficio del Monti (v. i)iìi sii). Il
Leopardi ebbe molta simpatia per codesto epiteto : « erme
toiTi», Airitalia, v. 2; «erma sede», Bruto. 11; «orma
terrena sede». Ai Patriarchi^ 36; «ermo colle », L'infinito,
I; «erma terra», La vita solitaria, 63; «erme contrade»,
La ginestra, 8.
L'obbrobriosa etate... (v. 6). Nello Zibaldone (I, 366),
il 17 ottobre '20, il poeta aveva osservato:
è pur troppo acerbissima oggidì la condiziono dell'uomo da bene
* Studio su G. L., p. 185.
* A. Butti, Briciole leopardiane, nel « Giora. Stor. d. lett. ital.
XXX, 1897, p. 512.
LA CANZONE ALLA PAOLINA 347
che si unisce in matrimonio. Perchè s'egli non intende di portare e
far sempre vivere i suoi figli nelle selve, deve tenere per indubitatissimo
fino da quel primo punto che il suo matrimonio non frutterà al mondo
altro che qualche malvagio di più. E questo non ostante qualunque
indole, qualunque cura o arte di educazione ecc. Perchè, da che \m
uomo qualimique dovrà entrare nella società, è quasi matematica-
mente certo che dovrà divenire un malvagio, se non tutto a un tratto,
certo a poco a poco ; se non del tutto, certo in gran parte, a proporzione
degli ostacoli ch'esso gli opporrà, ma che in tutti i modi certamente
saramio vinti. E parimente do vrebb 'esser dolorosissimo per l'uomo da
bene il considerare, nel mentre che alleva i suoi figli, che qualvmque
sua cura, qualunque immaginabile speranza di virtù ch'egli ne possa
concepire, è certissimo, per infallibile e continua esperienza, che sa-
ranno, almeno in gran parte, inutili e vane. Sicché tutto quello che può
ragionevolmente sperare e cercare il buon educatore è d'istillare ne'
suoi figli tanta dose di virtù, che venendo senza fallo a scemare, pur
ne resti qualche poco, a proporzione della prima quantità.
Giova forse richiamare ciò che, circa quegli anni me-
desimi, scriveva il Foscolo da Hottingen, 30 marzo 1816,
alla Donna gentile: « Al matrimonio ho sempre, e col cuore
e con le illusioni della fantasia, aspirato; ma la sentenza
Dove non è patria non ti procacciare figliuoli ha vinto ogni
mio desiderio d'ammogliarmi ». E il Foscolo stesso in uno
dei Frammenti di sermoni [Poesie, Firenze 1856, p. 283):
Orfano errai; di me pietà mi vinse;
Pietà, che né di casti abbracciamenti.
Né delle cure d'amorosa moglie
Io non compiacqui mai l'animo mio:
Ma né a me col mio sangue educo affanni.
Né al tiranno piti nerbo e nuovi schiavi.
S'intende che il Leopardi non poteva conoscere né la
lettera né il frammento foscoliano; ma gli é che il Foscolo
e il Leopardi ricalcavano in codesti loro paradossali ragio-
namenti le paradossali argomentazioni dell'Alfieri ^. Il
quale, tra l'altro, lasciò scritto {Tirannide, I, 14):
Ora che dirò io dei figli?.... Grave e fimesto è Terrore di chi, pro-
creandoli, somministra al Tiranno un sì possente mezzo di più per
offenderlo, intimorirlo ed opprimerlo; come a sé stesso procaccia un
mezzo di più, per esseme offeso ed oppresso. E da una delie due susse-
Cfr. ZuMBiXT, Studi sul Leopardi, T, 251-55.
348
ILLUSTRAZIONI
guenti sventure è impossibile cosa di preservarsi. O i figli dell'uomo
pensante si educheranno simili al padre, e perciò, senza dubbio, infe-
licissimi anch'essi: o dal padre riescon dissimili, e infelicissimo lui
renderanno. Nati per le triste loro circostanze al servire, non si pos-
sono senza tradirgli educare al pensare; ma nati pur sempre per natura
al pensare, non può lo sventurato padre, senza tradire la verità, il
suo onore e sé stesso, educargli al servire.
Né pura in gradi petto... (v. lo). Anclie nello Zibaldone
(I, 346: 30 sett. '20; e vedi più avanti gli altri brani che
ne riferisco, a proposito della canz. A un vincitore nel pallone):
Nel corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza
di sentimenti, non forza d'illusioni ecc. Nel corpo servo anche l'anima
è serva.
Ma qui petto ha più il valore dell'omerico (pQéveg = prae-
cordia; come pure nell'Entusiasmo melanconico del Monti:
e 0 flebil antro,... Lascia che in questa almen nera spe-
lonca Ricovri alquanto il conturbato petto >).
Nefando stile.... (v. 28). Pur di quest'altro epiteto il Leo-
pardi fece largo uso: « la nefanda voce di libertà», A Dante,
114; «sì mesto e sì nefando)), Al Maiy 140; «in questo
aer nefando », Alla sua donna, 42.
Virtù viva sprezziaìn.... (v. 30). Ricorda Orazio, Od.
Ili, 24, 30-2:
quatenus, heu nefas!
Virtwteni incoi uniem odimus,
Sublatam ex oculis quaerimus, invidi!
E altresì Epist. II, I, 12-14:
Comperit inmdiam supremo fine domavi.
Urit enim fulgore suo, qui praegravat artes
Infra se posUas: extinctus amabilur idem.
Anche Ovidio aveva sentenziato. Amor. I, 15, 39:
Pascitur in vivis Livor; post futa quiescU.
E altrove {Ex Pont. IV, 16, 2-3):
Non solet ingeniis sum.ma nocere dies.
Famaque post cineres maior venit....
Può avere qualche importanza il rilevare come già il
Voltaire, nella lettera dedicatoria deìV Écossaise. scrivesse:
LA CANZONE ALLA PAOLINA 349
Les justes éloges sont un parfum qu'oii réserre pour embaumer
les morts. Un homme fait du bien, on étouffe ce bien pendant qu'il
respire; et si on parie, on l'exténue, on le défigure: n'est-il plus? on
exagère son mérite pour abaisser ceux qui vivent.
E Velleio Patercolo, II, 92: Praesentia invidia, yrae-
ferita veneraiione 'persequimur. E il Foscolo, nel Jacopo
Ortis (lett. del 27 agosto 1798): «Coloro che hanno eretti
que' mausolei sperano forse di scolparsi della povertà e
delle carceri con le quali i loro avi punivano la grandezza
di que' divini intelletti? Oh quanti perseguitati nel nostro
secolo saranno venerati da" posteri! Ma e le persecuzioni
a' vivi, e gii onori a* morti sono documenti della maligna
ambizione che rode Tumauo gregge ».
Tuttavia credo che la più probabile fonte del Leopardi
sia un frammento, che neìVAntoìogion di Stobeo (tit. 125,
n. 12) è attribuito a Mimnermo: a quel medesimo «poeta
greco antichissimo », cioè, cui il Leopardi ebbe poi ad ac-
cennare nella terza delle Xote ai Canti. Il frammento suona
(Lipsia, 1838, v. Ili, p. 404):
zlen'oì yào àvòoi iràvreg èOf.ièv evKkeel
Zòjvn cf&oi'ìjGai, Kar&a póra ò'aivéoai.
Ai dolce raggio Delle pupille vostre... (v. 33). Il poeta
ha, senza dubbio, l'occhio a quell'epigramma di Anacreonte,
o di qualche suo imitatore, che dice : « La natura diede corna
ai tori, unghie ai cavalli, piedi veloci aUe lepri, gran chiostra
di denti ai leoni, ai pesci il nuoto, agli uccelli il volo, agli
uomini il forte animo. E nulla aUe donne. Come dunque ?
Diede loro la bellezza, invece d'ogni scudo, invece d'ogni
lancia. Anche il ferro, anche il fuoco cederà a colei che è
bella ». Il testo {Poetae lyrici graeci, ediz. Bergk, pt. Ili,
p. 1058) suona:
<PvOts
yvvai^iv ovH èr' eixFA'.
ri ovpyòiòcooi nà/./.o^
àvr' àomòcòv àjtaoàv,
àvr' èyyécov ànàvrcov.
viHà òè uai oiòì]oov
Hai 7TVQ KaÀì) Tl£ OVOU.
350 ILLUSTRAZIONI
Al Leopardi, e s'intende, la poesia squisitamente leg-
giadra e fuggitiva del « vecchiarel vivace » di Teo, ch'era
così cara al Parini, piaceva assai. Di essa scrisse con
arguta delicatezza nello Zibaldone (1, 122-23):
Io, per esprixaere l'effetto iudefinibile che fanno in noi le odi di
Anacreonte, non so trovare similitudine ed esempio più adattato di nn
alito passeggero di venticello fresco nell'estate, odorifero e ricreante,
che tutto in un momento vi ristora in certo modo e v'apre come il
respiro e il cuore con una certa allegria; ma prima che voi possiate
appagarvi pienamente di quel piacere, ovvero analizzarne la qualità
e distinguere perchè vi sentiate così refrigerato, già quello spiro è pas-
sato; conforme appunto avviene in Anacreonte; che è quella sensa-
zione indefinibile e quasi istantanea; e se volete analizzarla vi sfugge,
non la sentite più; tornate a leggere, vi restano in mano le parole sole
e secche; quell'arietta, per cosi dire, è fuggita, e appena vi potete ri-
cordare in confuso la sensazione che v'hanno prodotta un momento
fa quelle stesse parole che avete sotto gli occhi.
Pili tardi, il 16 settembre '23, ritornò su codesto uiudizio,
completandolo (V, 389-90).
.... Aggiungo che siccome questa sensazione lascia gran desiderio
e scontentezza, e si vorrebbe richiamarla e non si può; così la lettura
di Anacreonte; la quale lascia desiderosissimi, ma rinnovando la let-
tura, come per perfezionare il piacere (ch'egli par veramente bisognoso
d'esser perfezionato anche più che ispirar desiderii d'esser continuato),
niun piacere si prova, anzi non si vede né che cosa l'abbia prodotto
da principio, né che ragion ve ne possa essere, né in che cosa esso sia
consistito; e più si cerca, più s'esamina, più s'approfonda, men si
trova e si scopre, anzi si perde di vista non pur la causa, ma la qua-
lità stessa del piacere provato, che, volendo rimembrarlo, la memoria
si confonde; e insomma, pensando e cercando, sempre più si diviene
incapaci di provar piacere alcuno di quelle odi, e risentirne quell'ef-
fetto clie se n'ò sentito; ed esse sempre più divengono quasi stopjia
e s'inaridiscono e istecchiscono fra le mani che le tastano e palpano
lier ispecularle. Di qui si raccolga quanto sia possibile il tradurre in
qualsiasi lingua Anacreonte (e così l'imitarlo appostatamente, e non
a caso né per natura, senza cercarlo), quando il traduttore non potrebbe
neanche rileggerlo per ben conoscer la qualità dell'effetto cli'egli avesse
a produrre colla sua traduzione
E finalmente, il 22 aprile '20 (VII, 107):
Il piacere delle odi di Anacreonte é tanto fuggitivo, e cosi ribelle
a ogni analisi, che per gustarlo bisogna espressamente leggerle con una
certa rapidità, e con poca o ben leggera attenzione. Chi le legge po-
satamente, chi si ferma sulle parti, chi esamina, chi attende, non
LA CANZONE ALLA PAOLINA
vede nessuna bellezza, non sente nessun piacere. La bellezza non istà
che nel tutto, sì fattamente che ella non è nelle parti per modo al-
cuno. Il piacere non risulta che dall'insieme, dall'impressione improv-
visa e indefinibile dell'intero.
E di nervi e di polpe Scemo il valor natio (v. 44-5).
Ricorda il Monti, Per il Congresso d'Udine: «Sì dimesso il
volto Non porteresti e i pie dal ferro attriti, Se del natio
valor prostrati i nervi Superba ignavia non t'avesse ».
Ad atti egregi... (v. 46). Nello Zibaldone (I,, 169), il Leo-
pardi scriveva per sua recente esperienza:
Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando, benché tutto
il resto del mondo fosse per me come morto. L'amore è la vita e il prin-
cipio vivificante della natura, come l'odio il principio distruggente e
mortale. Le cose son fatte per amarsi scambievolmente, e la vita nasce
da questo. Odiandosi, benché molti odi sono anche naturali, ne nasce
l'effetto contrario, cioè distruzioni scambievoli, e anche rodimento e
consumazione interna dell'odiatore.
E vedi dianzi, nella Vita del Poeta (p. 71-2). le lettere del
22 die. 1817 e 16 genn. '18.
D'amor digiuna... (v. 48 ss.). Il Carducci, toccando di
questo luogo incidentemente, a proposito dell'odicina pari-
niana Per nozze {Conversazioni critiche, Roma 1884, p. 273),
ebbe ad esclamare : « Ed ecco, tra le classiche reminiscenze
di Orazio e di Anacreonte, tra i fremiti convulsi del dia-
logismo alfìeriano, tra le severe armonie della piti peregrina.
della più diamantina, della piìi finamente martellata elo-
cuzione poetica che da gran pezzo avesse udito T Italia,
ecco svolazzare al vento sul dirupo una punta della fusciacca
nera di Manfredo e di lord Byron ». Ma quella fusciacca
non ha riconosciuta lo Zumbini {Studi sul L., 1, 257-8);
il quale invece osserva : * Forse in questi versi si potrebbe
vedere un passaggio un po' arbitrario, o non sufficiente-
mente preparato, dalla bellezza della donna a quella della
natura; ma chi badi all'immediato eiìetto che fanno sul
nostro spirito, sentirà in essi egregiamente significata la
parentela fra le piii leggiadre cose della vita umana e quelle
del mondo esteriore, e quindi l'intima corrispondenza, dei
moti che le une e le altre destano in noi. Una vera esultanza
suscita nei cuori gentili la vista del pericolo, o piuttosto
352 ILLUSTRAZIONI
Ogni idea di pericolo sparisce per essi, nou ai)peua la bel-
lezza si manifesti anche nelle sue forme piìi terribili. Non
vedo poi.... quel romanticismo che un illustre scrittore ita-
liano ci ha scorto. Vedo, anzi, che qui il Leopardi, con im-
peto naturalissimo in quelle sue condizioni di animo, è pas-
sato da una ad un'altra visione di bellezza, dando forma
ad impressioni che, divise o congiunte, aveva altre volte
espei'imentate in sé medesimo ».
Se nel femmineo core.... (v. 59-60). Ricorda Cicerone,
De officiis I, 18: « Itaque in probris maxime in promptu
est, si quid tale dici potest: Yos enim, iuvenes, aniìnum,
geritis muliehrem, illa virgo viri ». Cfr. anche Iliade II, 235.
dove Tersite grida ai Greci: « Oh vili, oh infami, oh Achive,
non Achei!»; d'onde Virgilio, Aen. IX, 617: «0 vere
Phrygiae, ncque enim Phryges » ; e il Tasso, Gerus. ìiher.
XI, 61: uo Franchi no, ma Franche»; Aminta, II, I»:
<■ Femine nel sembiante e nelle forze Sono costoro ».
Quando il rozzo yaierno acciai'... (v. 82-3). Virgilio aveva
detto {Aen. IX, 431-32): « Sed viribus ensis adactus Tran-
sabiit costas, et candida pectora rumpit ». — AlV Èrebo...
(84). Virgilio stesso fa dire a Bidone (IV, 25): « Vel Pater
omnipoteiis adigat me fulmine ad umbras, Pallentes um-
bras Èrebi ». E l'Èrebo torna ancora neìVInno «' Pafriarchi,
21.
A me disfiori... (v. 85). È curioso notare che pur nel
poemetto giovanile del Manzoni, d'ispirazione montiana.
Il trionfo della Libertà (e. II), non mancava l'episodio di
Virginia; e anche qui la vergine implorava, alfierianamente
e con accenti danteschi, la morte dal padre:
La figlia che diceva al padre: — Cògli
Questo immaturo fior; tu mi donasti
Queste misere membra, e tu le togli,
I^ria che impudico ardir le incesti e guasti. —
E in quello cadde il colpo, e impallidirò
Le guance e i membri intemerati e casti,
E uscì dal pvu-o sen l'ultimo spiro.
Ed a la vista orribile fremea
Il superbo e deluso Decemviro,
Cui stimolava la digiuna e rea
Libidine, e struggea l'insana rabbia,
Che i già protesi invan nervi rodea;
LA CANZONE ALLA PAOLINA 353
Qual lupo che la preda perdut'abbia,
Batte per fame l'avida mascella,
Rugge, e s'addenta le digiune labbra.
A me s'appresti... la tomba, anzi che Veìupio letto... (v. 80-7).
Così appunto Didoue {Aen. IV, 29) terminava il suo di-
scorso alla sorella: « lUe habeat secum, servetque sepulchro >.
E se pur vita e lena... (v. 89-90). Occorre aver presenti
i versi della tragedia alfìeriana, a cui il novello poeta qui
più che mai aveva rivolta la mente {Virginia, III, 3^).
•Parla Virginia:
E se a svegliar dal suo letargo Roma,
Oggi è pur forza che innocente sangue,
^la non ancor contaminato, scorra.
Padre, sposo, ferite : eccovi il petto !
Ecco di polve Lorda il tiranno i crini (v. 97-8). Cfr. Orazio,
Od. I, 15, 19-20, nel vaticinio di Xereo a Paride pel rapi-
mento di Elena: « Heu! serus adulteros Crines i)ulvere
collines »).
Così Veterna Eoma.... (v. 103 ss.). Cfr. ancora la Virginia
alfìeriana, a. Ili, se. 3^. Parla il padre:
Roma, a sottrarti dai Tarquinj infami.
Forza era pur, ch'una innocente donna
Contaminata, cadesse trafitta
Di propria mano al suol nel sangue immersa !
II.
Il vincitore nel giuoco del pallone che ispirò la canzone. — -
Gli esercizi ginnastici e la rigenerazione politica. — Chia-
brera e Alfieri. — Eiscontri con Parini, Orazio, Ge-
remia, Paolino d'Aqaileia, Ossian. — La « vita beata ».
— Il giudizio del De Sanctis.
Il vincitore nel pallone (giuoco iDopolarissimo nelle Mar-
che, anzi in tutta l'Italia centrale), che die occasione alla
seconda di queste nuove canzoni, era il giovane Carlo
Didimi di Treja, nato il 6 maggio 1798. Bello, alto, smilzo,
singolarmente destro, di nobile famiglia, egli s'acquistò
23. — G. Leopardi.
354 ILLUSTRAZIONI
una vera celebrità in quel classico giuoco, e gli furon mu-
rate iscrizioni ed eretti busti. Fu in amichevoli relazioni
anche coi Leopardi; 'oltreché quasi ogni anno i campioni
trejesi scendevano a misurarsi coi recanatesi. In quel torno
di tempo, s'inscrisse tra i Carbonari; poi, nel 1848-4:9, fu a
capo del municipio nativo, e nel '60 fece parte della Giunta
rivoluzionaria. Morì il 4 giugno del 1877 ^.
Il Leopardi era venuto annotando nello Zibaldone (I,
226, 237, 299, 346, 351, 394):
La salvaguardia della libertà delle nazioni non è la filosofia né la
ragione, come ora si pretende che queste debbano rigenerare le cose
pubbliche, ma le virtù, le illusioni, l'entusiasmo, in somma la natura,
dalla quale siamo lontanissimi. E un popolo di filosofi sarebbe il più
piccolo e codardo del mondo. Perciò la nostra rigenerazione dipende
da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l'intiero e l'intimo
delle cose ci ravvicini alla natura (7 giugno 1820).
Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo
non erano solamente utili alla guerra o ad eccitare l'amor della gloria
ecc., ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor del-
l'animo, il coraggio, le illusioni, l'entusiasmo che non saranno mai in
un corpo debole, in somma quelle cose che cagionano la grandezza e
l'eroismo delle nazioni. Ed è cosa già osservata che il vigor del corpo
nuoce alle facoltà intellettuali e favorisce le immaginative, e per lo
contrario l'imbecillità del corpo è favorevolissima al riflettere (7 giu-
gno 1820), e chi riflette non opera e poco immagina, e le grandi illu-
sioni non son fatte per lui.
- (18 giugno 1820). L'amor della gloria è una passione cosi propria
dell'uomo in società e cosi naturale, che anche ora, ia tanta morte del
mondo e mancanza di ogni sorta di eccitamenti, nondimeno i giovani
sentono il bisogno di distinguersi, e, non trovando altra strada aperta
come una volta, consumano le forze della loro giovanezza, e studiano
tutte le arti, e gettano la salute del corpo, e si abbreviano la vita, non
tanto per l'amor del piacere, quanto per esser notati e invidiati e van-
tarsi di vittorie vergognose, che tuttavia il mondo ora applaude, non
restando a un giovane altra maniera di far valere il suo corpo, e pro-
cacciarsene lode, che questa. Giacché ora pochissimo anche all'animo,
ma tuttavia all'animo resta qualche via di gloria, ma al corpo, che è
quella parte che fa il più, e nella quale consiste per natura delle cose
il valore della massima parte degli uomini, non resta altra strada.
Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo, non ne
e spenta in noi l'inclinazione. Se è tolto l'ottenere, non è tolto, né pos-
' Vedi Mebtica, O. Leopardi e i conli Broglio d'Ajann, ora negli
Studi Leopardiani, Firenze 1901, p. 601 ss.
LA CANZ. AL VINCITORE NEL PALLONE Iì55
sibile a togliere, il desiderare. Non è spento nei giovani l'ardore che li
porta a procacciarsi una vita e a sdegnare la niillità e la monotonia....
(1 agosto 1820).
Non ci son forse uomini così atti ad esser tiranneggiati come i de-
boli di corpo, da qualunque cagione provenga questa debolezza, o da
lascivia e mollezza, come presso i Persiani che dopo il tempo di Ciro
divennero l'esempio dell'avvilimento e della servitù, o da macera-
zione ecc. Nel corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non al-
tezza di sentimenti, non forza d'illusioni ecc. (30 settembre 1820).
Nel coi-po servo anche l'anima è serva.
Bisogna ricordarsi che l'invenzione della polvere contribuì non
poco all'indebolimento delle generazioni..., sopprimendo o togliendo
per conseguenza la necessità di quegli esercizi che o direttamente o
indirettamente, come i giuochi atletici, servivano a render gli uomini
vigorosi ed atti alla guerra (4-5 ottobre 1820).
É osservabile, nella differenza tra i giuochi greci e i romani, la
naturalezza dei primi che combattevano nella lotta, nel corso ecc.,
appresso a poco coi soli strumenti datici dalla natura, laddove i Ro-
mani colle spade e altri istrumenti artiflziali. E quindi la diversa de-
stinazione di quei giuochi, diretti presso gli uni ad ingTandir quasi la
natura ed eccitare le grandi immagini, sentimenti ecc., presso gli altri
o al semplice sollazzo o all'addestramento militare. Così che quelli an-
davano alla sorgente universale ideile grandi imprese, questi si ferma-
vano ad un mezzo particolare. E questa differenza è anche più nota-
bile in ciò che gli spettacoli greci erano eseguiti da uomini liberi per
amor di gloria. Quindi l'effetto favorevole all'entusiasmo, l'eccitamento,
l'emulazione, gli esercizi preparatorii ecc. Gli spettacoli romani erano
eseguiti da' servi. Quindi non altro efletto utile che l'avvezzar gli ocelli
e l'animo agli spettacoli e pericoli della guerra; utilità parziale e secon-
daria, non generale e primitiva come l'altra. Nel che forse si potrà anche
notare la differenza tra un popolo libero e padrone, e un popolo libero
bensì, ma non padrone, se non di sé stesso, com'era il greco (14-15 no-
vembre 1820).
Questa canzone, di soggetto e movimento pindarico,
ricliiama alla mente tre odi del Chiabrera. L'ima, Fer lo
giuoco del pallone ordinato in Firenze dal granduca Co-
smo II Vanno 1618; dov'è anche ricordo del campo Elèo
(lo stadio dell'Elide; cfr. v. 16), e v'è descritto il giuoco:
Non è vii meraviglia
Dal diletto crearsi il giovamento;
Quinci ben si consiglia
Un cor nell'ozio alle bell'opre intento.
Io ben già mi rammento
Sul campo Elèo la gioventute Argiva
Far prova di possanza;
350 ILLUSTRAZIONI
Ed oggi godo in rimirar sembianza
Di quel valor stilla Toscana riva.
Spettacolo giocondo !
Trasvolare dell'aria^ ampio sentiero
Cuoio grave ritondo.
In cui soffio di vento è prigioniero;
Lui precorre leggiero
Il giuocator. mentr'ei ne vien dall'alto;
E col braccio guernito
D'orrido legno lo percuote ardito,
E rimbombando lo respinge in alto.
L'altra, Per li giuocatori del pallone in Firenze Vestate del-
l'anno 1619; dove ricorre nuovamente lo campo Elèo. La
terza, Per Cinzio Venanzio da Cagli vincitore ne' giuochi
del pallone celehraii in Firenze Vestate dell' anno 1619. —
E per l'ispirazione, richiama il j)ensiero così all'appassio-
nata Esortazione a liberar Vltalia dai Barbari, che chiude
il trattato alfìeriano Del ininciiye e delle lettere; come al-
l'accenno, nella Vita (IV, 15), al « divertimento del giuoco
del Ponte », dall'Alfieri goduto in Pisa nel maggio del 1785:
« spettacolo bellissimo, che riunisce un non so che di an-
tico e d'eroico ».
JJemula brama (v. 19) era già nel Parini, In morte di
A. Sacchini (v. 27); e il Parini medesimo aveva chiamato il
serto guadagnato nei giuochi Olimpici: «premio d'onor che
Vuomo bea » {La laurea, v. 177). Da vax tanto maestro è
probabile che il Leopardi avesse appreso a stimare ancor
pili quell'abile ma non sempre fortunato estimatore e ri-
foggiatore di metri lirici che fu il Chiabrera.
JjTnsùltino gli armenti (v. 42) imita l'oraziano [Od.
Ili, 3, 40-41): « Dum Priami, Paridisque busto Insultet
armentum ». — L'aratro sentano... (v. 42-3) imita anch'esso
l'oraziano {Art. poet., 66): «et grave sentit aratrum ». —
Abiterà la cauta volpe (v. 45) deriva da Geremia {Threni,
V, 18): (■ vulpes ambulaverunt in eo ». Donde Paolino
d' Aquileia. più di cinque secoli prima del Petrarca {Canz. 53) ,
attingeva i colori per descrivere la sua città distrutta:
Quae priu.s eras civitas nobilium,
Nane heu! facta es rusticorum spelaeura:
Urbs eras regum; pauperum tugurium
Permanes modo.
LA CANZ. AL VINCITORE NEL PALLONE 357
Repleta quondam domibus subii mibiis,
Ornata mire niveis marmoribus,
Nunc ferax frugum metiris funiculo
Ruricolarum.
Sanctorum aedes solitae nobilium
Turmis impleri, nunc replentur vepribus;
Proh dolor, factae vulpiuìn confugiuni
Sive serpentum.
« Il poeta moderno », osserva il Carducci ^, « nulla certo
sapeva del vecchio lamento latino sopra Aquileia, ma forse
rimutò e rifece in meglio qualche cosa di recente che, mercè
r abilità del traduttore, pareva bello in una famosa impo-
stura scozzese ». Qui s'accenna a quel luogo del poemetto
Cartlioìh di Ossian, che nella versione del Cesarotti suona:
il solitario cardo
Fischiava al vento per le vuote case;
Ed affacciarsi alle finestre io vidi
La volpe, a cui per le muscose mura
Folta e lungh'erba iva strisciando il volto.
(« The thistle shook there its lonelj^ head: the moss whistled
to the wind. The fox looked out from the Windows, the
rank grass of the Avall waved round its head »). — E col
passo leopardiano è da confrontare altresì Tode del Testi,
di cui abbiamo dianzi riferito alcune stanze.
L'atro bosco (v. 4:5-46) traduce il virgiliano {Aen. I, 105)
air uni nemus.
Beata allor... (v. 61 ss.). Nello Zibaldone (VI, 13) il
Leopardi annotò, il 26-7 settembre 1823:
L'uomo che pensa a combattere il pex'icolo, e che in effetto è oc-
cupato esteriormente a combatterlo, si può dir che non pensa al peri-
colo, bench'ei perfettamente l'intenda. Quella cura ed attività este-
riore ed interiore è una specie di potentissima, efficacissima e total di-
strazione che diverte l'immaginativa e l'intelletto dal pensiero, dalla
considerazione, dalla contemplazione, per così dii-e, e dalla vista di
quel pericolo medesimo, a cui ella è tutta intenta di riparare, ed al
qual solo ella è rivolta.
E nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gidierrez
Studi saggi e discorsi, Bologna 1898, p. 197 .ss.
358 ILLUSTRAZIONI
faceva dire da Colombo (ed è da riscontrare l'appunto auto-
biografico che abbiam riferito nella Vita del poeta, p. 61):
Scrivono gli antichi... che gli amanti infelici, gittandosi dal sasso
di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e
scampandone, restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla passione
amorosa. Io non so se egli si debba credere che ottenessero questo ef-
fetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno per mi poco
di tempo, anco senza il favore di Apollo, avuta cara la vita, che prima
avevano in odio; o pure avuta più cara e più pregiata che innanzi.
Queste due Canzoni, dice il De Sanctis, k si possono
cliiamare uno strascico delle prime, le ultime voci del pa-
triottismo. Ma se pel coH.tenuto si rassomigliano alle prime,
e sono come un ulteriore e logico sviluppo di quelle, per
la forma sono già altra cosa, sono le canzoni nuove. Non
trovi più quegli impeti. C'è qui un umor nero e denso, un
vedere scuro sotto a quella apparenza di energia e a quella
pompa di esortazioni, alle quali egli medesimo non crede,
e la sua predica finisce con un omnia vanitas.... Certo, qui
dentro sono ancora i segni dell'antico entusiasmo. 11 gio-
vane partecipa a' moti e a' sentimenti italiani, alle speranze
e a' timori, s'interessa per le lettere e per la cultura, fa
schizzi e progetti, ama la gloria, ama la virtìi, guarda con
cuore commosso nell'avvenire. Qiii è la somiglianza delle
due nuove canzoni con le tre prime.... Ma fra l'entusiasmo
s'infiltrano umori malinconici, impressioni e sentimenti
scettici, che nell'iUtima, al Vincitore nel pallone, prendono
il di sopra.... Già in queste due canzoni nuove, massime
neir ultima, presentite la crisi, cioè quel momento in cui,
dopo lungo contrasto e strazio interiore, l'anima si trova
balestrata in una via, dalla quale non si parte più. Nella
canzone al Vincitore nel j^ffUone il poeta esorta la gioventù
ad addestrare e fortificare il corpo, ricordando i miracoli
della storia greca in versi magnifici, che testimoniano un
entusiasmo non ancora spento. Ti aspetti una ode di Pin-
daro, quando tutto a un tratto il cielo si fa buio, e la mente
percossa del poeta ti rappresenta in lontananza l'ultima
rovina deUa patria. Non si trova in tutta la poesia nostra
una grandiloquenza pari a questa, che ti pone innanzi ga-
gliardamente la grandezza della patria e il funebre rumore
LA CANZ. AL VINCITORE NEL PALLONE 369
della sua caduta. Ma se la patria muore senza rimedio, e
se nella vita non è alcun fine alto, se la vita è un agitarsi
nel vuoto, che giova la forza e il coraggio? Che giova ad-
destrare ed educare il corpo ? Contradizione manifesta
tra il fine e la conclusione. E stretto pure ad uscirne, il
poeta vagheggia come fine della vita disprezzare la vita,
gittandola così per gioco ne' rischi, e sentendo tutte le
emozioni di questo gioco. Su questa via Leopardi avrebbe
incontrato Byron, De Musset, tutt'i poeti scettici, che cer-
cano nella vita non altro che la emozione, e pur maledi-
cendola ubbidiscono ai suoi istinti, gittandosi negli amori,
ne' piaceri, nelle avventure, in un moto assiduo, che allevii
loro di dosso il peso della vita. Lo scetticismo non ha altra
via aperta che questa, la via dell'emozione; balenata in-
nanzi a Leopardi tra reminiscenze classiche in una forma
condensata ed energica » ^.
BRUTO MINORE, ALLA PRIMAVERA,
AI PATRIARCHI, SAFFO
I.
Data della composizioìie. — Il preambolo al « Bruto ». — ■
Le 'prime idee del « Bruto » e della « Sajfo ». — Chiose
al « Bruto » e alla « Saffo ». —- Giudizio del Garducci e
dello Zumbini.
Nelle carte napoletane sono indicati i giorni della crea-
zione di questi Canti: il Bruto, «in 20 giorni del decembre
1821»; Alla Primavera, «in 12 giorni del gennaio 1822»;
V Ultimo canto di Saffo, «in 7 giorni del maggio 1822»;
VI mio ai PatriarcJii, «in 17 giorni del luglio 1822».
Come preambolo al Bruto minore, fu, nell'edizione bo-
lognese del '24, stampata la Gomparazione delle sentenze di
^ Le nuove canzoni del L., nei « Saggi critici », III, p. 1-10 ss.
360 ILLUSTRAZIONI
Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, soppressa poi
nelle posteriori ^. Essa comiucia:
Io non credo che si trovi in tutte le memorie dell'antichità voce
più lacrimevole e spaventosa, e con tutto ciò, parlando umanamente,
più vera di quella che Marco Bruto, poco innanzi alla morte, si rac-
conta che profferisse in dispregio della virtù: la qual voce, secondo
che è riportata da Cassio Dione, è questa: O virtù miserabile, eri una
parola nuda, e io ti seguiva come tu fossi una cosa: ma tu sottostavi alla
fortuna.... Quei moltissimi che si scandalezzano di Bruto e g'ii fanno
carico della detta sentenza, danno a vedere l'ima delle due cose: o
che non abbiano mai praticato familiarmente colla virtù, o che non
abbiano esperienza degl'infortuni, il che, fuori del primo caso, non
pare che si possa credere. E in ogni modo è certo che poco intendono
e meno sentono la natura infelicissima delle cose limane, o si mara-
vigliano ciecamente che le dottrine del Cristianesimo non fossero pro-
fessate avanti di nascere. Quegli altri che torcono le dette parole a
dimostrare che Bruto non fosse mai quell'uomo santo e magnanimo che
fu riputato vivendo, e conchiudono che morendo si smascherasse,
argomentano a rovescio: e se credono che quelle parole gli venissero
dall'animo, e che Bruto, dicendo questo, ripudiasse effettivamente
la virtù, veggano come si possa lasciare quello che non s'è mai tenuto,
e disgiungersi da quello che s'è avuto sempre discosto. ..
( 'he il poeta meditasse e vagheggiasse già da tempo quei
concetti e quei sentimenti che poi espresse nel Bruto e
nella Saffo, mostrano due brani di lettera al Giordani, l'uno
del 2 marzo '18, l'altro del 26 aprile '19.
In somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e
flisperatissimo in quel tempo che mi s'andava formando e mi si do-
veva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e
senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l'aspetto miserabile, e
dispregevolissima tutta quella gran parte dell'uomo, che è la sola a
cui guardino i più: e coi più bisogna conversare in questo mondo; e
non solamente i più, ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù
non sia senza qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda af-
fatto, s'attrista, e per forza di natura, che nessuna sapienza può vin-
cere, quasi non ha coraggio d'amare quel virtuoso in cui niente è bello
fuorché l'anima....
' Prose originali di G. L., a cura di G. Mestica, Firenze, Barbèi'a
18t)0, p. 460 ss. — Il Tocco ha dimostrato, x\r\V Atene e Roma, a. II,
p. 242 ss., che la sentenza di Teofrasto, conservataci da Diogene Laerzio,
fu dal Leopardi interpretata con soverchia simpatia ma con poca
verosimiglianza storica.
BRUTO MINORE 361
Io uou trovo cosa desiderabile in questa vita, se non i diletti del
cuore e la contemplazione della bellezza, la qual m'è negata affatto
in questa misera condizione. Oltre che i libri, e particolarmente i vostri,
mi scorano insegnandomi che la bellezza appena è mai che si trovi in-
sieme colla virtù, non ostante che sembri compagna e sorella. Il che mi
fa spasimare e dispei'are. Ma questa medesima virtù quante volte io
sono quasi strascinato di maUssimo grado a bestemmiare con Bruto
moribondo. Infelice, che per quel detto si rivolge in dubbio la sua
virtù, quand'io reggo per esperienza e mi persuado che sia la prova
più forte che ne potesse dar egli, e noi recare in favor suo.
Tra gii Abbozzi e appiinii per opere da comporre, è,
sotto ranno 1821, anclie una brevissima traccia d'una can-
zone A Bruto, dove il poeta si proponeva di finger di ve-
dere in sogno r ombra di lui, « e di parlargli teneramente
tanto sul suo fatto quanto sui mali presenti d'Italia,.".,
notando e compiangendo l'abiura da lui fatta della virtù ).
Il 18 gennaio di quell'anno, egli aveva a buon conto preso
nota del passo di Floro (IV, 7): <( Sed quanto effioacior
est fortuna quam virtus ! et quam verum est quod moriens
Brutus efflavit, non in re, sed in verbo tantum esse vidutem )k
Due mesi dopo, il 19 marzo, potè esprimere nello Zibaldone
(II, 41 e 201-03) le sue meditazioni, che avrebbero tra poco
trovata la ])m cospicua forma poetica nella mirabile can-
zone.
La nostra condizione oggidì è peggiore di quella de' bruti anche
per questa parte. Nessun bruto desidera certamente la fine della sua
vita, nessuno, per infelice che possa essere, o pensa tòrsi dalla infeli-
cità colla morte, o avrebbe il coraggio di procurarsela. La natura che
in loro conserva tutta la sua primitiva forza, li tiene ben lontani da
tutto ciò. Ma se qualcimo di essi potesse desiderar mai di morire, nes-
suna cosa gl'impedirebbe questo desiderio. Noi siamo del tutto alienati
dalla natura, e quindi infelicissimi. Noi desideriamo bene spesso la
morte e ardentemente, e come imico evidente e calcolato rimedio delle
-nostre infelicità: in maniera che noi la desideriamo spesso, e con piena
ragione, e siamo costretti a desiderarla e considerarla come il sommo
nostro bene. Ora, stando così la cosa, ed essendo noi ridotti a questo
punto, e non per errore ma per forza di verità, qual maggior miseria
che il trovarsi impediti di morire e di conseguire quel bene che, sic-
come è sommo, cosi d'altra parte sarebbe intieramente in nostra mano;
impediti, dico, o dalla religione o dall'inespugnabile, invincibile, ine-
sorabile, inevitabile incertezza della nostra origine, destino, ultimo
fine, e di quello che ci possa attendere dopo la morte ?
Io so bene che la natura ripugna con tutte le sue forze al suicidio,
362 ILLUSTRAZIONI
=so che questo rompe tutte le di lei leggi più gravemente che qualunque
•altra colpa umana; ma da che la natura è del tutto alterata, da che
la nostra vita ha cessato di esser naturale, da che la felicità che la na-
tura ci aveva destinata è fuggita per sempre e noi slam fatti incura-
bilmente infelici, da che quel desiderio della morte, che non dovevamo
mai, secondo natura, neppur concepire, in dispetto della natura e
per forza di ragione s'è anzi impossessato di noi; perchè questa stessa
ragione c'impedisce di soddisfarlo e di riparare nell'unico modo pos-
sibile ai danni ch'ella stessa e sola ci ha fatti ? Se il nostro stato è cam-
biato, se le leggi stabilite dalla natura non hanno più forza su di noi,
perchè non seguendole in nessuna di quelle cose dov'elle ci avreb-
bero giovato e felicitato, dobbiamo seguirle in quella dove oggidì ci
nocciono e sommamente ? Perchè, dopo che la ragione ha combattuta
e sconfitta la natura per farci infelici, stringe poi seco alleanza, per
porre il colmo all'infelicità nostra, coll'impedirci di condurla a quel
fine che sarebbe in nostra mano ? Perchè la ragione va d'accordo colla
natura in questo solo, che forma l'estremo delle nostre disgrazie ? La
ripugnanza naturale alla morte è distrutta negli estremamente infelici,
quasi del tutto. Perchè dunque debbono astenersi dal morire per ub-
bidienza alla natura ?
Il fatto è questo. Se la religione non è vera, s'ella non è se non
im'idea concepita daUa nostra misera ragione, quest'idea è la più bar-
bara cosa che possa esser nata nella mente dell'uomo; è il parto mo-
struoso della ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa
nostra capitale nemica, dico la ragione, la quale avendo scancellate
dalla mente, dall'immaginativa e dal cuor nostro tutte le illusioni
che ci avrebbero fatti e ci faceano beati, questa sola ne conserva, questa
sola non potrà mai cancellare se non con un intiero dubbio (che è tut-
t'uno, e ragionevolmente deve produrre in tutta la vita umana gli
stessi effetti né più né meno che la certezza), questa sola che mette il
colmo alla disperata disperazione dell'infelice. La nostra sventvira, il
nostro fato ci fa nùseri, ma non ci toglie, anzi ci lascia nelle mani il
finir la miseria nostra quando ci piaccia. L'idea della religione ce lo
vieta, e ce lo vieta inesorabilmente e irrimediabilmente; perchè nata
\m.a volta quest'idea ncUa mente nostra, come accertarsi che sia falsa ?
e anche nel menomo dubbio, come arrischiare l'infinito contro il finito ?
Non è mai paragonabile la sproporzione che è tra il dubbio e il certo
con quella che è tra l'infinito e il finito, ancorché questo certo, e quello
quanto si voglia dubbio. Così che, siccome l'infelicità per quanto sia
grave nondimeno si misura principalmente dalla diu'ata, essendo sempre
piccola cosa quella che può durare, volendo, un momento solo, e di più
servendo infinitamente ad alleggerire qualunque male il saper di certo
eh 'è in nostra mano il sottrarcene ogni volta che ci piaccia; così pos-
siamo dire che oggi, in viltima analisi, la cagione della infelicità del-
l'uomo misero ma non istupido né codardo, è l'idea della religione, e
che questa, se non è vera, è finalmente il più gran male dell'uomo e il
sommo danno che gli abbiano fatto le sue disgraziate ricerche e ragio-
namenti e meditazioni o i suoi pregiudizi.
BRUTO MINORE 363
Qualche ckioserella spicciola alla (Janzone.
I primi versi trovano un adeguato commento nelle con-
siderazioni storiche dello Zibaldone (I, 106-8), a proposito
delle orazioni politiche di Cicerone.
Cicerone predicava indarno; non c'erano più le illusioni d'una
volta, era venuta la ragione, non importava \in fico la patria, la gloria,
il vantaggio degli altri, dei posteri ecc. : eran fatti egoisti, pesavano il
proprio utile, consideravano quello che in un caso poteva succedere:
non più ardore, non impeto, non grandezza d'animo: l'esempio de'
maggiori era una frivolezza in quei tempi tanto diversi. Così perderono
la libertà, non si arrivò a conservare e difendere quello che più: Bruto
per un avanzo d'illusioni aveva fatto, vennero gl'imperatori, crebbe
la lussuria e l'ignavia: e poco dopo, con tanto più filosofia, libri, scienza,
esperienza, storia, erano barbari.
La ruina (v. 2) e VEsperia (v. 4) sentono deiroraziano
{Od. II, 1, 32): « Hesperiae sonitum ruinae ». — - Il calpe-
stio... (v. 5) riproduce anche l'oraziano {Epod. XYI, 11-12):
« Barbarus, heu, cineres insistet victor, et urbem Eques
sonante verberabit ungula». — Le selve ignude (v. 6) si
riferiscono aUa descrizione virgiliana, della Scizia {Georg.
Ili, 352-3): « neque ullae Aut herbae campo apparent,
aut arbore frondes ». — Fermo già di morir (v. 12): Orazio,
Od. I, 37, 29: «Deliberata morte ferocior ». — Cave nebbie
(v. 16): Aen. I, 516: «nube cava». — - Se numi... (v. 20):
Ovidio, 2Ieiam. VI, 548: « Audiat haec aether, et si Deus
ullns in ilio est ». — Tanto i celesti odii.... (v. 25): Aen. I, li :
<' Tantaene animis coelestibus irae ? ». — ■ E quando esulta...
(v. 27): Ovidio, Jletam. XIII, 892: « Osque cavum saxi
sonat exultantibus undis ». — Siedi, Giove, ecc. (v. 27):
Aen. lY, 208 ss.: « An te, genitor, quum fulmina torques,
Nequicquam horremus, caecisque in nubibus ignes Terri-
ficant animos, et mania murmura miscent ? » (e cfr. Lu-
crezio, II, 1100-04). — Necessità (v. 32): Orazio, Od. I,
35, 17: « saeva Xecessitas, Clavos trabales et cuneos manu
Gestans aena ». — 3Ien duro (v. 35): Orazio, Od. I, 24,
19-20: « sed levius fìt patientia, Qind(luid corrigere est
nefas ». — Guerra.... guerreggia (v. 38-9) è rifatto sull'o-
merico {Iliade II, 121) jróÀe/nov 7i:o/.€,ui^€iv, reso dal Monti
(v. 161) «Guerra guerreggia. Il Leopardi medesimo aveva
scritto, il 15 gennaio '21, neUo Zibaldone (II, 29 ss.):
364 ILLUSTRAZIONI
In luogo che un'auiina grande ceda alla necessità, non è forse cosa
che tanto la conduca all'odio atroce, dichiarato e selvaggio contro sé
stessa e la vita, quanto la considerazione della necessità e irrepara-
bilità de' suoi mali, infelicità, disgrazie ecc. Soltanto l'uomo vile o
debole, o non costante o senza forza di passioni, sia per natm'a, sia
per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e patimenti ed espe-
rienza delle cose e della natura del mondo, che l'abbia domato e man-
suefatto; soltanto costoro cedono alla necessità e se ne fanno anzi
un conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare
e combatterla ecc. Ma gli antichi sempre più grandi, magnanimi e forti
di noi, nell'eccesso delle sventure e nella considerazione della necessità
di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva
e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene,
concepivano odio e furore contro il fato e bestenuniavano gli Dei,
dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì e incapaci
di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, né ammansati, né
meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e
la necessità era maggiore.... Io, ogni volta che mi persuadeva della
necessità e perpetuità del mìo stato infelice e che, volgendomi dispe-
ratamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio pos-
sìbile, né speranza nessuna....; concepiva un desiderio ardente di ven-
dicarmi sopra me stesso e colla mia vita, della mia necessaria infelicità
inseparabile dall'esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma
nell'idea del suicidio ^.
Di cedere inesperto (v. 40): Orazio, Od. I, 6, 6: «cederò
iiescii ». — Indomito scrollando.... (v. 42) fa pensare alla
sentenza che Lucano (Vili, 267-9) mette in bocca a Pompeo,
dojìo la sconfitta di Farsaglia: « Nec sic mea fata premuntur,
Ut nequeam relevare caput, cladesque receptas Excutere ».
— E maligno.... sorride (v. 45) trova riscontro in un'osser-
vazione, che al poeta venne fatta leggendo la Corinne'-:
' Cfr. il Preambolo al volgarizzamento del Manuale di Epitteto;
e dianzi, nella Vita del poeta, le pp. 58-61. Negli Scritti vari inediti,
]>. H97-9, è un Frammento sul suicidio.
' Nello Zibaldone, I, 197. — La Staci, a proposito della recita
d"un dramma inglese, aveva scritto (1. XVII, eh. 4): « Enfln il arriva
ce moment tcrrible où Isabelle, s'étant échappée des maius des femmcs
qui veulent l'empécher de se tuer, rit, en se donnant un coup de poi-
gnard, de rinutilité de leurs efforts. Ce rire du dósespoir est l'effet le
plus difficile et le plus rcmarquable que le jeu dramatique puissc pro-
duire : il émeut bien plus que les larme.- : cette amòre ironie ■du malheur
est son expression la plus déchirante. Qu'elle est terrible la souffirance
du coeur, quand elle inspire une si barbare joie, quand elle donne, k
l'aspect de son propre sang, lo coutentement feroce d'un sauvage en-
nemi qui se serait vengé ! ».
BRUTO MINORE 365
.... Se la .=;reiitiira arriva al colmo..., l'uomo passa ad odiare la
vita, l'esistenza e sé stesso, egli si abborre come un nemico: e allora
è quando l'aspetto di nuove sventure o l'idea e l'atto del suicidio gli
danno una terribile e quasi barbara allegrezza, massimamente se egli
pers'enga ad uccidersi essendone impedito da altrui; allora è il tempo
di quel maligno amaro e ironico sorriso, simile a quello della vendetta
eseguita da im uomo crudele, dopo forte lungo e irritato desiderio: il
qual sorriso è l'ultima espressione della estrema disperazione e della
somma infelicità.
O da montano sasso... (v. 65) ricorda ancora Orazio,
Od. Ili, 27, 61 : « Sive te rupes et acuta letho Sàxa delectant ;
age, te procellae Crede veloci»; e Sat. I, 2, 41: « Hic se
praecipiteni tecto dedit ». — Dal mar cui nostro sangue ir-
riga (v. 76): Orazio. Od. II, 1, 34-6: « quod mare Dauniae
Xoii decoloravere caedes ì Quae caret ora cruore nostro ì ».
— Candida luna (v. 77): cosi l'aveva detta Virgilio, Aen.
VII, 8-9. — Cognati petti (v. 80): « cognataque pectora
supplex», in Ovidio, Metani. VI, 498. — DaìU somme vette...
(v. 81-2): Aen. II, 200: « ruit alto a culmine Troia». —
Tacita... (v. 87): Aen. II, 255: « tacitae per amica silentia
Lunae ». — Agiterà... (v. 100): Ovidio, Metani. Ili, 356:
« trepidos agitantem in retia cervos»; e Orazio, Od. II,
13, 39-40: « Xec ciu'at Orlon leones, Aut timidos agitare
lyncas ». — Ululati spechi (v. 103): Stazio, Theh. I, 328:
'< Ogygiis ululata furoribus antra ». — Conscia futura età
(v. 110): Aen. X, 679: '(Xec conscia fama sequatur ». —
In peggio Precipitano i tempi (v. 112-13): Georg. I, 199-200:
« Sic omnia fatis In peius mere ».
Ancora nel maggio 1832, scrivendo da Firenze al De
Sinner, il poeta si richiamava al suo Bruto, protestando
contro le facili deduzioni d"un critico, l'Henschel, il quale
néìTHesperus di Stuttgard del 9 e 10 aprile, occupandosi
dei suoi scritti, attribuiva ad essi « una tendenza religiosa ».
Quels que soient mes malheurs, qu'on a jugé à propos d'étaler et
qua peut-étre on a un peu exagérés dans ce journal, j'ai eu assez de
courage pour ne pas chercher à en diminuer le poids ni par de frivoles
espérances d'une prétendue felicitò future et inconnue, ni par une
làche résignation. Mes sentiments envers la destinée ont été et sont
toujours ceux que j'ai exprimés dans Bruto minore. Q'a. été par suite
de ce méme courage, qu'étant amene par mes recherches à une phi-
losoplìie désespérante, je n'ai pas hésité à l'embrasser toute entière;
366 ILLUSTRAZIONI
tandis que de l'autre coté ce n'a été que par effet de la lacheté dea
hommes, qui ont besoin d'ètre persuadés du mérite de l'existence, que
l'on a voulu considérer mes opinions philosophiques cornine le resultai
de mes souflrances particulières, et que l'on s'obstine à attribuer à
mes circonstances matérielles ce qu'on ne doit qu'iì, mon entendement.
Avant de mourir, je vais protester con tre cette invention de la faiblesse
et de la rulgarité, et prier mes lecteurs de s'attacher à détruire mes
observations et mes raisonuements plutòt que d'accuser mes maladies.
Quanto all' Ultimo canto di Saffo, il povero Giacomo
aveva, fin dal 21 agosto '20, consacrato nelle sue note
(I, 321) questo doloroso pensiero:
La compassione spesso è fonte di amore, ma quando cade sopra
oggetti amabili o per sé stessi o in modo che, agariimta la compassione,
lo possano divenire. E questa è la compassione che interessa e dura e
si riaflkiccia più volte all'anima. Maggiori calamità in un oggetto anche
innocentissimo ma non amabile, come in persona vecchia e brutta, non
destano che una compassione passeggera, la quale finisce ordinaria-
mente colla presenza dell'oggetto o dell'immagine che ce ne fanno i
racconti ecc. (e l'anima non se ne compiace e non la richiama). I quali
ancora bisogna che sieno ben vivi ed efficaci per commuoverci mo-
mentaneamente, laddove poche parole bastano per farci compatire
una giovane e bella, ancorché non conosciuta, al semplice racconto
«Iella sua disgrazia. Perciò Socrate sarà sempre più ammirato che com-
pianto, ed è un pessimo soggetto per tragedia....
La vispezza e tutti i movimenti e la struttura di quasi tutti gli
uccelli sono cose graziose. E però gli uccelli ordinariamente sono ama-
bili.
Sulla deformità di Socrate, non meno celebre e misere-
vole di quella di Saffo, il poeta tornerà qualche anno dopo,
nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri (cap. I). Si può
bene affermare che, come nel Canto egli ritrae sé stesso
nella infelice poetessa, qui, nell'Operetta morale, ei si di-
pinga in Socrate.
Socrate nato con animo assai gentile, e però con disposizione gran-
dissima ad amare; ma sciagurato oltre modo nella forma del corpo;
verifiimilmente fino nella giovanezza disperò di potere essere amato
con altro amore che quello dell'amicizia, poco atto a, soddisfare un
cuore delicato e fervido, che spesso senta verso gli altri un affetto
molto più dolce. Da altra parte, con tutto che egli abbondasse di quel
coraggio che nasce dalla ragione, non pare che fosse fornito bastan-
ULTIMO CANTO DI SAFFO 367
temente di quello ohe viene dalla natura, né delle altre qualità che
in quei tempi di guerre e di sedizioni, e in quella tanta licenza degli
Ateniesi, erano necessarie a trattare nella sua patria i negozi pub-
blici. Al che la sua forma ingrata e ridicola gli sarebbe anche stata
di non piccolo pregiudizio appresso a un popolo che, eziandio nella
lingua, faceva pochissima differenza dal buono al bello, e oltre di oiiV
deditissimo a. motteggiare.
Non ricercherò le fonti classiche di questa o quell'altra
espressione: il soggetto antico consigliava e istigava il
dottissimo poeta a costruire, e a fondere in armoniosa
unità, uno stile a musaico, eh' è riuscito singolarmente
maraviglioso. Mi contenterò di notare che il verecondo raggio
lunare (v. 1) riflette l'espressione montiana, della Basvil-
liana, IV, 199-200: «La luna il raggio..,. Pauroso mandava
e verecondo »; — la tacita selva (v. 3) è il « tacitum nemus »
virgiliano {Aen. VI, 386); — il nunzio del giorno che spunta
in su la rupe (v. 3-4) ricorda {Aen. II, 801-02) 1' ( lamque
iugis summae surgebat Lucifer Idae, Ducebatque diem»;
— il mentre ignote... (v. 5) riproduce l'altro luogo virgiliano
{Aen. IV, 651) « Dum fata Deusque sinebant »; — e per il
resto, rimando allo Zumbini {Studi, I, 319 ss.).
A riscontro del passaggio Noi Vinsueto.... (v. 8 sa.),
giova aver presente U magnifico sonetto dell'Alfieri:
Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva
Al mar là dove il Tosco fiume ha foce.
Con Fido il mio destrier pian pian men giva;
E mugglan l'onde irate in suon feroce.
Quell'ermo lido, e il gran fragor mi empiva
Il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)
D'alta malinconia; ma grata, e priva
Di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.
Dolce oblio di mie pene e di me stesso
Nella pacata fantasia piovea;
E senza affanno sospirava io spesso :
Quella, ch'io sempre bramo, anco parca
Cavalcando venisse a me dappresso....
Nullo error mai felice al par mi fea.
E giova altresì leggere quanto il poeta medesi-^^jiT ann.orava\.
il 18 novembre 1821, nello Zibaldone (IV, ^,1:):
Piace l'essere spettatore di cose vigorose ecc. feooi non solo relative
agli uomini, ma comunque. Il tuono, la tempesìro-i fe< grandine, il venta
368 ILLUSTRAZIONI
gagliardo veduto o udito, e i suoi efletti ecc. Ogni sensazione viva
porta seco nell'uomo una vena di piacere, quantunque ella sia per sé
stessa dispiacevole o come formidabile o come dolorosa ecc.
Anche la ripresa, piena di tanta angoscia e di tanto
entusiasmo. Belìo il ino manto... (v. 19 ss.), riceve nuova
luce e nuovi palpiti di vita e di sentimento da un'altra nota
del poeta, de] 5 marzo 1821 (li, 148-49):
L'uomo d'immaginazione, di sentimento e di entusiasmo, privo
della bellezza del corpo, è verso la natm-a appresso a poco quello ch'è
verso l'amata un amante ardentissimo e sincerLssimo, non corrisposto
nell'amore. Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente pro-
fondissimamente tutta la forza, tutto l'incanto, tutte le attrattive,
tutta la bellezza, l'ama con ogni trasporto; ma, quasi che egli non fosse
punto corrisposto, sente ch'egli non è partecipe di questo bello che ama
ed ammira, si vede fuor della sfera della bellezza, come l'amante escluso
dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell'amata. Nella considera-
zione e nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra sé stesso
gli è sempre penoso. Egli sente subito e continuamente che quel bello,
quella cosa che egli ammira ed ama e sente, non gli appartiene. Egli
prova quello stesso dolore che si prova nfel considerare o nel vedere
l'amata nelle braccia di un altro o innamorata di un altro e del tutto
noncurante di voi. Egli sente quasi che il beUo e la natura non è fatta
per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a considerare,
meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della
natura, incapaci di sentirla e di conoscerla ecc.); e prova quello stesso
disgusto e fìerissimo dolore di un povero affamato, che vede altri ci-
barsi dilicatamente, largamente e saporitamente, senza speranza nes-
suna di poter mai gustare altrettanto. Egli insomma si vede e conosce
escluso senza speranza e non partecipe dei favori di quella divinità
che non solamente è presente, ma gli è anzi così presente, così vicina,
ch'egli la sente come dentro sé stesso e vi s'inunedesima, dico la bel-
lezza astratta e la natura.
11 Vivi j elice... (v. 01-2) ricorda le parole di Micol nel
Haul alfìeriano (V, 1): « Ma pure, Io no, non bramo il morir
tuo: felice Vivi; vivi, se il puoi ». — E VOgni più lieto Giorno
di nostra età primo s'invola... (v. 65) traduce il virgiliano
{Georg. Ili, 66-7): « Optima quaeque dies miseris morta-
libus aevi Prima fugit: subeunt morbi, tristisque senectus.
Et labor, et durae rapit inclementia mortis ».
Nelle carte napoletane s'è rinvenuto una specie di com-
mento che il Leopardi medesimo aveva scritto intorno a
questa canzone. Vi si dice:
ULTIMO CANTO DI SAFFO 369
Il fondamento di questa Canzone sono i versi che Ovidio scrive
in persona di SafEo, Epist. 15, v. 31 segg.: Si mihi difflcilis formam
natura negavit ecc. La cosa più difficile del mondo, e quasi impossi-
bile, si è d'interessare per una persona brutta; e io non avrei preso mai
questo assunto di commuovere i lettori sopra la sventura, della brut-
tezza, se in questo particolar caso, che ho scelto a bella post^, non
avessi trovato molte circostanze che sono di grandissimo aiuto. Cioè,
1°) la gioventù di SafEo, e il suo esser di donna. Noi scriviamo prin-
cipalmente agli uomini. Ora ni inoza fea, ni vieja hermosa [né ragazza
brutta, né vecchia bella], dicono gli Spagnuoli. 2°) Il suo grandis-
,simo spirito, ingegno, sensibilità, fama, anzi gloria immortale, e le
sue note disavventure, le quali circostanze par che la debbano fare
amabile e graziosa, ancorché non beUa; o se non lei, almeno la sua
memoria. 3°) E sopra tutto, la sua antichità. Il grande spazio frapposto
tra Saffo e noi confonde le immagini, e dà luogo a quel vago ed incerto
che favorisce sommamente la poesia. Per bruttissima che Saffo po-
tesse essere, che certo non fu, l'antichità, l'oscurità de' tempi, l'incer-
tezza ecc., introducono quelle illusioni che suppliscono ogni difetto. '
In questi due Cauti il poeta pare che abbia seguito
l'esempio di Orazio (cir. Od. I, 15; III, 3 e 27), per quel
rievocare personaggi storici o mitici, e mettere uella loro
bocca la parte maggiore e migliore dell'ode. XeU'uno,
osserva il Carducci, il Leopardi si atteggia alla ribellione
della disperazione e alla bestemmia contro la virtìi, e vi
si atteggia nella toga d'un senatore romano che avea fatto
molto, duno stoico tanto superiore alle passioni, d'un
oratore che scriveva così urbanamente il bel latino aristo-
cratico; vi si atteggia nella persona di Bruto, il quale sul
campo di Filippi, dopo nominati a uno a uno gli amici
morti in battaglia, volto al cielo stellato, disse con un verso
greco: 0 Giove, non ti sia ascoso colui che è cagione di tanti
nostri mali!, e si appellò sicuro al giudizio dei posteri;
di Bruto, cui nessuno antico avrebbe mai imaginato e nes-
suno che conosca gli spiriti repubblicani di Roma può con-
sentirsi d'imaginare nell'atto di declamare allume della luna
invettive contro gli dèi della patria e giaculatorie rousseau-
iane: quando Giacomo Leopardi fece tutto cotesto, com-
* '■ Io non so da me medesimo vedere ', aveva già osservato il
Boccaccio {Decarn. VI, 2), (.chi più in questo si pecchi, o la natura
apparecchiando a una nobile anima *un vii corpo, o la fortuna ap-
parecchiando a un corpo dotato d'anima nobile, vii mestiere .
24. — G. Leopardi.
370 ILLUSTRAZIONI
mise, è vero, un'audacissima coutaminazione di sé con Marco
Bruto, ma per l'audacia stessa, e per quella sincerità di
menzogna, e per quella potenza dintonazione e di fanta-
stica eloquenza e di parola solenne, ornata, tonante, clas-
sica, egli commise una contaminazione sublime; e il Bruto
minore è, tra le poesie del Leopardi, di quelle che più danno
la misura dell'ingegno e dell'animo suo ». E il Carducci
medesimo soggiunge, a proposito deìV Ultimo canto di Sajfo:
« La poetessa di Lesbo, che non fu né brutta né infelice
come il Leopardi l'accolse a imagine sua da una tarda
tradizione, e che della bellezza e dell'amore intese gustò
e cantò più che non potesse il Leopardi, Saffo non avrebbe
pensato né poetato così mai; ma quella rassegnazione al
mistero dell" infelicità, al dolore solitario, alla solitudine
vedovile, quella rinunzia accorata ai beni della vita e della
natura, suona così intimamente sentita e pare così a suo
posto in quel gemito di poesia imaginata femminile ! » ^.
Bruto minore e Sajfo, osserva lo Zumbini ^, « sono due
concezioni sorelle che rispecchiano Tanimo del poeta: amen-
due informate dall'idea che la virtù per sé sola è poca cosa,
e che anzi nelle sue lotte soggiace sempre alle forze avverse...
Poi, i personaggi delle due canzoni ci appariscono come
dotati di qualità anche superiori a quelle che avevano dalla
tradizione e dalla storia. Martire di libertà l'uno, martire
di amore l'altro, martiri entrambi di quel pensiero che,
conosciute le leggi della vita, si disamora della vita. Par-
rebbe che quello stesso levarsi dei grandi spiriti a tanta
altezza, facesse loro odioso il vivere e bello il morire...
Saffo e Bruto ne diventano straordinariamente sublimi:
l'una nel seno della civiltà greca, l'altro della romana,
rappresentano quei magnanimi errori, onde i due popoli
fecero cose sì grandi ed hanno due storie insuperabili. Se
dopo Saffo quelle felici illusioni durarono ancora un gran
tratto di tempo, alla caduta di Bruto già cominciavano
a tramontare: sembrò, dunque, al Leopardi che la morte
dell'eroe fosse il confine tra la giovinezza del mondo e la
* Studi Saggi Discorsi, p. 248-49.
• Studi sul Leopardi, I, 30 1.
ULTIMO CANTO DI SAFFO 371
maturità, seguita poi ai tempi nostri dalla vecchiezza. Bruto,
eroe e martire di quei magnanimi errori, viene colla sua
terribile sentenza a significare che la gioventù, lo splen-
dore e gl'ideali tutti della vita umana perivano per sempre I
Simili nell'idea suprema che le anima, queste canzoni sono
poi molto diverse nelle qualità particolari dei loro per-
sonaggi, nelle sentenze accessorie e nelle immagini. In
Bruto c'è dell'infernale, in Saffo del celestiale; l'uno arieggia
Capaneo, l'alti'a, benché più lontanamente, Piccarda ».
IL
« Alla Primavera ». — Le favole mitologiche e i poeti moderni.
— Il sermone « Sulla Mitologia » del Monti. — Giudizio
dello Zumbini. — - Qualche chiosa. — !/'« Inno ai Pa-
triarchi ^y e gViiInni Cristiani ^k — Traccia dell\i Inno
ai Patriarchi)). — Abbozzo delV ( Inno al Redentore ». —
Qualche chiosa.
Colla canzone Alla Primavera ha forse stretto rapporto
ciò che il Leopardi scriveva al Giordani, il 6 marzo 1820:
Sto anch'io sospirando caldamente la bella primavera come l'miica
speranza di medicina che rimanga allo sfinimpnto dell'animo mio; e
poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia
stanza, e vedendo un cielo puro, un bel raggio di luna, e sentendo
un'aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si sveglia-
rono alcime immagini antiche, e mi parve di sentire tm moto nel cuore,
onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia
alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in
quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla
quale era certo di ritornare subito dopo, com'è seguito, m'agghiacciai
dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare
la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entu-
siasmo; delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio
tempo, e mi facevano così beato, non ostante i miei travagli. Ora sono
stecchito e inaridito come una canna secca, e nessuna passione trova
più l'entrata di questa povera anima, e la stessa onnipotenza etema
er sovrana dell'amore è annullata a rispetto mio nell'età in cui mi trovo....
Questa è la miserabile condizione dell'uomo, e il barbaro insegnamento
della ragione, che, i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel
372 ILLUSTRAZIONI
travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose sia sempre
e solamente giusto e vero. E se bene regolando tutta quanta la nostra
vita secondo il sentimento di questa nullità finirebbe il mondo, e giu-
stamente saremmo chiamati pazzi, in ogni modo è formalmente certo
che questa sarebbe ima pazzia ragionevole per ogni verso, anzi che a
petto suo tutte le saviezze sarebbero pazzie, giacché tutto a questo
mondo si fa per la semplice e continua dimenticanza di quella verità
universale, che tutto è nulla. Queste considerazioni io vorrei che fa-
cessero arrossire quei poveri filosofastri che si consolano dello smisu-
rato accrescimento della ragione, e pensano che la felicità umana sia
riposta nella cognizione del vero, quando non c'è altro vero che il nulla;
e questo pensiero, ed averlo continuamente nell'animo, come la ragione
vorrebbe, ci dee condurre necessariamente e direttamente a questa
disposizione che ho detto; la quale sarebbe pazzia secondo la natura,
e saviezza assoluta e perfetta secondo la ragione.
E quasi spunti di essa canzone sono in due Pfnftieri
dello Zibaldone (I, 159 e 175), della fine del '19.
Un esempio di quanto fosse naturale e piena di amabili e naturali
illusioni la mitologia greca è la personificazione dell'eco.
Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l'im-
maginazione umana, e viva umanamente, cioè abitata o formata di
esseri uguali a noi! quando nei boschi desertissimi si giudicava per
certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ecc.,
ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato !
E così de' fonti abitati dalle Naiadi ecc. E stringendoti im albero al
seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani, credendolo un uomo o
donna, come Ciparisso ecc. ! E cosi de* fiori ecc., come appunto i fan-
ciulli.
È un fatto singolarissimo della poesia moderna questo,
ha osservato lo Zumbini (I, 264), che « i maggiori poeti dei
tempi ultimi hanno considerato la morte delle favole an-
tiche come uno dei più giavi danni che mai potessero in-
tervenire alla vita umana e segnatamente all'arte. Diversi
di fede, d'ingegno, di lingua e di affetti, quei poeti furono
mirabilmente concordi nel dolersi della perdita di quella
gran felicità umana che, per loro giudizio, derivava dalla
fede nelle favole mitologiche. Tanta unità, tanta concordia
in un pensiero e in un amore da cui parrebbe avesse ad
essere aliena la coscienza moderna, è un fatto molto no-
tevole, e degno che si studi nelle sue cause e nelle sue ma-
nifestazioni poetiche ». Lo Zumbini medesimo studia co-
desto sentimento nelle poesie del Wordsworth, del Keats —
LA CANZONE ALLA PRIMAVERA 373
la cui ode Sopra un'urna greca può lontanamente ricordare
il canto Sopra un basso rilievo antico sepolcrale — , dello
Shelley, del Platen, dello Schiller {Die Gótter Griechenlands,
gli Dei della Grecia, è di tutte le altre la poesia che più
s'avvicina alla leopardiana ^); e anche nel carme Sulla Mi-
tologia del Monti. Il quale, benché lamenti la morte delle
divinità mitologiche per ragioni quasi meramente estetiche,
tuttavia delle antiche finzioni tocca « con una tenerezza
non minore di quella che per esse ha il Leopardi». Così
quando accenna al rosignuolo, dolendosi che nel suo canto
non piii ci sia dato intendere una storia di dolore; così
ancora quando lamenta che dentro la buccia degli alberi
non sentiamo più palpitare il petto di qualche gentile
creatura. Ma non ostante tutte queste e altre somiglianze,
nel Monti ci sembra rimpicciolito quel grande concetto e
quel grande dolore, che informano i Canti degli altri poeti
moderni. Egli considerava la morte delle favole mitologiche
come un effetto delle dottrine romantiche, e confidava che
dottrine migliori potessero ristorare i danni prodotti da
quelle; perchè credeva, in sostanza, che ciò che un tempo
animava la natura, fosse quasi un a creazione dei poeti
antichi, mossi dal fine di poter così meglio dilettare. Forse
non sentì, certo non mostrò di sospettare, che la rovina di
quelle immaginazioni procedeva da cause più profonde,
e che dunque non si poteva più rifare neirimmaginazione
ciò che non poteva più rivivere nella coscienza dei moderni.
Come nelle altre canzoni del secondo periodo, il Leopardi
ammira nei nostri avi « le virtù civili, l'incomparabile ca-
rità patria, l'amore immenso alla gloria, tutti insomma
quelli ch'egli stesso chiamava foìii errori »; in questa della
Primavera ammira la ricchezza della fantasia e del senti-
mento, onde i nostri padri popolarono dei pili leggiadri
fantasmi il mondo fisico: gii ameni errori. Nel sentire il
nuovo insperato palpito che la primavera gli destava nel
seno, il poeta grida con uno sconsolato desiderio: Vìvi tu.
^ E par proprio che il Leopardi la conoscesse. Cfr. Lavinia Maz-
ZUCCHETTi, Schiller in Italia, Milano, Hoepli, 1913, p. 147-56.
374 ILLUSTRAZIONI
rivi, o sauia Naturaf vivi...? Codesto vivi, tre volte ripe-
tuto, « par l'angosciosa interrogazione di un figlio, che, as-
sistendo allo spegnersi della madre, non voglia credere a
ciò che pure i suoi occhi gli hanno già detto. Poi, quasi
togliendosi di un tratto al dubbio tormentoso, ritorna a
cantare di quel tempo quando la natura, non che viva, era
ancor bella di gioventù e tutta affetto materno per l'uomo ».
E comincia una maravigliosa rappresentazione, che ha un
tono tra l'elegia e l'inno: l'accento dell'elegia soverchia,
«luando il poeta guarda al presente; quello dell'inno, quando
vagheggia il passato. Come ridente e seducente la visione
della natura al tempo antico ! Tutta questa rappresenta-
zione è di una perfetta semplicità e purezza classica. « Pure,
ìh tanta precisione di forme, c'è qualche cosa di mezzo ve-
lato e di ondeggiante: tali sono quelle ombre incerte, quelle
nivee membra della Diva, immergentesi nelle acque e non
palese allo sguardo del pastorello. Qui l'arte antica, spo-
sata al sentimento moderno, dà vita a quelle immagina-
zioni vaghe e perplesse che, come diceva il Leopardi me-
desimo, sono principal cagione della bellezza poetica, anzi
di ogni altra bellezza del mondo ».
Dafne, Filli, le Eliadi, Eco, Filomela: una intera fa-
miglia di storie leggiadre insieme e pietose destasi nella
mente del lettore, che si sente trasportato in mezzo ai
boschi di quelle antiche età, popolati di creature così sven-
turate e così gentili. « L'olocausto di una vita umana ad
un grande amore o ad una grande idea, una nobile vita
.spenta prima che vecchiezza l'avesse spogliata di beltà e
di passioni, furono sempre tra le cose più ammirate dal
Jjcopardi >. Pur scrivendo questo canto, egli chiese alla
mitologia creature in cui gentilezza ed amore fossero state
congiunte a morte ; e ne ebbe di più amorose e appassionate
ancora che non erano quelle che fino allora gli aveva fornite
la storia. Ma quelle soavi visioni spariscono ben presto:
rimane la natura senza vita, la primavera fiorita bensì ma
senza ciò che ne faceva veramente la festa : sono fiori « non
molto diversi da quelli che fanno corona a una bella fan-
ciulla morta I ». Con gli ultimi otto versi, e specie con quella
ripresa se tu pur vivi, il poeta torna al concetto che aveva
LA CANZONE ALLA PRIMAVERA 375
lasciato interrotto. La preghiera alla Natura, d'aver mi-
sericordia di lui, non potuta compiere pel sopravvenire dei
vaghissimi fantasmi del tempo antico, gii torna più calo-
rosa sulle labbra ora che si sente nuovamente solo nel-
l'immenso deserto della vita.
Dei poeti moderni che han cantato le favole antiche,
« nessuno », concludo con lo Zumbini, « vi adoprò immagini
e forme così essenzialmente classiche, come quelle adope-
rate dal poeta nostro; onde si potrebbe dire che, fra tante
gentili voci ridestatrici della vita antica, la voce del Leopardi
rassomiglia a quella di uno stesso antico che, superstite a
tutti i suoi, ricordi e pianga i cari estinti ».
Qualche chiosa.
Perchè... e perchè... (v. 1 e 2). Con un Perchè comincia
anche la canz. Sopra il monumento di Dante; e là come qua,
il perchè ha il valore di benché. — I celesti danni (v. 1). Da
Orazio, Od. IV, 7, 13:-((Damna tamen celeres reparant cop-
lestia lunae». — ■ Delle nubi... (v. 4). Da Virgilio, Georg. 1,
401 : « At nebulae magis ima petunt, campoque recumbunt ».
— Credano... (v. 5) = affidino. Il Leopardi difese ampia-
mente questa accezione del vocabolo, in una nota alla
stampa bolognese del '24; dove addusse pur quest'esempio
del Poliziano: «Né si credeva ancor la vita a' venti». — -
Induca (v. 9) = infonda.
La bella età (v. 12) che la primavera è incapace di ren-
dere all'uomo, è la giovinezza dell'individuo o la giovinezza
della specie ? E il poeta piange qui il precoce invecchiamento
di alcuni infelici, o la vecchiezza collettiva dell'umanità ?
Manfredi Porena (neUa Bihliot-eca degli studiosi, Napoli,
10 febbraio 1910) crede debba interpretarsi nel primo modo.
« 11 poeta », egli osserva, « come tante volte, anche in questa
poesia parte da una situazione individuale; al pensiero
del fatto generale, storico, assurge durante la contempla-
zione, ed è un pensiero così importante, così poetico e filo-
sofico insieme, che egli vi indugia a lungo. Ma alla fine ri-
torna là dond'era partito, cioè a sé stesso, uscendo in quella
invocazione suprema alla Natura (v. 90-1): la javilla antica
Bendi allo spirto mio, rendimi la favilla della mia giovinezza !
La quale non avrebbe luogo, dove in tutto il componimento
376 ILLUSTRAZIONI
il poeta Dou avesse parlato altro die duu invecchiameuto
deUiimanità in genere... Il tema fondamentale, iniziale, è
dunque quel certo risveglio che, con maraviglia quasi piii
che con letizia, il poeta sente operare in sé dalla primavera... ;
ma questo risveglio gli fa pensare a quel che doveva essere
di veramente lieto lo spettacolo del mondo naturale mentre
vigevano le belle favole antiche; e, con mossa tutta leo-
pardiana, la celebrazione duu bene diviene rimpianto
d'un meglio, l'inno alla Primavera muore nell'epicedio alla
Mitologia: per ritornare poi ond'era partito, invocando
almeno quel po' di balsamo al suo cuore che la natura pri-
maverile sembra promettergli ».
Atra face (v. 12-3). Da Seneca, Hippoì., v. 1217: « Do-
nator atrae lucis k — Tenti (v. 17) = stimoli. — Dissueto
(v. 21). In una nota all'ediz. del "24, il Leopardi stesso:
« Voglio che sappiano i pedagoghi eh" io poteva dire
disusato per dissueto colla stessissima significazione; ed era
parola accettata nel Vocabolario: oltre che in questo senso
riusciva elegante, e di più si veniva a riporre nel verso come
da se stessa. Ad ogni modo volli piuttosto quell'altra. E
perchè? Questo non tocca ai pedanti di saperlo». — Li-
quidi fonti (25) = limpidi. Cfr. Ariosto, Ori. Fur. I, 37:
«Che de le liquide onde al specchio siede»; e Chiabrera,
canz.: «Assetata discese Verso un liquido rivo»: da Vir-
gilio, Ecl. II, 59: "et liquidis imuihi fontibus ax)ros ». —
Il 'pastorel... {V. 28). Cfr. Orazio, Od. Ili, 29, 21: .< lam
pastor umbras cum grege languido, Eivumque fessus quae-
rit ». — Arguto carme (v. 31) = stridulo sonoramente. Cfr.
La vita solitaria, 66: « Odo sonar nelle romite stanze L'arguto
cantoì). — La farjtrata Diva {v. 35), Diana. Cfr. Ovidio, Met.
Ili, 163: uHic Dea silvarum, venatu fessa, solebat Virgineos
artus liquido perfundere rore ». — ■ Ciprigna luce (v. 44).
Meglio che la Luna, a cui corre subito il pensiero, dev'esser
proprio Espero. Si rilegga Vldillio ottavo di Mosco, nella
versione del Leopardi medesimo: «0 caro amabil Espero,
O luce aurea di Venere, Sacra di notte immagine. Seconda
il mio desir. Tu della luna argentea Sol cedi al chiaro splen-
dere... Sul mio cammin propizia Spargi tua luce tacita ».
l' inno ai patriarchi 377
— Curvo etra (68-9) = volta celeste. Cfr. Yalerio Fiacco,
V, 414: « ciirvoque diem siibtexit Olympo ». — Cognato
(v 77). Cfr. Bruto minore, 80: «cognati petti» = di con-
sanguinei.
Li' Inno ai Patriarchi è l'unico che il poeta conij)! d'una
serie d'Inni Cristiani: a Dio, al Redentore, a Maria, agli
Angeli, ai Patriarchi, a Mosè. ai Profeti, agli Apostoli, ai
Màrtiri, ai Solitari; dei quali nelle carte napoletane sono
state rinvenute le tracce. Pare ch'ei si proponesse di pre-
mettere ad essi un Discorso intorno agVinni e alla poesia
cristiana; per cui intanto veniva prendendo qualche nota.
Ragionevolezza dei conservar ia Cliiesa gl'inni suoi antichi, come
pure i Romani gl'inconditi versi saliari ecc. Ma niente di bello poetico
s'è scritto religiosamente, eccetto ìVIilton ecc. Bellezza della religione.
Primitivo della Scrittura. Unione della ragione e della natura eco
Ma principalmente l'inno ch'è poesia sacra dev'esser tratto dalla reli-
gione dominante.... E si può trar bellissimo dalla nostra. Né però si è
tratto. E dev'esser' popolare ecc. E la religione nostra ha moltissimo
di quello che somigliando all'illusione è ottimo alla poesia. Si potranno
esaminare gl'inni di Prudenzio, e se c'è altro celebre innografo cri-
stiano.
Questi appunti rimontano al 1820, o tutt'al più al '21;
e a quel tempo, dunque, il Leopardi non ancora conosceva
gVInìii Sacri del Manzoni, dei quali i primi quattro eran
pubblicati fin dal '15 ^ Del '22 èia lunga e diffusa trac-
cia in prosa dell' Inno ai Patriarchi, il quale nel pensiero
del poeta avrebbe dovuto costituire la « canzone nona ».
In essa egli condensò il più e il meglio delle idee che aveva
raccolte per gl'inni. E s'intende che molto è nella traccia,
che non ebbe poi svolgimento e traduzione ritmica nell'Inno.
Dopo l'apostrofe al ■< duce antico e padre dell'umana fa-
miglia », il poeta si proponeva: « Eva, Donne, Bellezza,
* Eppure, come mi fa notare il dott; A. Guidi già mio disce-
polo, nello Spettatore del 1816 erano stati ristampati due di codesti
Inni !
378 ILLUSTRAZIONI
.SUO impero, sua corruzione ». Dopo raccenno a Caino,
quesf altro: «Set, cioè consolatore. Vizi del genere umano,
e sua corruttela avanti il Diluvio ». E dopo l'invocazione
di Noè e il ricordo deUa sua salvazione:
Torre di Babele. Nembrod, principio della tirannia. Confusione
delle lingue, e principio delle nazioni. Diffusione del genere umano
per la terra. Il nostro globo s'empie tutto di sventure e di delitti. Noi
le insegniamo a terre vergini, le quali per la prima volta sentono l'in-
fluenza dell'uomo, e con ciò solo divengono consapevoli del male e del
dolore, cose fin qui sconosciute e non esistenti per loro. — In propo-
sito dell'Arca di Noè, de' suoi avanzi che al tempo d'Eusebio si mostra-
vano ancora, dic'egli, sui monti d'Arabia ecc., si potrà fare una digres-
sione sulla nautica, sul commercio, sull'tisurpato regno del mare, sui
morbi, sulle calamità derivate da queste cagioni.
Venendo finalmente a parlare di « Abramo, vita pasto-
rale de' Patriarchi », il poeta ammoniva sé stesso : « Qni
rinno può prendere un tuono amabile, semplice, d'imma-
ginazione ridente e placida, com'è quello degl'inni di Calli-
maco ». E più avanti, dopo d'aver notato che « cresciute
le colpe e l'infelicità degli uomini, tacque la voce viva di
Dio, e il suo sembiante si nascose agli occhi nostri, e la terra
cessò di sentire i suoi piedi immortali, e la sua conversa-
zione cogli uomini fu troncata », ei rimandava a « Catullo,
nel principio del poema de Nuptiis ecc. ». Soggiungeva:
E in proposito della vita pastorale de' Patriarchi, considerata spe-
cialmente e descritta in quella di Abramo, Isacco, Giacobbe, si farà
questa digressione o conversione lirica. Fu certo fu, e non è sogno, né
favola, né invenzione di poeti, né menzogna di storie o di tradizioni,
un'età d'oro pel genere umano. Corse agli uomini un aureo secolo,
come aurea corre e correrà sempre l'età di tutti gli altri viventi, e di
tutto il resto della natura. Non già che i fiumi corressero mai di latte,
né che ecc. V. la 4=* egloga di Virgilio, e la chiusa del prim'atto del-
VAminta, e del quarto del Postar fido. Ma s'ignorarono le sventure,
che, ignorate, non sono tali ecc. ecc. « E tanto é miser l'uom quant'ei
si reputa ». .Sannazaro.
A questo punto cominciava, e seguiva poi lungamente,
a parlare delle e Californie selve » e della vita beata, ma
immaginaria, di quella « gente felice a cui le radici e l'erbe
e gli animali raggiunti col corso, e domi non da altro che
dal proprio braccio, son cibo, e l'acqua de' torrenti bevanda.
GL INNI CRISTIANI 379
e tetto gli alberi e le spelonche contro le piogge e gli ura-
gani e le tempeste ». La traccia finiva così:
Con questa digressione si potrà molto bene conchiudere. Volendo
seguitare, si potrà dir di Giuseppe, delle sue avventure ecc. Ultimo
de' patriarchi nati pastori, entra fìnalment-e nelle Corti. Finisce la vita
pastorale: incomincia la cortigiana e cittadinesca: nasce la fame del-
l'oro, la sfrenata e ingiusta ambizione ecc. ecc., e d'indi in poi la storia
dell'uomo è una serie di delitti e di meritate infelicità.
Degl'I?! ni Cristiani è a deplorare che il poeta non abbia
più composto quello Al Bedentore. Xell' abbozzo — memore
forse del versetto di Paolo a^li Ebrei (lY, 15): «poiché
noi non abbiamo già un sommo sacerdote il quale non sia
al caso di compatire alle nostre miserie ed infermità, anzi
egli. Gesù, ha tutto provato, è stato tentato ugualmente
in ogni cosa, senza peccato » — , ei si rivolge per pietà al-
l'Uomo -Dio, pregandolo di dimenticare per poco la sua
potenza divina, e di risentirsi uomo, e di aver dunque com-
passione della nostra miserabile stirpe. Gli dice:
Tu sapevi già tutto ab aeterno, ma permetti alla immaginazione
ximana che noi ti consideriamo come più intimo testimonio delle nostre
miserie. Tu hai provato questa vita nostra, tu ne hai assaporato il
nulla, tu hai sentito il dolore e l'infelicità dell'esser nostro, ecc. Pietà
di tanti affanni, pietà di questa povera creatura tua, pietà dell'uomo
infelicissimo, di queUo che hai veduto; pietà del genere tuo, poiché
hai voluto aver comim.e la stirpe con noi, esser uomo ancor tu....
Le antiche fole finsero che Giove, venendo nel mondo, restasse
irrita tissimo deUe malvagità umane e mandasse il diluvio. Era allora
la nostra gente assai men trista.
Che 'l suo dolor non conosceva e 'l suo
Crudel fato;
e ai poeti parve che la vista del mondo dovesse movere agli Dei più
ira che pietà. Ma noi già fatti cosi dolenti, pensiamo che la tua vi-
sita ti debba aver mosso a compassione. E già fosti veduto piangere
sopra Gerusalemme. Era in terra questa tua patria, giacché tu pure
volesti avere una pàtna in terra; e doveva essere distrutta, desolata
ecc. ecc.
Così tutti Siam fatti per infelicitarci e distruggerci scambievol-
mente; e l'Impero Romano fu distrutto, e Roma pure saccheggiata
ecc.; e ora la nostra misera patria ecc. ecc.
Ora vo da speme a speme tutto giorno errando, e mi scordo di
te, benché sempre deluso, ecc. Tempo verrà ch'io, non restandomi altra
luce di speranza, altro stato a cui ricorrere, porrò tutta la mia spe-
ranza nella morte; e allora ricorrerò a te, ecc. Abbi allora miseri-
cordia, ecc.
380 ILLUSTRAZIONI
Auclie allo stato d'abbozzo, quest'inno è un capolavoro;
e la chiusa, così umana e sconsolata, ci stringe il cuore,
meglio forse che tanta altra parte della poesia leopardiana,
in cui non sarebbe arduo riconoscere qualche atteggiamento
un po' voluto e sforzato. Essa è la preghiera disperata di
chi sente mancarsi; è l'ultimo accento di chi vorrebbe pre-
gare ancora, ma non ha piìi la fede che lo conforti. Que-
st'inno è il canto estremo di una fiduciosa giovanezza che
tramonta, ed è il tragico preludio d'una scarna e deserta^
virilità che paurosamente s'annunzia ^.
Anche qui qualche chiosa.
L'alma luce (v. 5-6) = il sole. Cfr. Aen. Vili, 455:
u lux suscitai alma ». — Immedicati (v. 6) = immedicabili.
Cfr. Tasso, Aminta, II, 1: « E pur fa tanto grandi e sì mor-
tali E così immedicabili le piaghe ». — - La diritta... legge del
cielo (v. 10-1) è quasi certamente da identificare con quella
« vera Icx recta ratio uaturae congruens, diffusa in omnes,
constans, sempiterna, quae vocet ad officium iubendo,
vetando a fraude deterreat », della quale discorre Cicerone
nel De Ite puhlica, III, 22. — La tiranna possa de' mòrbi...
(v. 12-3) ricalca Orazio, Od. I, 3, 29: «Post ignem aetheria
domo Subductum, macies et nova febrium Terris incubuit
cohors... ». — Demenza maggior (v. 16). Pare che questo
passo debba trovare una spiegazione nel Pensiero del
19 marzo '21 (Zib. II, 201-03), a proposito'del suicidio;
che conclude: « così possiamo dire che oggi, in \iltima ana-
lisi, la cagione della infelicità dell'uomo misero ma non istu-
pido né codardo è lidea della religione, e che questa, se
non è vera, è finalmente il piìi gran male dell'uomo e il
sommo danno che gli abbiano fatto le sue disgraziate ri-
cerche e ragionamenti e meditazioni o i suoi pregiudizi ».
E quale D'amarissimi casi ordin? imm^saso... (v. 37-8) rie-
cheggia il pariniano : « per lungo Di magnanimi lombi ordine
il sangue». — Incesta (v. 41) = contamina. Aen. VI, 150:
« totamque incestai funere classem». — Primo i civili tetti...
' Cfr. .^CHEmLTX), Tu2nir, beata, un di jìrovasli il pianto, uel voi.
« Capua a F. de Renzb », Napoli 1906.
l'inno ai patriarchi 381
(v. 46). Cii-. Zib. I, 296: Il primo autore delle città, vale a
dire della società, secondo la Scrittura, fu il primo riprovato,
cioè Caino, e questo dopo la colpa, la disperazione e la ri-
provazione. Ed è bello il credere che la corruttrice della
natura umana e la sorgente della massima parte de' nostri
vizi e scelleraggini sia stato in certo modo effetto e figlia
e consolazione della colpa. E come il primo riprovato fu il
primo fondatore della società, così il primo che definitiva-
mente la combattè e maledisse fu il rendentore della colpa,
cioè Gesù Cristo». — Agl'inaccessi... (v. 67). Da Orazio,
I, 3, 23: « Si tamen impiae Xon tangenda rates transiliunt
vada )). — Illude (v. 68) = insulta. — ■ Addisse (v. 86) ==
assoggettò. — Jucionio canto (v. 88) = la poesia. — Dilettosa
e cara (v. 90), come nella Saffo (v. 4): « oh dilettose e care... ».
— Intemerata (v. 93) =- pura. — Indutto (v. 100). Xell'ediz.
del '24, il poeta aveva annotato: « Maniera tolta ai Latini,
ma per amore, non. per forza. L'Ariosto nel XXVII del
Furioso [st. 69] : ' Ed egli e Ferrati gli aveano indotte L'arme
del suo progenitor Xembrotte'. Questa locuzione al mio pa-
lato è molto elegante; ma quelli che non mangiano se non
Crusca, sappiano che questa non è Ciiisca, e però la spu-
tino. Vuol dire gliele aveano vestite, ed è frequentatissima
nella buona latinità con questa e con altre significazioni ».
IL PRIMO AMORE E IL FRAMMENTO XXXVIII,
IL FRAMMENTO XXXIX E IL SOGNO.
LA SERA DEL Di DI FESTA
L
Composizione del u Primo amore ». — La Gertrude Cassi. — -
Il '< Diario d'amore » o « Storia d' un'anima ». — i'« Elegia
II ^^ e il <i Frammento XXXIUII ». — Shalespeare . —
La traccia delle -nuove Elegie. — Qualche chioserella.
Il Primo amore fu pubblicato la prima volta nell* edi-
zione bolognese del 1826, col titolo di Elegia I; ma C(.m-
posto era fin dall'estate del '18.
382 ILLUSTRAZIONI
Da qualche tempo il fantasioso giovinetto si struggeva
del desiderio di « parlare e conversare, come tutti fauno,
con donne avvenenti », delle quali, lasciò scritto, « un sor-
riso solo, per rarissimo caso gittato sopra di me, mi pareva
cosa stranissima e meravigliosamente dolce e lusinghiera » ;
quando, la sera degli 11 dicembre '17, capitò ospite in casa
loro la cugina Gertrude Cassi, sui ventisei anni, sorella
del traduttore di Lucano, col marito, un conte Giovanni
Lazzari, « di oltre a cinquanta, grosso e pacifico ». Gia-
como aveva sentito dire che fosse bella, e la immaginò
« capace di dare qualche sfogo » a quel suo antico e vago
desiderio. Vistala, la descrive così:
Alta e membruta quanto nessuna donna ch'io m'abbia veduta
mai, di volto però tutt 'altro che grossolano, lineamenti tra il fort« e
il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne
e, secondo me, graziose, lontanissime dall'affettato, molto meno lon-
tane dalle primitive, tutte proprie delle signore di Pcomagna e parti-
colarmente delle Pesaresi, diversissime, ma per una certa qualità ine-
sprimibile, dalle nostre marchegiane*.
La sera dell'arrivo, un giovedì, Giacomo «la vide e non
gli dispiacque, ma le ebbe a dire pochissime parole, e non
ci si fermò col pensiero ». Il giorno appresso, u le disse fred-
damente due parole prima del pranzo >>, e durante il pranzo,
« taciturno al suo solito, le tenne sempre gli occhi sopra,
ma con un freddo e curioso diletto di mirare un volto più
tosto bello, alquanto maggiore che se avesse contemplato
una bella pittura ». 1 fratelli, piìi fortunati o piìi intra-
prendenti, " giocarono alle carte con lei », mentr'egli, '( in-
vidiandoli molto, fu costretto di giocare agli scacchi con
un altro ». Poi, la signora medesima desiderò che Giacomo
« le insegnasse i movimenti degli scacchi »; e in lui si destò
una voglia ardente di giocar con lei sola, « e così ottenere
quel desiderato parlare e conversare con donna avvenente ».
Perciò <' sentì con vivo piacere che sarebbe rimasa fino alla
sera dopo ». E quella sera, giocarono insieme; ma invece
che felice, ne uscì « scontentissimo e inquieto ».
' Diario (Vamorc, ora pubblicato negli Scritti rari inediti, p. 1G5 ss.
— Il Mariotti, nella « Nuova Antologia » del 10 gennaio 1898, n'ha ri-
prodotto l'lmmaQ:ine, di sn una miniatura dell'ab. Niccoli.
IL PRIMO AMORE 383
Avea giuocato senza molto piacere, ma lasciai anche con dispia-
cere, pressato da mia madre. La signora m'avea trattato benignamente,
ed io per la prima volta avea fatto ridere colle mie burlette una dama
di bello aspetto, e parlatole, e ottenutone per me molte parole e sor-
risi. Laonde cercando fra me perchè fossi scontento, non lo sapea tro-
vare.... E ad ogni modo io mi sentiva il cuor§ molto molle e tenero,
e alla cena osservando gli atti e i discorsi della signora, mi piacquero
assai, e mi ammollirono sempre più.
Da qualche accenno capì che la signora, la quale ora
gli « premeva molto », sarebbe ripartita l'indomani, 14 di-
cembre, all'alba, « né l'avrebbe riveduta ». Postosi in let^^o,
vegliai sino al tardissimo, e addormentatomi, sognai sempre come un
febbricitante, le carte, il giuoco, la signora.... Svegliatomi prima del
giorno (né più ho ridormito) mi sono ricominciati, com'è naturale, o
più veramente continuati gli stessi pensieri.... E sentendo prima pas-
sare i cavalli, poi arrivar la carrozza, poi andar gente su e giù, ho aspet-
tato un buon pezzo coll'orecchio avidissimamente teso, credendo a
ogni momento che discendesse la signora, per sentirne la voce l'ultima
volta: e l'ho sentita. Non m'ha saputo dispiacere questa partenza,
perchè io prevedeva che avrei dovuto passare una trista giornata se
i forestieri si fossero trattenuti.
Quell'apparizione femminile gli destò in cuore un su-
buglio di affetti e di sentimenti : « inquietudine indistinta,
scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto,
e desiderio non sapeva di che; né anche fra le cose possi-
bili vedeva niente che lo potesse appagare ». Avendola
sempre avanti alla mente, et non soft'riva di fissare lo sguardo
nel viso, sia deforme... o sia bello, a chicchessia, né in figure
o cose tali ; parendogli che quella vista contaminasse la
purità di quei pensieri e di quella idea ed immagine spi-
rante e visibilissima che aveva nella mente ». E così, sfug-
giva il sentir parlare, disprezzava molte cose da lui prima
non disprezzate, anche lo studio, al quale aveva chiusis-
simo l'intelletto, « e quasi anche, benché forse non del
tutto, la gloria»; ed era ^vogliatissimo al cibo, il che n